“Cuore di tenebra” di Joseph Conrad: i bianchi si somigliano tutti

Banale deriva dal medievale antico bannum, da cui bando; nell’antico germano era ban. Una banalità: la cosa più urgente, al giorno d’oggi, come lo era anche ieri e penso che lo sarà anche domani, è cercare d’essere brave persone e di pensare all’Altro come a un proprio simile. Il resto verrà da sé. Non c’è forse concetto filosofico più ostile alla natura umana.

Cuore di tenebra di Joseph Conrad
Cuore di tenebra di Joseph Conrad

Le parole possono condurre un uomo a bannarne un altro sui social, o a comportarsi da bandito, oppure a bandire da sé ogni forma di disonestà. Le parole sono fluide, e lo si sa che, mentre i solidi restano per lo più immoti, in nervosa attesa di un’attrazione, i liquidi, che pur obbediscono ai medesimi principi, scorrono sempre finché incontrano un piano inclinato, dalla loro sorgente fino al mare. Si tratta della medesima forza attrattiva, che in loro è assai più evidente.

Un altro pensiero m’è sorto in questi giorni di guerra: io sono contro la guerra e a favore di una pur caduca e finta pace, che sarebbe di fatto un armistizio, uno stare con le armi in mano, in attesa degli eventi. Essa sarà sempre simulata e irreale finché esisteranno le nazioni.

Cesare compì genocidi in Gallia e in tutta Europa. Nessuno ci pensa più. Chi disse d’amare il viandante che incontri sulla strada finì da questi crocifisso. Oggi il mostro è quel putto allevato dal KGB. Domani chi sarà mai?

Ogni libro di Joseph Conrad che leggo mi stupisce per l’assoluta mancanza di banalità, intesa come cosa di poco conto, e per la sua meravigliosa capacità di comunicazione.

Il primo io narrante di Cuore di tenebra ha la funzione di presentare il secondo (un meccanismo che usò qualche decennio prima Mary Shelley in Frankestein), che è Charles Marlow, un attempato marinaio che ne ha viste e vissute tante nella vita e che non riesce a non raccontarle.

La più penosa delle banalità è che il vero io narrante è Joseph, il cui vero nome è Józef Teodor Konrad Korzeniowksi che nacque a Berdyčiv, in Podolia, una regione polacca, poi annessa alla Russia zarista, e ora appartenente in parte all’Ucraina, e in parte, a sud ovest, in territorio moldavo.

Dalla sua vita travagliata al pari di quella dei personaggi dei suoi romanzi e racconti, deriva il fatto che li scrisse in una lingua che fu la terza (dopo il polacco e il francese) che imparò, quando aveva già una ventina d’anni. Panta rei, tutto scorre, soprattutto le parole, oltre che i liquidi, come s’è detto (e ânch al scarîc da’l cèso).

Un’ultima questione preliminare. Se si va a cercare negli archivi telematici, Cuore di tenebra è considerato un racconto, mentre io l’ho letto come si fa con un romanzo.

“‘E anche questo’, disse Marlow all’improvviso. ‘è stato uno dei luoghi tenebrosi della terra’.”in questo momento la nave su cui sta viaggiando insieme al resto della ciurma è ancorata sul Tamigi, nell’attesa che la marea consenta di iniziare un nuovo viaggio.

Il duca di Normandia William, detto the Conqueror già da prima del 1066, anno in cui fu incoronato re d’Inghilterra, fu l’ultimo invasore della maggiore isola britannica, ma se il re Giovanni il 15 giugno 1215 accettò una Magna Carta libertatum vuol dire che le truppe romane dell’imperatore Claudio, a partire dal 43 d. C. avevano illo tempore colpito duro. A me am piêş trinchêr (ma anca tracanêr, nonché schicrêr, schiccherare) e se non dico che mé a laik a drincher è perché io, oltre che latino, unno eccetera, non sono granché anglofono, bensì un meş goto, derivando quel termine dal tedesco trinken, come insegna la linguista fidentina Claretta Ferrarini.

Quando l’uomo capirà che il suo sangue appartiene tanto a invasori quanto a invasi e che chi è greco fu a suo tempo barbaro, e viceversa, forse cesserà di voler distruggere per conquistare le successive rovine del mondo che gli è attorno. Mi domando se Conrad volesse finalmente accendere una fiaccola che illuminasse tale buia questione. La risposta me la sono data leggendo questo straordinario libro.

I marinai sono tipi fatti a modo loro. Si dice che abbiano una donna a ogni porto. C’è il detto campano che rende l’idea: ‘n tiempo ‘e tempesta, ogni pertuso è puorto, ogni buco è un porto che ti può accogliere, come una vagina, ma è anche un orifizio anale che può espellerti come un escremento. Anche la necessità di scrivere è un’impellenza a fuggire da dove sei, e a ripararti se sta diluviando.

Parlando degli equipaggi delle navi, l’io narrante spiega: “La loro indole è di inclinazione casalinga; e la loro casa – la nave – è sempre con loro, e così la loro patria, iil mare.”

Poco sopra il primo io così aveva descritto Marlow: “Egli era il solo fra noi che ancora ‘seguiva’ il mare. Il peggio che si potesse dire sul suo conto era che non rappresentava per nulla la sua categoria. Era un marinaio, ma anche un vagabondo, mentre la maggior parte dei marinai conduce, se così si può dire, una vita sedentaria.” Non ci avevo mai pensato. Poche categorie di lavoratori, quanto i marinai di lungo corso, per necessità di lavoro, escono così poco, costretti a rimanere, come dire, all’asciutto. Forse Marlow prediligeva la nave, come io l’automobile, non tanto per viaggiare, quanto per arrivare in un luogo, e scoprire cosa, nel suo alveo, c’è di diverso dal precedente sito che ho visitato. Quest’apparente contraddizione è tipica dell’uomo, sia che si chiami Ulisse o signor Rossi.

“I racconti dei marinai hanno una semplicità immediata e i loro significto sta tutto dentro un guscio di noce. Ma Marlow non era il tipico marinaio (se non per la sua tendenza a raccontare storie)” – e fin qui tutto bene; ora viene il difficile: “per lui il significato di un episodio non andava cercato all’interno del guscio come un gheriglio, ma all’esterno, avvolgendo il racconto che generava con un bagliore genera intorno a sé una zona di penombra allo stesso modo in cui l’illuminazione spettrale del chiaro di luna rende a volte visibili gli aloni nebulosi.” – non era interessato a nutrire il corpo, quanto l’anima che finisce per seguire ogni sorta di scia luminosa, a volte luciferina.

Si sa quanto per l’autore le linee d’ombra siano quelle che inducono a scegliere quale ulteriore tragitto seguire. È quando ci si vede poco che si ha la necessità di accendere il lume (della ragione).

“Stavo pensando a quei tempi lontani, a quando i Romani vennero qui per la prima volta, millenovecento anni fa, l’altro ieri… Da allora una luce è venuta da questo fiume…” – chiarendo, poi, nel senso reale della parola: “… è come una vampata che corre nella pianura, come un lampo fra le nubi. Noi viviamo in quel guizzo – che possa durare finché questa vecchia terra potrà girare!” – speròm dai! 

E poi inizia a narrare quel che gli capitò di vedere nel continente più oscuro del mondo: l’Africa.

Quand’era ragazzo, dice, “avevo la passione per le carte geografiche” finendo per perdersi “nelle glorie dell’esplorazione. A quei tempi c’erano molti spazi vuoti sulle carte terrestri…” – e, sebbene “il Polo Nord era uno di quei luoghi”, e mai ci si recò, un altro era “il più grande, il più vuoto, se così si può dire, dal quale ero particolarmente attratto.” – il buco più grande, caldo e accogliente. 

“Pare che la Compagnia fosse venuta a sapere che uno dei suoi capitani era stato ucciso in uno scontro con gli indigeni. Fu questa la mia occasione, che mi rese ancor più impaziente di partire.”

Tutto era nato da “un malnteso per delle galline”: il vecchio capitano, persona in genere mite, perse la testa sentendosi imbrogliato da quei selvaggi, per cui divenne manesco, funendo per picchiare “il capo del villaggio con un bastone.” – e per questo fu trafitto da una lancia. Dopo di cui “la popolazione era svanita. Un terrore folle le aveva dispersi tutti nella boscaglia, uomini, donne, bambini, e nessuno era più tornato. Persino le galline, non so che fine abbiano fatto.” – secondo me se le son prese: quei tipi erano primitivi, ma mica erano scemi.

Una frase mi colpisce, perché io la destinerei ai cinesi:i bianchi si somigliano tutti…” – differenziandosi dal resto degli umani. Per evitare le guerre, forse si dovrebbe auspicare un maggior numero di matrimoni misti. Da parte mia, ho sposato un’italiana, ma quando scesi per la prima volta ad Amalfi, l’aiuto parcheggiatore del pullman chiese scherzoso a un turista che pareva un po’ spaesato, se tenesse ‘o passaporto, essendo ivi giunto nel cuore dell’antica Repubblica Marinara. A ottocento metri da quel comune c’è Atrani, uno dei paesi più piccoli d’Italia. Alla domanda del perché i due municipi non si uniscano, anche per risparmiare nei costi dell’Amministrazione, un indigeno mi rispose che il giorno di Sant’Andrea, patrono di Amalfi, ad Atrani pregano che piova. Da quando abito per una grande fetta del mio tempo in Campania, la mia idea del mondo si è evoluta, notevolmente illuminandosi, ma non sempre si è rasserenata.

“Il mio primo colloquio con il direttore fu singolare. Malgrado quella mattina avessi camminato per venti miglia, non mi offrì neanche una sedia.” – era un tipo che ispirava “solo disagio”. La sua miglior qualità, in quei luoghi si potrebbe definire portentosa, era “godere di buona salute là dove tutti crollano”. Era il dominus della situazione: “Dove si sedeva lui, quello era il posto d’onore, il resto non esisteva.”

La giustizia è il locum dove una comunità esprime la sua etica, che pure anch’essa scorre da tutte le parti, talvolta sbandando un poco, perché ogni fluido, come il mio idraulico diceva dell’acqua, intende scorrere dove desidera lei.

“Non lontano da lì, stavano bastonando un negro. Dicevano che, in qualche modo, era stato lui a provocare l’incendio; vero o no, strillava in un modo orribile.” – assai fastidioso per le nostre pallide e fragili orecchie. Quando finirono le botte, soffrì per conto suo alcuni giorni, e poi “se ne andò, e la silenziosa landa selvaggia se lo accolse di nuovo nel suo grembo.”

Amara considerazione: “Dopotutto c’è qualcosa nel mondo che permette a un uomo di rubare un cavallo, mentre a un altro non concede nemmeno di guardare una cavezza. Rubare un cavallo con decisione. Benissimo. L’ha fatto. Forse è anche capace di cavalcare. Ma c’è un modo di guardare la cavezza che spingerebbe il più caritatevole dei santi a tirare calci.” – a me quello che più preoccupa è quell’iniziale Dopotutto. E noi restiamo qui, rabbiose vittime del passato e inconsapevoli carnefici dei nostri posteri che, per vendetta, sbraneranno i nostri ricordi: quannu su muortu tinni fai nu tianu, dicono nel Cilento, quando sono morto te ne fai (di me) un tegame.

Qui Marlow sente per la prima volta parlare del “signor Kurtz”, che viene definito “l’emissario della pietà, della scienza, del progresso e il diavolo sa di chia alto ancora…” – Satana conosce bene i suoi polli. Il suo fine (non di Satana, ma del suo pollo) è “portare a buon fine la causa che ci è stata affidata dall’Europa…”.

Come un novello Redentore, “per questo lui è venuto quaggiù, un essere speciale, come lei dovrebbe sapere.”e il fatto che Marlow lo ignora, non stupisce il suo interlocutore, perché non ci fa caso, preso com’è da una foga che pare quasi religiosa. Mi fa amaramente sorridere che questi definisce Marlow, ma in primo luogo quell’ermo lui, facente parte della “banda della virtù”. Marlow lo definisce un “Mefistofele di cartapesta”.

Non si capisce quanto il discorso di quello sia schietto, oppure mirato a dissimulare la propria ambigua ambizione di diventare il “vice direttore”, per cui la venuta di Kurst potrebbe disturbare i suoi piani: “Tutto era immenso, muto, in attesa, mentre quell’uomo continuava a parlare di sé. Ed io mi domandavo se quella quiete, sul volto dell’immensità che ci contemplava, fosse una supplica o una minaccia” – le due facce della medesima medaglia, che ne presenta una o l’altra a seconda di come gira l’aria.

“E noi che eravamo andati a perderci laggiù, che cosa eravamo? Eravamo in grado di dominare quella cosa muta, o piuttosto sarebbe stata lei a dominarci?” Condivido la prossima frase, augurandomi d’essere a mia volta sincero: “Nella menzogna c’è un odore di morte, di corruzione della carne, che mi ricorda ciò che mi fa più orrore al mondo e che cerco di dimenticare.”la scrittura è la più subdola e amabile delle finzioni, la più illusoriamente eterna.

“È come se stessi cercando di raccntarvi un sogno, sforzo vano, perché non c’è racconto di un sogno che possa rendere la sensazione del sogno: que miscuglio di assurdità, di sorpresa e di…” – e qui sospendo il riporto, tanto è inutile far finta d’essere completo. Avverto il lettore che una parte del presente romanzo non è stato nemmeno pensato dall’autore, e men che meno scritta da lui medesimo. Il concetto, volutamente astruso, è popperianamente non fasificabile, cioè religioso, lo ammetto, per cui proseguo nella mia disamina.

Dice il primo io narrante che, mentre il buio impediva di vedere, per quanto egli fosse vicino, quel che faceva il prossimo, magari qualcuno s’era appisolato, egli seguiva con attenzione la voce di Marlow. Era essa che dominava la scena: “Ascoltavo aspettando la frase, la parola che mi avrebbe dato la chiave del lieve disagio suscitatomi da quel racconto che sembrava formarsi da solo, senza l’ausilio di labbra umane, nell’aria grave della notte sul fiume.”

Va segnalato che il battello su cui a quel tempo Marlow viaggiava aveva come equipaggio dei cannibali, da lui definiti “brava gente”, nonché “uomini con cui si poteva lavorare e a cui sono grato. E poi non si sono mangiati tra di loro sotto i miei occhi.” – non dei vegani, ma gente semplice, che mangiava quello che offriva il convento, come tutti quanti i buoni cristiani.

“… il piccolo battello avanzava con fatica, sudicio, simile a uno scarafaggio che si trascini pigramente sul pavimento di un ampio porticato.” – e più tardi Marlow lo definisce: “barattolo di latta” da far avanzare evitando “le insidie dei tronchi sommersi” e “con le buone o con le cattive”.

Molto più avanti verrà chiamato “quello sciancato di un battello”.

Gli umani di quel luogonon erano inumani” e questo “sospetto” lo sconcertava. “Ululavano e saltavano, si contorcevano e facevano delle orribili smorfie; ma quello che faceva rabbrividire era proprio il pensiero della loro umanità simile alla nostra – il pensiero di una nostra lontana parentela con quella violenza selvaggia e appassionata. Sgradevole…”eppure qualche atavico ricordo veniva destato in lui: “La mente dell’uomo è aperta a tutto, perché contiene tutto, il passato e il futuro.” – dove, insieme a tutti i sentimenti umani, risiede (forse, ma questo lo aggiungo io, quale terzo io narrante) “la verità, la verità spogliata del suo mantello temporale”. 

Disse quel mitico viaggiatore:Ahi quanto a dir qual era è cosa dura/ esta selva selvaggia e aspra e forte/che nel pensier rinova la paura!”

Ora, in questa intricatissima foresta è più cogente occuparsi di quelle quasi disumane grida che si odono da lontano, nonché la domanda “Attaccheranno?” – due diverse reazioni: i bianchi sono “sconvolti” e “dolorosamente colpiti da un simile tumulto scandaloso”; i negri, cioè “gli altri, invece, avevano un’espressione vigile e naturalmente interessata, ma i loro volti erano essenzialemnte distesi…” – tanto che il capo di quelli, si limitava a dire “Aha!” e poi “Prendeteli”; “e per farne che?”, gli chiede qualcuno, la risposta è lapalissiana: “Mangiarli!” – Totò direbbe, esibendo l’ombrello, questo è… ovvio!

Secondo Marlow, il pericolo “dipendeva dal fatto che ci troavvamo in prossimità di una grande passione umana senza freni, anche il dolore estremo può risolversi in violenza – anche se più spesso si traduce in apatia…– i puntini sono al momento suoi.

Il pensiero del quale va sempre a quella figura mitica del “signor Kurtz” e quello che lo preoccupa non è di non vederlo, di non potergli stringere la mano, ma che, se è vero che è morto, “non lo ascolterò mai”, essendo rinomata “la sua abilità nel parlare, erano le sue parole – il dono dell’espressione, lo strabiliante, l’illuminante, il più esaltante e il più spregevole, il flusso pulsante della luce, o l’ingannevole scorrere del cuore di una tenebra impenetrabile.”

Quella gente stava scavando fosse dove “i negri a volte seppelliscono le zanne”. L’avorio che sarebbe spettato, per un diritto quasi divino, a lui, “il signor Kurtz”. E che, come il resto del cosmo, “era tutto suo”. Dilemma:Apparteneva tutto a lui, ma questo sarebbe stato irrilevante. Il punto era sapere a cosa apparteneva lui, quante potenze della tenebra lo rivendicassero come loro proprietà.” – mio goffo tentativo di risposta: Tutte e nessuna!

Per noi normali, e la parola desta fondati sospetti,la terra è un luogo in cui bisogna vivere” – ed è lì “che entra in gioco la forza personale, la fiducia nella propria capacità di scavare delle fosse non troppo vistose per seppellirvi tutta quella roba: la capacità di dedizione, non tanto a noi stessi, ma a un oscuro ed estenuante mestiere.” – mi domando quanto alienante. Quello di Marlow è di farsi “una ragion di… di… di quel signor Kurtz. Questo iniziato fantasma, scaturito dal fondo del Nulla…”. Lui, Marlow conosceva il rapporto che Kurtz aveva scritto su richiesta della “Società Internazionale per la Soppressione delle Usanze Selvagge” – e non poteva che garantire all’uditorio che in quelle “diciassette pagine fittisssime” quel diabolico tipo era stato “eloquente, vibrante di eloquenza, ma, forse, un po’ troppo elevato, credo.”

La sua idea base era che i bianchi fossero consideraticome degli esseri soprannaturali; ci accostiamo a loro come una potenza quasi divina…”. Inoltre: “Con il semplice esercizio della nostra volontà possiamo esercitare un potere benefico praticamente illimitato…”; con la mirabile e inopitata chiusa (forse aggiunta in un secondo tempo, per qualche sconosciuto motivo): “Sterminateli tutti questi bruti!”.

Marlow condannerebbe volentieri all’oblio questo lungimirante alfiere della vanità europea, “a un eterno riposo nell’immondezzaio del progresso, in mezzo a tutti i rifiuti e – parlando metaforicamente – a tutti i gatti morti della civiltà.” Marlow sente di non aver più “scelta”:Quell’uomo non vuole farsi dimenticare. Qualsiasi cosa fosse, non era un uomo comune. Aveva il potere di incantare o atterrire le anime semplici al punto che in suo onore si lanciavano in frenetche danze rituali; aveva anche il potere di infondere nelle animucce dei pellegrini amari presagi.” Il direttore lo avverte che con tanto uomo non si dialoga, si sta ad ascoltare e basta. Anche se non lo ha forse capito granché, costui gli dice che “quell’uomo mi ha allargato la mente”; detto questo, “spalancò le braccia, fissandomi con i suoi occhietti azzurri, perfettamente rotondi.”

Sempre secondo quella fonte contraddittoria, “il signor Kurtz era privo di qualsiasi autocontrollo nel soddisfacimento dei suoi vari appetiti”, e alla fine “gli mancava qualcosa, una piccola che, quando il bisogno diventava urgente, si cercava invano soto la sua magnifica eloquenza.” Delle teste “si rinsecchivano sui pali sotto le finestre del signor Kurtz”, erano “le teste dei ribelli”.

Nel vederlo, finalmente, scopre che Kurtz (che significa “corto” in tedesco), aveva un nome che “era altrettanto vero quanto il resto della sua vita – della sua morte. Sembrava alto almeno due metri.” La prima cosa che dice a questo nuovo ospite della sua selvaggia reggia è un garbato “Molto lieto.” Egli era riccamente adornato di orpelli, il cui valore era “di parecchie zanne di elefante”. Al suo cospetto, “nell’improviso silenzio” in cui il cosmo era piombato, “quella terra afflitta, l’immensa landa selvaggia, quel corpo colossale di vita feconda e misteriosa sembrava pensososamente gardarla, quasi contemplasse in lei l’immagine della prorpia anima tenebrosa e appassionata.” – ho girato e rigirato la frase in modo che non si capisca più chi stia mirando che.

Joseph Conrad
Joseph Conrad

Kurtz ha un piccolo, ma irrisolvibile problema: sta tirando le cuoia. Un russo dice a Marlow che confida in lui, nella sua memoria, e quello lo tranquillizza, dicendogli: “‘La reputazione del signor Kurtz è in buone mani, per quel che mi riguarda’. Non sapevo fino a che punto stessi dicendo la verità.” Marlow sorregge il morituro, che “non era più pesante di un bambino.” – il suo corpo ancora vivo fu portato “nella cabina di pilotaggio: c’era più aria lassù.”

La sua tribù ora sta quasi insorgendo al fine di liberare il suo pur esausto monarca, ma poi tutti quanti fuggono allorché Marlow tira “la cordicella della sirena” e “a quell’improvviso stridore un movimento di abietto terrore attraversò quella massa compatta di corpi”. In quel momento “la scura corrente si allontanava rapido dal cuore della tenebra, portandoci giù verso il mare a una velocità doppia di quella della nostra risalita…”.

Kurtz non sopporta la vista di quel mondo ormai svanito d’incanto, e grida: “Chiudete il portello!”. Poi, un bel dì consegna a Marlow “un pacco di carte e una fotografia, il tutto legato con un laccio da scarpe.” – in modo che lui nascondesse quel tesoro a “quel magnifico imbecille (alludendo al direttore)”, che sarebbe capace “di frugare nelle mie casse se non sto attento.” Egli “Gridò con un sussurro verso non so quale immagine, quale visione – due volte gridò, con un grido che non era che un sospiro: ‘L’orrore! L’orrore!’ Soffiai sulla candela e uscii dalla cabina.” Qualcuno, precisamente “il servitore del direttore” a un certo punto dichiara: “Signor Kurtz – lui morto.” Amen.

Sintetizzo il pensiero di Marlow: della vita è possibile una qualche, pur tardiva conoscenza, oltre che “un mucchio di inestinguibili rimpianti.” La lotta contro la morte è a volte tediosa poiché “si svolge in un grigiore impalpabile, con niente sotto i piedi, niente attorno, senza spettaori, senza clamore, senza gloria, senza un forte desiderio di vincere, senza il timore della sconfitta, in una insalubre atmosfera di tiepido scetticismo, senza una ferma convinzione nel proprio diritto, e meno ancora in quello dell’avversario.” – la vita non so, ma la forza di tal pensiero dipende da quei senza.

“Se questa è la forma suprema della saggezza, allora la vita è un enigma più grande di quello che molti di noi pensano.”oppure infinitamente più piccolo, come lo spazio di Planck, che basti dire che, o ha leggi sue particolari, oppure non ne ha alcuna.

“… forse tutta la saggezza, e tutta la verità, e tutta la sincerità sono concentrate in quell’imponderabile momento del tempo in cui noi oltrepassiamo la soglia dell’invisibile. Forse!”.

Fors/fortis, per caso, o per necessità? Questo è il problema.

Kurtz “era un genio universale…”e forse lo siamo tutti, oramai.

“La visione sembrò entrare nella casa con me” – tutto quanto, compreso “il rullio del tamburo, regolare e soffocato come il battito di un cuore – il cuore di una tenebra vittoriosa.”

Marlow, giunto a Bruxelles, si reca dalla donna di Kurtz. La quale “teneva il capo dolente eretto, come se fosse fiera di quel dolore…” – e lui capì, credette di capire “che lei non era di quelle creature di cui il tempo si fa gioco. Per lei era come se lui fosse morto solo ieri…” – tanto che a quel narratore parve di vederli “entrambi, lei e lui, nello stesso istante – la morte di lui e il dolore di lei…”. Lei ha una fede: “Le sue parole, almeno, non sono morte.” – al che lui conferma: “Le sue parole resteranno.” – idem per la di lui bontà: che “splendeva in ogni sua azione. Il suo esempio…” – e stavolta i puntini sono di lei, o di Marlow, o di Conrad, cosa cambia ormai: li ho fatti miei…

Marlow le narra l’ultima fandonia: “L’ultima parola che pronunciò fu – il vostro nome.”

Era ingiusto, pensa il primo io narrante: era contro la giustizia che aveva promesso a quell’eroe quand’era morente. Ma non poteva agire diversamente, davanti a quella sacerdotezza di un dio ormai dissolto: “Non potevo dirlo a lei. Sarebbe stato troppo tenebroso, troppo tenebroso…” – i puntini sono sempre altrui ma me li pappo di nuovo io.

Chiusa chiarificatrice (ma non è vero!): “L’orizzonte era sbarrato da un banco di nubi nere e il tranquillo corso d’acqua, che portava ai confini estremi della terra, scorreva cupo dotto un cielo coperto – sembrava condurre ne cuore di un’immensa tenebra.”

Scrivere e leggere sono vani tentativi di cogliere quel fluido vivente che s’irradia ormai dappertutto. Senza contare il titolo, ho catturato dieci parole con tenebra e con aggettivi che da essa derivano. Solo cinque con cuore (che non porta con sé derivati). Questo dà l’idea che nel cosmo di come la misura del buio superi quella del miserabile muscolo a cui noi attribuiamo tanto valore. Esiste però il valore legato alla qualità, al cosiddetto libero arbitrio.

Ed è quest’ultima àncora, che talvolta qualcuno decide di issare a bordo, che ha spinto Marlow a raggiungere “il signor Kurst” nel centro di quell’enormemente oscuro e assurdo continente e che consente a me (e a voi tutti) d’inseguire il proprio minuscolo, pulsante e lucentissimo sogno, che tutti brameranno invano di raggiungere, e che nessuno saprà mai interpretare.

Poi, non si sa cosa (non) si vedrà. Un romanzo è perfetto se contiene la giusta dose d’imperfezione. E questo lo è, perfetto, ma non del tutto, per nostra buona ventura.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Joseph Conrad, Cuore di tenebra, Einaudi, 2016

 

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