Le métier de la critique: l’Ermetismo, allegoria di una incomunicabilità
Il periodo di attività letteraria che si svincola dalla celebre triade Carducci–Pascoli–D’Annunzio si definisce come poesia contemporanea.

L’Italia appena uscita dal Risorgimento palesa la grande assenza di un primo poeta, di una carica ufficiale la cui mancanza sancisce una letteratura senza capi.
Questo tipo di letteratura non è centralizzato in Italia bensì in un contesto prettamente occidentale, matrice questa condivisa dal movimento letterario dell’Ermetismo.
Quest’ultimo si sviluppò in due tappe:
– La prima tappa da collocarsi intorno al 1930, ovvero quando si inizia a diffondere la tendenza di definire ermetica la poesia pura[1];
– La seconda tappa ufficiale dell’Ermetismo è da collocarsi nel momento in cui la parola divenne di uso comune sancendo una poetica conscia dei suoi precetti e dei suoi fini. Questo processo avvenne intorno al 1938 e interessò simultaneamente anche una seconda tendenza, di stampo critico.
In Italia si diedero spiegazioni storiche al profilarsi di questa corrente: si fece dipendere da quel periodo particolare indotto dal fascismo, periodo in cui la censura inibiva e impediva il “parlar chiaro”, l’unico modo era ricorrere ad un “parlar oscuro”.
C’era un latente senso di esclusione da questa premessa storica: l’uomo si sentiva escluso ed isolato da una società a cui non sentiva di appartenere, cercava quindi un fondo individuale ed asociale a cui ancorarsi.
Questo sentimento che animava l’Ermetismo italiano decretava un paradosso di fondo: la scrittura è per antonomasia un modo per comunicare, diventa viceversa un espediente attraverso cui custodire ciò che non si vuole condividere e comunicare.
“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco/ lo dichiari e risplenda come un croco/ perduto in mezzo a un polveroso prato.// Ah l’uomo che se ne va sicuro,/ agli altri ed a se stesso amico,/ e l’ombra sua non cura che la canicola/ stampa sopra uno scalcinato muro!// Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/ sì qualche storta sillaba e secca come un ramo./ Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”[2]
Il linguaggio diviene insomma allegoria di una incomunicabilità e la poesia ermetica diviene la poesia dell’orfano che in quanto tale denuncia la propria solitudine, che altro non è che l’incomunicabile solitudine del poeta.
L’ermetismo mette in atto anche un processo di sparizione dell’Io.

Quello che si presenta è un uomo indeterminato, non l’uomo che esprime, che traduce un sentimento condiviso, bensì un uomo indefinito che si sottrae al compito di rappresentare la collettività, prefigurando momenti di pura esistenza sigillati in una incomunicabilità esistenziale.
“Uomo che speri senza pace,/ Stanca ombra nella luce polverosa,/ L’ultimo caldo se ne andrà a momenti/ E vagherai indistinto…”[3]
Questi versi esprimono tutta l’indeterminatezza e l’inquietudine dell’uomo ridotto a Ombra, destinato a vagare indistintamente e continuamente.
Written by Manuela Muscetta
Note
[1] Per poesia pura si era soliti intendere un tipo di poesia che non si prestava ad essere risolta, della quale insomma non si poteva rendere una traslazione discorsiva.
[2] “Non chiederci la parola”, Eugenio Montale
[3]“ Ombra”, Giuseppe Ungaretti