“Lettere di una novizia” di Guido Piovene: non si può vivere nella caducità dell’inganno

Alla fine mi pare una follia commentare Lettere di una novizia, singolare romanzo epistolare di Guido Piovene, quando è già l’autore che ne parla in termini chiarissimi nella sua illuminante Prefazione, i cui punti-chiave provo ora a riportare.

Lettere di una novizia di Guido Piovene
Lettere di una novizia di Guido Piovene

“I personaggi di questo romanzo, sebbene diversi tra loro, hanno un punto comune: tutti ripugnano dal conoscersi a fondo.” – tutti quelli degni di nota, s’intende. Forse non ognuno di noi lo è, né lo è forse il cameriere Giacomo, che il lettore conoscerà di sfuggita, il tempo di un lampo, come si suol dire. Anche lui ha avuto il suo quarto d’ora di celebrità, ma ben poco sapremo ancora di lui.

Tale comportamento “siamo forse costretti a definirlo malafede.” – forse è un avverbio ricco di mistero, perché deriva da fors, caso, forse destino, forse fato. Uno scrittore è sempre in malafede, per quanto possa sembrare sincero persino a se stesso.

Anche la scrittura più realistica è magica, illusoria, resa in una finzione che ricrea il mondo, è un inganno in cui è bello credere, ogni lettore beandosi nel suo prodigioso alveo.

A thing of beauty is a joy for ever: mai verso di Keats fu, da me, meno incidentalmente riportato, poiché fu ogni volta volutamente trasmesso a chi ha la ventura di leggermi.

“La malafede è un’arte di non conoscersi, o meglio di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza.” – la verità è sempre effettuale e non ha mai cessato di produrre energia, anche se è fondata sulla maldicenza e sulla menzogna.

Un amico, ora ex a quanto pare, m’accusò una volta d’essere menzognero. Lo ammetto: questo mi capita ogni volta che scrivo qualcosa, anche nella frase che precede è successo. Io sono come quel cretese che, citato da Epimenide, ricordato da Paolo, ritrasmesso da Godel, asseriva senza tema d’essere contraddetto (essendo impossibile) che tutti i cretesi sono bugiardi.

“Dico che un uomo è sempre, o mai, in malafede; la malafede non è uno stato dell’animo, è una sua qualità.”come il riso della iena e ancor di più come le sue zanne voraci, e come il battito d’ali d’un colibrì.

“Chiunque di noi scriva libri, cerca di fornire figure del bene come del male, ma ricava le une e le altre da una medesima informe qualità umana, sua personale e diversa dalle altre, da cui nascono il bene e il male di vota in volta; la qualità umana di questo libro è, piaccia o non piaccia, la mia, s’intende come scrittore; tanto che…” e poi Guido continua a illuminare la mente altrui, anche dopo avere spento la propria da ormai mezzo secolo.

Mi pare doveroso sottolineare l’infida sincerità che emana da queste ambigue e schiettissime parole.

Questa pretesa prefazione è la prima delle lettere, e non è la meno in malafede. Del resto cos’è la fede se non un’assurda condizione dello spirito di chi accetta di credere nella più splendida delle fole? Credo quia absurdum ammetteva Tertulliano. Io credo di non sapere in cosa credo.

“La morale fanatica della chiarezza interiore non è utile all’arte in quanto combatte e distrugge il mondo dei sentimenti, che quando essa interviene pare tutti fittizi, non perché siano tali, ma perché giudicati secondo una regola estranea che li fa parere illusioni.” – e poi l’autore accenna a “motivi anche più gravi dell’arte”.

Dice poi che i moderni, rispetto ai loro antenati, necessitano, anzi sono “costretti all’acume”. Non si può però vivere ogni volta nella caducità causata dall’inganno. Per cui: “ognuno di noi, come medico, nel suo animo deve saper rischiarare o abbuiare, ricordare o, se occorre, lasciar cadere nell’oblio, e regolare la chiarezza interiore con una specie di umana diplomazia.”

In quegli anni (il romanzo è stato edito nel 1941), il fisico quantistico Heisenberg pubblicò il celebre principio d’indeterminazione, per cui non è possibile individuare con certezza, e simultaneamente, la posizione di una particella e la sua quantità di moto. Nessun dato è assodato, semmai è un po’ approssimato, e il buon ricercatore è tenuto ogni volta a scegliere quale delle due qualità va privilegiata; l’altra sarà negletta. Enten eller, diceva quel tale, che da noi fu tradotto (un po’ infelicemente): Aut Aut.

“Pure in quello che scrivo forse si sente, non il pensiero cattolico che sarebbe eresia, ma il riflesso di una civiltà del sentimento, che nasce dalla pratica del cattolicesimo e dalla sua cauta legislazione dei sentimenti dell’uomo. Anche per questo i personaggi del libro sono in gran parte religiosi, si muovono in ambienti vagamente ecclesiastici, senza che nulla sia preso però dal vero e senza aspirare nemmeno alla verosimiglianza. Se in essi è un germe religioso, possa dar frutto in altri libri, in personaggi di simile costituzione, ma che si salvino col decisivo passaggio dalla pietà degli egoisti alla carità dei cristiani.” – Amen!

In una lettera a lui indirizzata, “Margherita Passi, novizia del convento delle ** sui colli di **, a don Giuseppe Scarpa, canonico del Duomo di **” chiede consiglio, auspicando che tutto quello che le sta dicendo rientri in una sorta di segreto confessionale.

Non è una semplice lettera, l’infida narrazione della sua vita, dalla morte del padre, avvenuta “prima che potessi conoscerlo”, specificando che la mamma “viveva piuttosto con gli amici che coi familiari, tra crisi passionali, delicatezze fantastiche e presunzioni signorili, coltivate in disparte nella sua camera verde all’ultimo piano.” – una sorta di anima condominiale, separata in casa, cioè sciolta da qualsiasi legame che non sorga nell’alveo del suo cuore tormentato.

I nonni si curavano della piccola, gli unici a farlo, con l’eccezione di una bambinaia di nome Maria, “pigra e troppo nutrita”, con cui l’infante andava parecchio d’accordo, e che “ogni tanto m’accarezzava i capelli”. Finché, un bel giorno, e il motivo di tutto questo s’ignora, “con gli occhi pieni di lagrime inventai in un sospiro che Maria mi picchiava.”

Il nonno, che non crede a tale piagnisteo, mette la piccola alle strette, dicendole: “Ti do mezz’ora di tempo. Ora io scendo nella rimessa: quando ritorno devi essere pronta a confessare che hai mentito.”

I miracoli non sempre accadono quando rischiano di turbare il destino, per cui: “Senza pensarvi mi sentivo tutt’uno con quella che sono costretta a chiamare menzogna, colpevole, ma così mia, e così vera e mescolata ai miei affetti, che avrei difesa contro il mondo…” – la posizione attestata era quella, non altre.

Conseguenza di tale fenomeno fu la decisione insindacabile di Elisa, la madre, presente per l’occasione, d’inviarla dove meglio sarebbe stata educata: “quella bambina ha un carattere troppo difficile per essere educata in casa coi vostri metodi sentimentali; andrà in collegio…”.

E così fu. Venne affidata a delle monache, in compagnia delle quali trascorse l’adolescenza: “… dall’istante del mio ingresso in collegio è cominciata la serie degli anni opachi; nessun episodio si illumina, nessuna figura vive; passano vuoti e veloci quanto spiacenti.”

Quel “letargo”, così Margherita (detta Rita) lo definisce, è una condizione che s’alterna alla frenesia di un’anima in pena, talvolta inerte, quando non serve affatto agitarsi.

“In questo tempo mi accorsi che non desideravo più di tornare a casa e che avevo cessato di amare anche la nonna.”che pur ogni tanto la veniva a trovare, e la bimba non sapeva che “ciondolare il capo”, mostrando un così misero interesse che spinse l’ava a dire: “Tu non mi vuoi più bene.” A quanto pare, “in quei giorni avevo deliberato di non amare più nessuno al mondo dedicandomi a Dio.”questo luminoso giovane, così affascinante, a volte anche adorato e prima o poi tradito.

“… quando rimanevo sola, durante le ore di riposo, o di notte, provavo ancora un bisogno di sfogo; correvo al tavolo, come facevo da piccola quando rispondevo a Gesù; scrivevo pagine impetuose e affannose, con cui narravo il passato a me stessa.” una mitopoiesi, e “inconsciamente ridestavo una soavità ed un incanto, che credevo perduti.”

È una recherche instabile e permanente: “il non riuscire a vedere chiaro in me stessa, anzi questo cangiare continuo della mia anima secondo il modo in cui la guardo, mi hanno riempito d’incertezza, di diffidenza per me stessa e di apprensione pel futuro.”che non contraddice di certo l’opinione di Bohr, maestro di Heisenberg che afferma che la particella esiste solo allorché è attestata, diversamente è un’onda imperscrutabile, di cui sono percepibili i soli effetti.

La lettera di Rita scatena un putiferio. Il vescovo ordina un’inchiesta, che viene affidata a “Don Paolo Conti, Segretario del Vescovo di **”, il quale stabilisce la necessità di ritardare “di un mese” la monacazione della ragazza.

Lo stesso don Paolo scrive a Rita: “Vi siete tracciata intorno un cerchio di cattiveria per coltivare la colpevole dolcezza del vostro cuore.” – che comunque la si rigiri mi pare una dichiarazione appassionata dalla natura anch’essa incerta.

Risponde Rita: “Il vostro tono non mi lascia più dubbio; per salvare me stessa e per non essere creduta bugiarda dovrò rivelarvi una parte penosa della mia vita”, e gli dirà ora della madre che, subito dopo la morte dei nonni, scomparsi entrambi nel tempo di un mese, la richiama a casa, dicendole: “Ti sei fatta una donna, ed io non sono vecchia; nessuno ci divide; vedrai che anch’io so voler bene.” – e una frase che inquieta la giovane: “Ora che siamo sole, possiamo parlare di tutto.”

Un’altra sentenza materna è: “Bisogna sempre avere il coraggio di dire ciò che si pensa”. La questione pare riguardasse però “la mia bocca e il mio naso, giudicando fino a che punto potevano dirsi perfetti”. E invitava la figlia a fare lo stesso coi suoi lineamenti.

“… dimenticavo le monache e le compagne, e una volta, a passeggio, simulai d’essere distratta per non doverle salutare”.

La madre confida nella somiglianza della figlia, ma anche nella sua diversità: “tu sei della mia natura, ti piace l’indagare, il sottilizzare su tutto; ma tu sei anche un carattere forte, che potrà aiutarmi.”

Rita smarrisce parte del suo tempo a dialogare con Giuliano, un giovane nobile e aggraziato, e quando torna la madre le chiede del motivo del ritardo. Rita mente, pur in modo amorevole (“… mi aveva colto il tramonto; non ero riuscita a lasciare uno spettacolo così seducente…”), al che: “Se tu dicessi queste cose ad un’altra – disse mia madre con gli occhi sempre più lucidi, restituita ormai alla felicità – non ti crederebbe perché pochi capiscono certe cose sottili. Io ti capisco: sono anch’io fatta così.”

Una timida confessione: “… ripresi un’abitudine infantile, di non guardare in faccia chi mi parlava, ma di tenermi ostinatamente voltata, fissa in un punto lontano, e quasi sempre una finestra.”

Mentre la madre era scompigliata in tutto, anche nei capelli, e sempre in preda all’angoscia, Rita confidava nella placida quiete che le ispirava quel giovane.

Rita consiglia la madre di raggiungere al più presto l’amato e, le dice, questo è forse quanto egli stesso desidera. La goffa genitrice prepara subito le valigie e parte, lasciando la figlia finalmente sola e beata.

“La mia indole è tale, che quanto più grave è un evento, tanto più mi è difficile farne un racconto drammatico, specialmente se soffro…” – a me pare quasi un crescendo rossiniano.

“… Giunta a narrarvi le ore più intense della mia vita, non posso far altro che metterle in una serie di notizie inerti; appunto perché mi sconvolgono, io non so accalorarle.”

Il suo fidanzato (che non era ancora tale) “si era ucciso per incidente scaricandosi addosso una doppietta da caccia.” – stendiamo per ora un velo penoso su quel disgraziato cadavere.

“Non vi dico di più e da questo momento il mio racconto, già freddo, non sarà più che relazione.” – che io sintetizzo ancor di più: la madre torna da Milano, come dire, scornata: il signor X si è infuriato al vederla e le ha intimato di andarsene, ché fra loro tutto era finito. La madre incolpa Rita di averla appositamente ingannata, per cattiveria.

Dopo tali avvenimenti, madre e figlia tornano al convento, dove la seconda dovrà restare a tempo indeterminato. In una lettera inviata a don Paolo, Elisa è categorica: “L’unico modo per salvare lei e noi, è di tenerla nel convento. Soltanto il convento può ormai separarla onorevolmente da un mondo in cui non può più ritornare.” Rita dice di sé: “… non sono fatta per la gente; la solitudine, un bel paesaggio ed un libro, ecco piuttosto il mio ideale”.

A questo punto del romanzo (Lettera XVIII), m’occupo di altre faccende e rimetto all’indomani il prosieguo della lettura di questa storia che potrei definire tranquilla e borghese.

Ho rinunciato a scrivere alcun commento in itinere, ignorando, come spesso m’accade, se mai riuscirò a scrivere qualche riga. Stamattina ho ripreso a leggere. Ora so com’è finita l’intera faccenda e sono perplesso. Ho l’impressione che l’autore m’abbia attirato in un tranello e che, in fondo, il romanzo sia un thriller che non ha affatto l’aria di esserlo. Eppure lo è, senza dubbio.

Nelle ventiquattro lettere seguenti succede un po’ di tutto. Andrò un po’ per sintesi e un po’ riporterò dei brani, e forse qualcosa riuscirò a chiarire, almeno a me stesso.

Pare che quel giovane sia morto perché (è Rita a parlare) “tra noi c’era il fucile, che Giuliano teneva appoggiato a terra col calcio. Senza volerlo lo sollevai nella lotta e lo lasciai ricadere. La scarica partì per l’urto; Giuliano non fece un gemito; cadde senza muoversi più.”

Zaira, la domestica di Elisa ha assistito alla scena. Rita le dice: “abbi compassione di me. Se parli sono perduta, senza la minima colpa. Giuliano mi ha sedotta, mi ha preso, mi ha rovinata, tu lo sai quanto me, tu che eri il nostro angelo custode. È stato senza volerlo, ti giuro, il colpo è partito mentre cercavo di aggrapparmi a lui. Oh, credimi, Zaira, se non mi credi io sono perduta, e per nulla.”

Tutto ciò Rita lo sta scrivendo a don Paolo, che sa tutto perché già gliel’ha detto Zaira, e lui l’ha scritto alla stessa Rita, che in parte conferma, ma che nega ogni responsabilità. All’inizio della lettera, mi stupisce la sua schiettezza, quando dice: “Dunque è deciso, io sono già condannata.” – e questo perché il povero prete gli aveva scritto: “Restate in convento, o uscitene, ma non ricorrete al mio aiuto.”   

Don Paolo è un buono, quello che quando lo si è tre volte si è tre volte fessi (così dicono a Palermo). Ora le scrive: “… è ingiusto che siate costretti a una vita che vi dà tanta ripugnanza…” – per cui “ho concluso che l’unica via per salvarvi è di farvi sparire almeno per qualche mese.”

Rita gli risponde, pazza di felicità: “Domani l’altro sarò libera! Mi ero proposta di passare una parte della penultima mia notte in convento a sfogare l’orgasmo su questo figlio di carta e soprattutto a dimostrarvi che la mia riconoscenza non è minore della gioia.”

Ora è pronta, come dire ri-battezzata per l’ennesima volta: “Avevo bisogno ormai di ripulirmi dei sentimenti meschini. Ora sono guarita. Ieri, un istante dopo che la Zaira mi aveva dato il biglietto e mi aveva fatto conoscere le vostre disposizioni per la mia fuga dal convento, era scomparsa tutta la mia cattiveria.”

Guido Piovene
Guido Piovene

In una successiva lettera lei esibisce, come si fa con un abito nuovo, il suo spirito allegro e ciarliero, scrivendogli che ormai teme solo d’ingrassare, dovendo rimanere rintanata in quella casa, dove una vedova per nulla allegra la tiene come si fa un inclito bene: “mi ama non come una persona, ma appunto come un gioiello, una bestiolina o un dolce.”

Parla di una strana superstizione: si dice che i mendicanti “abbiano in mano la nostra felicità, e che un’elemosina basti a fare gli inconsci strumenti della nostra riuscita.” – per questo “ho incaricato di dare una lira a ciascuno dei mendicanti del quartiere, sperando di far scattare in uno di essi la molle che rovescerà il mio destino.”

Risposta del passionale don Paolo: “Le vostre ultime lettere sono tali da far disperare chiunque si sia prefisso il vostro bene. Dal loro pettegolezzo si diffonde un profumo di così tenace egoismo e di così cieco piacere nella propria vita esclusiva, che mi è parso impossibile distrarvi un momento solo per indurvi a pensare, non dico ad altri, ma anche a voi stessa.”beata incoscienza, sia del prete che della sua fedele amica!

Egli prova una specie di passione per Rita: “Quell’amor proprio, così debole, così colpevole e vizioso, ha destato in me il sacerdote, che ha cura d’anime in pericolo; ho sentito tale pietà che per salvarvi ho voluto…” – cos’hai inteso, Paolo, se non agire seconda una logica così rischiosa che, lo sento, anzi, lo so, perché ho già letto il futuro, il peggio deve ancora venire!

“Credo di aver agito, non secondo la lettera, ma secondo lo spirito della nostra lettera d’amore…” – così sia, fratello caro.

Paolo in un’ultima lettera a Rita, infierisce dicendole che, rileggendo le sue lettere, “ho avuto la conferma che eravate sempre cosciente della vostra malizia, che vantavate fingendo di giustificarla.” Rita, per una delazione, viene scoperta. La madre manda il cameriere Giacomo perché riconduca la pecorella all’ovile. Rita compie un secondo tragico errore, diciamo una fatalità fortemente voluta, un incidente che procura alla tragedia una nuova vittima.

In una lettera finale alla madre, Rita le confida che prova per lei un amore esclusivo. Questa cosa “ho voluto dirtela oggi, perché mi pesa che tu mi creda l’opposto di quello che sono in realtà; perché infine tu senta che la mia anima non è aspra ma dolce, amabile e non odiosa, fiorita e non deserta; tanto che forse, se l’avessi capita, l’avresti amata anche tu.” – in fondo non è che un impietoso atto di accusa.

Scrive don Carlo al collega don Camillo:certo che in fondo all’anima mi resta una grande tristezza. Ecco due persone alle quali Dio aveva tolto ogni ostacolo perché potessero convivere affettuosamente ad essere felici insieme. Il cieco e pazzo egoismo le ha invece travolte entrambe nella più inutile e immotivata tragedia.”

Una delle due anime trasvola altrove, a causa di una polmonite. E spirando, dice: “Speriamo che Dio mi capisca.” Per cui “Dio ne abbia pietà” scrive un certo padre Sebastiano, “cappellano della prigione di **” allo stesso don Camillo.

Mi sono sempre chiesto che sorte condurrà chi nella vita ha fatto della malafede la qualità di cui diceva l’autore nella Prefazione. Se è davvero virtuoso come dicono, non è escluso che quel Santo Vecchio fingerà di credere a quel piccolo, ridicolo e ormai innocente Ulisse ingannatore: il male può esistere solo quaggiù. O è anche questo un terribile inganno, il più vile fra tutti?!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Guido Piovene, Lettere di una novizia, Bompiani, 1991

 

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