“Macbeth” di William Shakespeare: la tragedia del Destino

In un passo del De Interpretatione, Aristotele afferma che, se ogni evento del mondo accadesse necessariamente, «non ci sarebbe bisogno né di deliberare né di darsi da fare», poiché, in quel caso, il loro accadere sarebbe del tutto indipendente dalle iniziative degli uomini.

Macbeth di William Shakespeare
Macbeth di William Shakespeare

Si tratta, per Aristotele, di un’ipotesi assurda, giacché noi uomini «vediamo che il principio delle cose che saranno discende dal deliberare o dal non aver fatto alcunché, e che in generale nelle cose che non sono sempre in atto vi è la possibilità di essere e di non essere». Lo Stagirita, e con lui un’ampia parte della tradizione occidentale, riteneva che al di sopra delle cose che non sono sempre in atto – le cose del nostro mondo fisico, che si generano e si corrompono – esistesse anche una dimensione metafisica, eterna ed immutabile.

Larga parte della cultura a noi contemporanea, al contrario, nega che possa esistere una dimensione simile, e afferma l’assoluta contingenza delle cose. Esiste però un’altra parte del sapere tradizionale, secondo cui gli eventi del mondo sarebbero effettivamente determinati in maniera necessaria. Questo non ha a che fare, soltanto, con un diverso modo di intendere l’agire umano, ma anche con la possibilità di divinare il futuro.

Già Artemidoro di Daldi, l’autore del Libro dei sogni (II sec. d. C.), poneva in stretta relazione questi due aspetti, polemizzando con coloro che, come gli epicurei, negavano ogni validità alla mantica, cioè alla divinazione del futuro, negando, al contempo, che gli eventi terreni fossero preordinati secondo il disegno del Fato. Le due cose, infatti, si tengono: o esiste un destino che connette il passato, il presente e futuro, ed è possibile pertanto interrogarlo e disvelarlo, oppure non esiste alcun disegno, e in tal caso diviene insensato voler cogliere un futuro sostanzialmente nullo.

In questo articolo proveremo ad approfondire il tema dell’agire dell’uomo in rapporto con il Fato e con la sua divinazione, anche attraverso un’opera che del rapporto tra azione e destino ha fatto il proprio, incandescente nucleo tragico: il Macbeth di William Shakespeare.

Questo è, infatti, l’autentico problema filosofico attorno al quale si arrovella l’arte shakespeariana, più di quanto non accada con l’ovvio tema dell’ambizione sfrenata che conduce l’uomo alla rovina.

La storia è ben nota: Macbeth, novello signore di Glamis, ha appena sconfitto sul campo i ribelli che minacciavano il trono di re Duncan. Mentre si aggira per la brughiera in compagnia del fedele amico Banquo, si imbatte nelle tre Sorelle Destinatrici (The Weird Sisters), le quali profetizzano al feroce condottiero un grande futuro: diverrà barone di Cawdor e, in seguito, addirittura re, anche se non gli sarà concesso di dare avvio ad una stirpe regale, una gloria che, invece, toccherà in sorte proprio a Banquo, sebbene quest’ultimo non potrà mai salire personalmente al trono. Qui comincia la tragedia di Macbeth.

Infatti, non appena le tre Sorelle si sono dileguate come bolle, Macbeth viene a subito sapere che per decisione di re Duncan è stato insignito del titolo di barone di Cawdor, esattamente come pronosticato. Le due reazioni di Macbeth e Banquo, di fronte a quello che sembra essere a tutti gli effetti un primo inveramento della profezia, meritano la nostra attenzione.

«Se lo credi a fondo» osserva Banquo rivolgendosi al compagno, «ciò può accenderti dentro l’uzzolo della corona/ oltre alla baronia di Cawdor. Eppure è strano;/ e spesso, per indurci alla rovina,/ gli strumenti delle tenebre dicono la verità» (Atto I, scena III).

Banquo muove un’obiezione di tipo psicologico: convincendosi di essere stato eletto dal Destino, Macbeth sarà indotto sin da subito a considerare come proprio l’oggetto che gli è stato garantito; questo potrebbe spingerlo irresistibilmente verso ciò che gli spetta, proprio in quanto è convinto debba spettargli, e che invece appartiene ancora a Duncan, il legittimo sovrano. E cosa potrebbe ritenere lecito, chi credesse di doversi prendere non una cosa altrui, ma qualcosa che gli è dovuto? Sin dove potrebbe farsi trascinare? E anche se costui riuscisse nel proprio intento, ciò avverrebbe davvero per fatalità, o perché la presunta garanzia del Destino ha innescato questo intero meccanismo? Per Banquo, la faccenda ha un aspetto sinistro.

Da canto suo, Macbeth è turbato da pensieri contrastanti: da un lato incomincia già a sentire, come ha saggiamente indicato Banquo, il peso di uno scuro ed inquietante «incitamento», che «fa rizzare i capelli/ e smuove il cuore a battere/ in modo innaturale», mentre dall’altro cerca di trovare una formula rassicurante che possa allontanarlo dalla tentazione.

«Se la sorte mi vuole re» mormora tra sé, «la sorte/ può bene incoronarmi/ senza che io muova un dito». È la stessa idea che abbiamo visto essere stata trattata, in senso polemico, nel testo di Aristotele. Ci torneremo.

Nella quinta scena del primo Atto fa la sua comparsa un personaggio che avrà un ruolo fondamentale: Lady Macbeth. Scorrendo la lettera con cui il marito la informa dell’incontro con le streghe, la donna ha subito la sensazione di essere stata «portata/ al di là di questo presente ottuso», al punto da sentire «il futuro nell’attimo». Il velo che nasconde il futuro sembra essersi alzato, tanto da far apparire il presente nella sua relazione fatale con esso. Ma, a differenza del marito, Lady Macbeth non pensa che il Destino possa realizzarsi indipendentemente dalle loro azioni. Si assume dunque l’impegno di «battere con l’aiuto della [propria] lingua/ ciò che [lo] tiene lontano dal cerchio d’oro/ con cui il destino e l’aiuto metafisico/ pare vogliano» incoronarlo. Interessante è che Lady Macbeth parli di un “aiuto metafisico” (metaphysical aid): vi sono arcane potenze, poste al di là del mondo fisico, che esercitano un influsso sulla dimensione umana, creando in tal modo, per così dire, un piano inclinato che gli uomini sono chiamati a percorrere di propria iniziativa. L’osservazione psicologica di Banquo sembra rivelarsi esatta.

L’occasione propizia non tarda ad arrivare. Re Duncan viene infatti ospitato, per una notte, nel castello di Macbeth. Spronato dalla consorte – che ha provveduto a drogare le bevande del re e del suo seguito, affinché fossero avvolti in un sonno profondo – l’ambizioso barone di Cawdor penetra furtivamente nella camera del sovrano e consuma il delitto. Poco prima di compiere il regicidio, assistiamo ad un mutamento nell’animo di Macbeth (Atto II, scena I), che ci fa capire quanto le parole della moglie abbiano sortito l’effetto desiderato: Macbeth vede apparire di fronte a sé un pugnale, che egli chiama in modo significativo «visione del destino» (fatal vision). «Mi guidi per la via che percorrevo» esclama Macbeth, «e sei il pugnale che dovevo usare». È all’opera dunque, agli occhi del regicida, una sinergia, una compenetrazione, tra il volere del Fato e quella che, più propriamente, è la sua volontà individuale.

Bisogna qui rilevare che l’idea che esistano delle forze sovrannaturali in grado di orientare le vicende umane, annodandole in un disegno unitario, non appartiene al solo Macbeth, al solo Banquo o a Lady Macbeth, ma giace sullo sfondo della coscienza di tutti i personaggi.

Le scene della tragedia sono costellate di presagi: un corvo gracchia con fare sinistro proprio mentre Duncan fa il suo ingresso nel castello in cui troverà la morte (I, V); il verso di un gufo echeggia lamentoso nella notte del brutale assassinio (II, II); la mattina seguente c’è chi ricorda di aver udito terribili voci annunciare conflitti ancora più terribili, e di aver sentito la terra tremare come in preda ad una febbre (II, III); un vecchio giura di aver visto, pochi giorni prima, un falco aggredito da un gufo cacciatore di topi (II, IV), e sembra infine che i cavalli del Re, nel corso della notte fatale, si siano precipitati fuori dalla stalla sbranandosi a vicenda (ibid.). Non si tratta di mere coincidenze, ma di autentici segni premonitori, elementi che compongono la sintassi di una trama onniavvolgente.

William Shakespeare – Ritratto Cobbe
William Shakespeare – Ritratto Cobbe

Il terzo Atto della tragedia si apre con un dialogo tra Banquo e Macbeth. Il primo si rivolge al secondo con queste parole: «Ce l’hai fatta, ora: sei Re,/ Cawdor, Glamis, tutto ciò che ti promisero/ le Destinatrici; e ho paura/ che tu abbia barato di brutto/ per farcela. Però è stato detto/ che niente sarebbe passato ai tuoi discendenti,/ e io invece sarò radice e padre/ di molti re. Se da loro viene/ la verità, come la mostrano luminosa/ in te, Macbeth, le loro parole,/ ma allora proprio per queste verità/ messe in atto su di te, non potrebbero/ quelle essere anche le mie profetesse/ e nutrire la mia speranza?». Il discorso di Banquo desta in Macbeth una profonda inquietudine: egli comprende di aver macchiato la propria anima con l’assassinio, di aver «versato rancori nel calice della pace» unicamente per consentire alla stirpe di Banquo di succedergli sul trono, non avendo un figlio che possa diventare re.

Prende allora una decisione inaudita, ossia quella di sfidare le potenze del Fato, le stesse che, come egli crede, hanno contribuito ad innalzarlo. «Scendi in lizza, destino,/ e combattiamo a oltranza». Progetta allora di inviare dei sicari per assassinare Banquo e, soprattutto, suo figlio Fleance.

Siamo agli antipodi rispetto alla posizione che Macbeth aveva mostrato di assumere dopo l’incontro con le tre Sorelle nella brughiera. E tuttavia, contraddittoriamente, è proprio alle Destinatrici che egli sceglie di rivolgersi, non appena viene a sapere che i sicari sono riusciti ad uccidere Banquo, ma si sono lasciati sfuggire il piccolo Fleance. Soprattutto, Macbeth matura questa decisione dopo che, nel corso di un banchetto al castello (Atto III, scena IV), lo spettro di Banquo gli è apparso, andando a occupare il suo seggio regale. Ecco che, di nuovo, il Destino fa sentire la sua voce: «Pietre si sono mosse, pare, alberi hanno parlato;/ presagi e spiegazioni di nessi hanno svelato/ con la voce di corvi, gazze, taccole,/ l’assassinio più occulto».

La scena del secondo ed ultimo incontro fra Macbeth e le tre Sorelle (Atto IV, scena I) è senza dubbio straordinaria, e merita di essere scrutata da vicino. Assistiamo a quattro terribili apparizioni che permettono di intravedere ciò che il Fato ha in serbo per Macbeth e per gli altri personaggi implicati nella tragedia. Non sono le streghe a parlare, ma direttamente coloro che esse  definiscono come «i nostri padroni» (our masters). Anzitutto, compare una testa racchiusa in un elmo; poi, un bambino coperto di sangue; quindi compare un altro bambino, che stavolta reca in mano un ramo d’albero; infine, appare un corteo di otto re più l’ombra di Banquo, con l’ultimo re che sorregge uno specchio.

Ora, il carattere enigmatico delle apparizioni rende legittima più di una interpretazione. Quel che ci interessa sottolineare è che, oramai, Macbeth è talmente irretito dalla propria follia da non interrogarsi realmente sul contenuto delle apparizioni, facendosi attrarre, al contrario, dall’interpretazione che meglio si accorda con i suoi desideri. Ad esempio, quando viene a sapere dalla terza apparizione (il bambino con il ramo d’albero in pugno) che «Macbeth non sarà vinto sino a quando/ il gran bosco di Birnan muoverà/ contro di lui», egli interpreta queste parole come qualcosa di impossibile, cioè come il segno certo che non potrà mai essere sconfitto. Verremo a sapere, invece, che ciò sta a significare che l’esercito che lo sconfiggerà, cingerà d’assedio la sua fortezza nascondendosi dietro a dei rami divelti dalla grande foresta.

Macbeth Consulting the Vision of the Armed Head – Painting by Henry Fuseli, 1793–1794
Macbeth Consulting the Vision of the Armed Head – Painting by Henry Fuseli, 1793–1794

Si noti, peraltro, che le streghe – intermediarie tra il mondo fisico e il mondo metafisico – erano già venute a conoscenza delle intenzioni di Macbeth: «Sfiderà il destino, disprezzerà/ la morte e spingerà/ le sue speranze oltre la grazia,/ la saggezza e la paura» (Atto III, scena VI). Ed è esattamente questo il punto nodale, che ci consente di capire come debba essere inquadrato il rapporto del Destino con l’agire dell’uomo.

Se infatti si ritiene, come Aristotele, che la presenza di una Necessità degli eventi possa consentire agli uomini di incrociare le braccia, dal momento che ogni cosa dovrà realizzarsi comunque, così come è stato stabilito, anche senza l’intervento dell’uomo, allora ci stiamo, di fatto, collocando già al di fuori dell’autentica Necessità. Questo perché pensare il Destino significa pensare che esista una relazione necessaria tra tutte le cose, e quindi, anche tra le azioni umane e gli eventi che si manifesteranno nel futuro. Gli eventi futuri non dipendono da questa o quella azione, se con ciò intendiamo riferirci ad una loro libera produzione da parte dell’uomo (come vorrebbe Lady Macbeth); ma non sono nemmeno indipendenti, giacché pensare l’indipendenza di una cosa rispetto ad un’altra equivale a dire che le due cose siano slegate – mentre non possono esserlo, proprio in virtù della Necessità del tutto.

Il punto è che il binomio dipendenza/indipendenza risulta estraneo al concetto di Destino, e dunque non ce ne possiamo servire. La tragedia di Macbeth risiede nel fatto che egli si pone il problema di come assecondare o contrastare il Fato, mentre quest’ultimo si compone già, originariamente, anche di tutti i suoi tentativi, di ogni sua contraddizione, di ogni suo dibattersi – e questo vale, beninteso, anche per l’interpretazione errata che Macbeth conferisce alle arcane apparizioni evocate dalle streghe.

In tal senso, anche la stessa forma teatrale dell’opera di Shakespeare, dove dei personaggi seguono un copione prestabilito, e lottano al suo interno, è oltremodo significativa. Non a caso, poco prima di andare incontro alla propria, ineluttabile rovina, Macbeth paragona l’esistenza dell’uomo a quella di un attore (traendone, peraltro, una morale nichilistica che pone un ulteriore problema): «La vita non è che un’ombra vagante, un povero attore/ che avanza tronfio e smania la sua ora/ sul palco, e poi non se ne sa più nulla./ è un racconto fatto da un idiota,/ pieno di strepito e furia,/ che non significa niente» (Atto V, scena V).

Ma è davvero così?

 

Written by Riccardo Peruzzo

 

Bibliografia:

Aristotele, Della interpretazione, BUR Rizzoli, Milano 2007

Artemidoro, Il libro di sogni, Adelphi, Milano 1962

William Shakespeare, Macbeth, trad. di Nemi d’Agostino, Garzanti, Milano 2019

 

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