“Bersaglio, l’oblio” di Valerio Varesi: quale destino attende la particella uomo?

Si scopre un libro, lo si assimila (c’è chi, come me, lo divora; e chi invece se lo sorseggia piano piano, badando a non sbrodolarsi addosso) e poi lo si ripone sul primo scaffale, o su quello in cui giacciono i tipi come lui.

Bersaglio, l’oblio di Valerio Varesi
Bersaglio, l’oblio di Valerio Varesi

Ho passato una fetta importante della mia vita a evitare di leggere, poi la successiva, la più corposa, l’ho destinata sacralmente a questi mostriciattoli di cellulosa che illudono e che poi, come succede a certi innamoramenti, si scordano per sempre.

Questo mi è capitato fin troppe volte, anche per taluni classici immortali, che poi a poco a poco sono venuti meno, anche se talvolta mi capita di scorgere qualcuno che accende loro un cero. L’oblio è una forma d’ingiustizia, a cui ho deciso di ribellarmi tentando di eternare, per me almeno, quell’atto incerto però eroico che è la lettura.

Termino un libro e comincio a reagire. Spesso invece succede in itinere, capitolo dopo capitolo, capoverso dopo capoverso. La maggior parte dei libri mi fa sbadigliare nelle prime pagine, salvo poi costringermi a ingurgitarli in fretta perché sento il bisogno di eternarli come miei. È una passione come un’altra, ce n’è di peggio: tót i cajòun a gh ân la só pasiòun. L’ho scritto spesso, ma io amo ripetermi, anche questo fa parte delle mie passioni.

La dedica del romanzo Bersaglio, l’oblio è incoraggiante: “A Emilio, l’opera che mi è riuscita meglio”. È una frase ambigua: qual era l’intento dell’autore? Se è ri-uscita, dove si è poi rin-tanata?

Si tratta del secondo noir scritto da Valerio Varesi, con protagonista il commissario Soneri.

“Una lettera può mettere in apprensione se si teme che arrivi.” – poi essa, togliendoti quel sentimento greve, ti dona talvolta l’angoscia. Specie se è perfetta nell’indirizzo (“con interno barrato e persino la scala”), ma priva di mittente.

Bondan l’apre e legge: “‘Siamo contenti di averti ritrovato’ era scritto con terrificante cordialità.” Lo sconosciuto ebbe immediatamente la consapevolezza che “non sarebbe sfuggito al suo passato. Era stato sciocco pensarlo quindici anni prima, quando aveva scelto di cambiare aria, certi debiti non si saldano mai.”

Il titolo reca una prospettiva meno tetra. L’oblio può essere un bersaglio che si può tentare di colpire, sbriciolandolo. Sto pensando a un celebre romanzo di Marquez: Cronaca di una morte annunciata. Qualcosa d’inevitabile si sta avverando nella vita di questo tipo, al momento e per chissà quanto ancora, misterioso: “Non sarebbe sfuggito al suo passato. Era stato sciocco pensarlo quindici anni prima, quando aveva scelto di cambiare aria. Certi debiti non si saldano mai.” – anzi, col tempo crescono le sanzioni e quella che si chiama aggio esattoriale.

“– Un brutto delitto, Soneri. Un brutto delitto” – il questore inquieta il celebre commissario “proprio nel momento in cui la macchinetta del caffè cominciava a ronfare” – io lo preparo la sera, cosicché alla mattina basta accendere il fornello e il miracolo avviene, inevitabile e puntuale.

“Gocce fini rigavano il parabrezza…” – i liquidi sono più pervasivi dei solidi, i quali stanno lì, in una sorta di magica e illusoria immortalità. L’acqua invece, come il destino, scorre sempre e anche quando pare morta, se la frizioni inizia a muoversi, come se stesse lì in attesa di un perturbatore, covando una finta immobilità. Dalle mie parti la pozzanghera è detta al lunâri di mât, il lunario dei matti perché consente anche ai bipolari di capire se piove. È un oracolo gratuito.

Una mia consanguinea m’ha avvertito che il presente noir è il più lento e dispersivo che abbia mai letto. E ho deciso di adeguarmi all’autore.

Nella quarta di copertina Raffaele Crovi scrive:Un thriller padano sulla linea della narrativa noir degli emiliani Macchiavelli, Lucarelli e Coloretti. Scenario del romanzo una città godereccia e nebbiosa (forse Parma, forse Reggio Emilia, forse Modena – lasciamo al lettore il compito di smascherarne il volto)…”.

Chiede Soneri a un agente se il parco, dov’è occorso il delitto, non è chiuso di notte. La risposta è: “Sì, è sempre chiuso. Ci sono due entrate, entrambe sbarrate dopo le venti.” – potrebbe essere quello che è intitolato a Santa Maria, tra Viale Piave e Via caduti per servizio, nome poco augurale in effetti. Devo chiedere a chi abita da quelle parti. No, non può essere, perché poco dopo si parla di un campeggio. In centro a Reggio non ce ne sono, forse siamo in campagna, o in collina, non credo in alta montagna.

S’ignora chi sia il deceduto, e a trovarlo è stato un podista assai mattiniero.

“Quattro persone in sei ettari di boschi e viottoli chiusi entro bastioni quasi invalicabili” – il caso pare insolubile.

Soneri s’informa sul calibro dell’arma che ha ucciso. “Ipotizziamo un 38. i proiettili erano del tipo dirompente. Un’arma da professionisti…” – gli rispondono: un’arma ideale per un’esecuzione.

Essendo un luogo ristretto, Soneri può affermare “Allora, dentro il parco, eravate in cinque più la vittima. O forse in sei, se l’assassino è venuto da fuori.”

Nel terzo capitolo rispunta quel tipo, che ora qualcuno minaccia con una lama che, “nel buio pareva una virgola argentea”. Bondan, “continuava a non aver paura, non si agitava, non opponeva resistenza, né cercava di fuggire: era in preda ad un inerte stupore”, per cui, per uscirne vivo, “non trovò altra soluzione che stringere la rivoltella e premere il grilletto.”

Soneri aumenta lo stress in Rollardi, “il giovane sostituto procuratore”, che è in magistratura “da due anni”, chiedendogli se è “al suo primo delitto”. Quello “assentì con un certo imbarazzo”. Pare quasi che il gatto Soneri giochi col topo Rollardi, quando esibisce quasi con indifferenza la sua esperienza, dando per scontato, per esempio, il fatto che bisognerà iniziare l’inchiesta dalla disamina delle schegge dei proiettili.

Il gestore del camper è un certo Tony Rosetta che dice che il villeggiante quasi fisso, un americano di nome Blackright, non dovrebbe essere tornato ancora.

“Soneri rimase per qualche istante in silenzio. Si rendeva conto di porre domande vaghe” – che è comunque un modo per tirar innanzi.

Intanto l’ispettore Nanetti scopre che “si trattava di un calibro 38 com’era sembrato sin dall’inizio.” Soneri pone una serie di domande, poi ordina a Rollardi: “Si faccia dare i fascicoli degli ultimi omicidi e veda se trova qualche similitudine” – che può essere inteso come un consiglio, più che un comando. Per oggi mi basta. Ho deciso di lasciare il romanzo dalla mia consanguinea, dove in genero consumo il pranzo. A domani!

Nel quinto capitolo Bondan (tramite l’autore) pensa che “non si era mai trovato nei panni di uno che fugge.” – c’è sempre la prima volta. Sempre “aveva in tasca la Browning.”

Dai giornali scopre che il suo ammazzato era uno spacciatore arabo di ventott’anni. L’identikit del killer parlava “di un uomo castano, alto e snello”, per cui qualcuno lo aveva almeno intravisto. Il mondo è pieno di uomini con quelle caratteristiche.

Alla fine del capitolo (che segue il mio desinare) Bondan spara a quattro tipi loschi, che scappano come possono. Uno di loro non ce la farà a schivare un colpo.

Nel sesto, che leggo l’indomani, Soneri incontra Blackright e gli fa un inusuale complimento: “Devo ricredermi sugli americani: pensavo mangiassero tutti male.”

La risposta dello yankee è appassionata: “Se sono innamorato di questo paese è merito della sua cucina.”

I due ciarlano amabilmente, la notizia più interessante riguarda l’occupazione dell’americano: “Faccio tanti mestieri. Lavoro nei maneggi e giro le piazze per vendere i miei prodotti in cuoio.”

Nel settimo capitolo la sesta parola è Browning. Solo all’ultima riga della pagina appare il nome del soggetto presento. Chi può essere, se non lui, il nostro fuggitivo? Dai giornali scopro che l’ammazzato si chiamava “Tonino Spataro, un trafficante.” – dopo di cui decido di rincasare.

Nell’ottavo capitolo sgocciola una notizia. Nanetti informa Soneri che “c’è un mattone scheggiato di fresco che deve aver causato uno scivolone perché lungo il muro c’è mezzo metro di strisciata.” – qualcuno, agile arrampicatore, ha provato a valicarlo.

Nel frattempo, proprio all’ora di pranzo (mentre sono sul divano, satollo), colgo un invito da parte del commissario all’ispettore di andare a papparsi qualcosa di buono “al Milord”. Una notizia sconvolge tali succulenti piani: “Hanno svaligiato un appartamento in centro.”

Soneri sente il dovere d’andare a trovare il derubato (si tratta del cavalier Romualdi, “un ottantenne combattivo già bersagliato dai ladri”). Mi fa sorridere l’attributo con cui viene descritto: “grifagno”, essendo incavolato perché quello era il secondo furto che pativa in poco tempo: “Quattro mesi prima, il ladro era salito arrampicandosi dal tubo di ghisa della grondaia che correva lungo un fianco poco in vista dell’edificio.”

A quel punto a Soneri chiede a Macciantelli se si ricorda di Locusta, un serial climber, in grado di scalare tutto quello che è possibile farlo, pur di derubare il prossimo.

Dal tabulato delle chiamate telefoniche, in tutto diciotto, inquieta quella che dice: “uno dei vostri è in pericolo”, fatta “tre giorni prima del delitto.” – al che, poco dopo, penso sia ora di rimandare la discussione all’indomani.

Nel nono Bondan intervista una puttana, che gli dice che un certo Pierre può dirgli più di lei: “lui sa tante cose”. Bondan aspetta Pierre e, quando questo se ne esce ancora, s’infila nel suo appartamento e rubacchia un registro, da cui dedurrà che il proprietario è un trafficante di droga.

Nel decimo Soneri interroga Giacomo Tolmin, figlio del custode, che si ricorda di una “Ford. Una Escort station wagon scura.” Dopo quell’interrogatorio, saluto la consanguinea ed esco.

Il capitolo dispari appartiene sempre a lui, Bondan, che si sentiva seguito da alcuni giorni da “un tipo piuttosto tarchiato dall’aria volgare con un cappotto blu, grosse scarpe e cappello di foggia tirolese.” Poco dopo “era riuscito a invertire i ruoli.” – ora era Bondan a pedinare il pedinatore, che scenderà da una Fiat bianca, “intestata a Financo con sede in via Palestro 11. Una finanziaria che maneggiava parecchi soldi.”.

Bondan cattura quel tanghero e lo interroga. Questi gli dice un sacco di cose. Per ricompensa, “col calcio della pistola gli sferrò un colpo sulla nuca con tanta rabbia che l’altro scivolò lungo il muro afflosciandosi.”

Meglio che anch’io ora lasci questo luogo insidioso.

Nel dodicesimo, tornato nel proprio ufficio, “Soneri si sedette si fronte all’uomo e lo guardò” e, notando le tempie “ormai screziate di bianco e i capelli radi agli angoli della fronte”, egli “riconobbe con disagio le trasformazioni che aveva notato in se stesso.”

Quel ragno umano si è “consegnato” spontaneamente, per sfuggire a pericoli peggiori. Confida al commissario che, per scommessa, s’era arrampicato “sul muro del parco” e dalla sommità aveva scorto il morto, “steso a faccia in giù col braccio sinistro piegato sotto e le gambe divaricate.” Nel prosieguo dell’interrogatorio, “a Soneri vennero in mente tutte le volte che l’aveva arrestato dopo interminabili schermaglie verbali. Anche in questo caso sentì pesargli il ricordo di una gioventù entusiasta.”

Nel capitolo successivo, che non so se gli recherà fortuna o quella che a Napoli chiamano ‘a nira seccia (la seppia nera), Bondan, esaminate le carte,afferrò la Beretta. Dopo di cui si dirige in via Palestro, dove, con quella pistola, abbatte Stazzani, il socio di maggioranza e amministratore unico della Financo. Dopo aver terrorizzato vari impiegati d’ambo i sessi, “poté così disporre di almeno un quarto d’ora per rovistare tra i documenti.” – dopo di cui, ognuno per conto suo, entrambi riprendiamo il sentiero che conduce altrove.

Nel quattordicesimo, Soneri “addentò due scaglie di grana e sentì accendersi in bocca un fuoco sapido, lo stesso calore del sigaro fumato dalla parte della brace. Mise il culatello nella tasca del montgomery: il clima della golena l’avrebbe conservato meglio di una cantina.” Poi su Blackright che fa degli strani giri, dentro il bastione, poi incontra Rosetta e non accade granché. Mi preme però segnalare “un gesto circolare con l’indice, da parte dell’americano.” – dopo di cui, il prima che posso, decido di tornare a casetta.

Fëdor Dostoevskij
Fëdor Dostoevskij

Nel quindicesimo, come già nel settimo, Bondan si mette a “rileggere i dialoghi di Kirillov”, tratti da I demoni di Dostoevskij. Kirillov era un aspirante suicida, e il nostro ambiguo eroe sentiva che “gli restava ormai poco tempo”. Egli possedeva varie pistole, tra cui una Beretta, una Smith and Wesson e una Mauser.

“Vide sul muro scheggiare via le pallottole” – sparate da chissà chi, col silenziatore.

Nonostante che corresse “col fiato corto, sparando” egli si sentiva “come un fagiano che cade dal suo cielo per una palla persa, per una fucilata in aria in una festa di paese. Più per fatalità che per intenzione.” – mi pare igienico tornare fra le mie quattro pareti domestiche e di tapparmi in casa.

Nel sedicesimo, Locusta conferma al commissario che quella sera aveva visto quel “corpo contrarsi” e che “c’era qualcuno lì intorno”.

Al Milord Soneri “ordinò un piatto di tortelli di zucca” e “un gutturnio fermo”, un diabolico miscuglio di barbera e bonarda, perché: “Gli astemi non sono buoni investigatori…” – io m’accontento delle lasagne al formaggio (oggi per me è domenica) e del mio solito rubino di Massenzatico. Ilare, ma non brillo, risalgo dopo un po’ i gradini del mio condominio.

Nel diciassettesimo, Bondan “diede un colpo al vetro dalla parte del guidatore col calcio della Mauser– per poi guidare “veloce nella notte”.

L’autore lo induce ora a frenare “strisciando le gomme sull’asfalto” e a girare “invertendo la marcia.” – dopo di cui egli inizia a sparacchiare contro l’auto che lo sta inseguendo.

“… poco prima aveva volato come un fagiano: era una questione di centimetri. Poi allontanò da sé il pensiero della morte trasferendolo su Pierre. Ora era lui a dover morire perché ultimo custode del ricordo di quel suo sbaglio di tanti anni prima.” Rimeditando tali arcane parole, attraverso via Adua all’altezza del paltino.

Nel diciottesimo, mentre s’avvicinava al campeggio, il nostro caro commissario “sentiva i crepitii del fuoco e l’odore della carne abbrustolita. – Scottadito di agnello.” Stranamente Soneri rifiuta l’invito da parte di Blackright di partecipare a quel gustoso spuntino, sentendo “arrivare l’auto di Tolmin per il solito giro di chiusura”. Il custode ha qualcosa che non convince nemmeno un lettore facilmente distraibile quale sono io.

“Nel buio della volta Tolmin si scorgeva appena, soprattutto grazie alla lunula bianca sottopancia lasciata scoperta dal maglione e dal giubbotto. Si accese un’altra sigaretta e il cerino gli illuminò fiocamente il viso. Soneri, invece, aveva rivolto il sigaro mettendo la brace in bocca finché non si fosse spenta.” Poco dopo, “un uomo di statura media, piuttosto tarchiato, entrò con un fare così deciso che contrastava con l’atmosfera di circospezione che regnava nel parco”, egli camminava con “piglio padronale”.

Registro ora un andirivieni nervoso di Rosetta e dell’americano, i cui intenti non sono chiari.

Il giorno dopo Macciantelli comunica al suo capo Soneri che un tipo, la cui auto “è intestata alla Financo”, “si è presentato all’uscita secondaria” e dopo un’ora se n’è andato.

Più tardi, al Milord, Soneri ordina “delle costolette alla griglia con un contorno di pomodori ripieni alla provenzale” – io m’ero dovuto accontentare di un risotto al ragù e di tre cipollotti in pinzimonio: ben sapendo che anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità consiglia, in simili occasioni, di eccedere nel lambrusco. Il commissario va invece a barolo, poveretto. Però c’è da aggiungere che il cameriere “Alceste comparve porgendo un assaggio di pesto di cavallo al ginepro. I cavalli, ecco una pista trascurata, pensa Soneri.”

Per completare il senso della giornata, il commissario “ordina una crepes suzette e un bicchiere di chablis e si mette a mangiarla adagio tagliando la pasta con l’orlo del cucchiaio.” Ormai sazio, non soltanto per il pranzo offerto dalla mia consanguinea, ora esco a far due passi.

Nel diciannovesimo Bondan stava camminando “lungo le strade si una città semideserta nella notte feriale d’autunno”, quando “vide un’auto”, e “non gli restò che saltare un cancello, correre in discesa lungo un cortile buio, arrampicarsi sopra una rimessa e sperare di trovare dall’altra parte un passaggio sicuro.” – è sempre dura la vita del ricercato. Egli fronteggia i nemici, con la Mauser in pugno, e tutta la scena si spegne, come d’incanto. I suoi cacciatori “si dissero qualcosa, poi tornarono sui loro passi e salirono in auto.”. Al che “lui rientrò come un avventore qualsiasi, si avvicinò al banco e ordinò un caffè.” Io l’ho già preso e, abbassata la tenda della sala di casa, mi stendo sul divano e schiaccio un mezzo pisolino.

Nel ventesimo “Soneri ordinò due bicchieri di novello.” – uno lo offre a Macciantelli.: “Per tirarti su – disse con lieve ironia.”

Ormai è (quasi) tutto chiaro: “È nel parco che lavorano la merce.” La Financo “controlla una decina di aziende intestate a personaggi che hanno l’aria di essere di semplici prestanome.” – si tratta di aziende “praticamente inattive. Credo che la capostipite se ne serva per operazioni di comodo.”

Soneri va al “bar Otello”, dove si trova Locusta, a cui rivolge delle domande, poi viene coinvolta nella conversazione una certa Rossa la quale dà risposte evasive ma in qualche modo preziose.

“Al Milord ordinò anolini in brodo e una bottiglia di bonarda per prepararsi a un pomeriggio grigio e umido” – io cappelletti in brodo (una volta mia mamma li faceva a mano il sabato sera, essendo il piatto tipicamente domenicale; oggi sono più feriali e democratici ma comperi).

“Soneri giocava ormai sul velluto. Era venuto il momento che preferiva nelle inchieste: quando le informazioni accumulate sono sufficienti a mettere in scacco il primo personaggio della vicenda.”

Il commissario sprona Rosetta a parlare, ormai c’è poco da fare diversamente. Quello crolla, anzi, accetta che deve confessare, non tanto un omicidio che non ha commesso, ma il fatto che non avevano più scelta: “Ci avrebbero ammazzato come hanno fatto con quello”. Dell’omicidio erano, sia lui che il suo amante yankee, del tutto innocenti.

Blackright ammette: “Ci portano la droga, io la taglio e la riconsegno col metodo che lei sa.” Ancora non ho capito granché per quanto concerne i capitoli dispari, il ventunesimo lo leggerò domani dopo pranzo. Sui pari me la cavicchio.

Boldan “dopotutto appariva una persona normale”. S’imbatte in un mendicante che aveva “un volto che pareva più allenato al ghigno che all’estaticità dell’implorazione”. Gli dà “un calcio al basso ventre” e “poi una seconda botta”: Boldan scappa. Sente uno sparo lontano, ma ormai è giunto a “una muraglia”, che era l’inizio delle “mura del parco”.

Decido all’improvviso di posticipare al giorno dopo il ventiduesimo capitolo.

Soneri confida certe sue perplessità al magistrato Rollardi, dicendogli: “… i delitti hanno qualcosa in comune e di certo questo non è solo un regolamento di conti.” Al solito Milord Soneri “si fece portare un piatto di spaghetti con l’ogliata e una bottiglia di ortrugo” – io mi pappo degli spaghetti alla carbonara, che non guastano mai, e per vino vado col solito che, come dice qualcuno, al bléşga şó da dio (scivola giù in modalità religiosa).

“Per secondo prese un croissant di trota affumicata e un assaggio di torta al formaggio.” – io m’accontento di un’insalatina verde con un pizzico di ketchup.

“Finì con una bavarese d’albicocche assaporando l’ultimo bicchiere.” – a me basta un caffè, sono a dieta (d’ingrasso).

Prima d’andarmene mi sorbisco il ventitreesimo capitolo, quello in cui ancora esiste un certo Bondan. “Se la sarebbe cavata, ne era convinto.” – anch’io (dall’indice ho scorto che c’è un venticinquesimo capitolo). Sente scorrere il chiavistello: “Uscì un uomo: Tonetti.”

Il giorno appresso, tanto per cambiare, mi nutro dalla consanguinea. Dopo di che decido di pigliare con me il libercolo e di riportarlo là, dove fra poco riposerà in pace, assaporando il sonno dei giusti, io chiamo così i libri letti. E dove Bondan dimorerà per un’eternità dorata. Ora, comodamente seduto alla scrivania mi pappo i tre ultimi capitoli.

Valerio Varesi - Photo by Festa del Racconto 2021
Valerio Varesi – Photo by Festa del Racconto 2021

Nel ventiquattresimo scopro che Gianguido Tonetti non esiste, o meglio, uno c’è, ma è un omonimo. Soneri, lo yankee e il suo amante discorrono non troppo amabilmente. Il commissario ha scoperto che Tonetti in realtà è Riccardo Tolmin, figlio del custode, che era colui, confessa Blackright, che “ci dava gli ordini sulla lavorazione e qualche volta portava lui stesso la droga e tutto quello che serviva a prepararla.”

Arriva il padre di Riccardo, nonché di Giacomo (“il più piccolo”, che è un drogato marcio ormai). Soneri “li osservò uno a uno. Tre individui travolti dalle loro debolezze, dalla paura della vergogna.”

Nel venticinquesimo, Boldan è ormai ridotto al lumicino e, al contempo, ebbro: “desiderava che tutto finisse e per questo si agitava troppo. Segnalava la sua presenza e dava così un vantaggio all’altro…” – il riposo è l’agio che più manca a chi deve ancora combattere. Ma a che pro continuare? Meglio sorseggiare ancora un po’ d’alcol.

Bondan “si ricordava di Kirillov: era sotto la grande pietra e non riusciva a immaginare quando sarebbe caduta.” – egli “sentiva soltanto questa specie di anestesia fatta di stanchezza e alcol.”

Tonetti gli si fa davanti e gli dice “Dobbiamo parlare, non credi?”.

Gli dice poi varie cose, tra l’altro accenna a Pierre, che era “l’ultimo custode di quel segreto imbarazzante”. Tonetti gli dice che a Pierre (“l’ultimo custode di quel segreto imbarazzante”) qualcosa era andato male. Anche lui sta ormai riposando su quella proverbiale collina.

Vari strappi, uno più lacerante dell’altro e, alla fine “fu la sensazione di un attimo, mentre una forza irresistibile lo piegava in avanti e lui si abbandonava remissivo. Quando la terra lo accolse, gli parve di poter finalmente dormire.” – prima di imitarlo, si fa per dire, devo purtroppo voltare pagina e compiere l‘ultimo sacrificio. Durante il quale viene sciolto l’ultimo enigma. Non però quello che regola il cosmo, anzi, nemmeno il microcosmo dove svolazzano le particelle, dove la libertà è provvisoria e apparente, dove convive il branco intero: commissari, ispettori, magistrati, maniscalchi, assassini, spacciatori, puttane, vittime, autori, lettori.

L’ispettore Juvara informa Soneri che “la vittima aveva lo stomaco pieno d’alcol.” – inoltre aveva “una macchia polmonare dovuta forse a una pleurite o una broncopolmonite”.

Il commissario si rammenta di quell’intercettazione “che avvertiva del pericolo per uno dei nostri”. Io vagamente mi ricordo che Locusta s’era accorto del contrarsi di quel corpo.

Un informatore dà a Soneri l’indirizzo del titolare del telefono di un tipo ammalato di broncopolmonite, che si era presentato in uno studio medico, a cui aveva lasciato un numero di telefono e un nome, probabilmente falso, e poi aveva fatto perdere le sue tracce, non rispondendo più alle chiamate.

Giunto sul posto, Soneri scorge un barilotto, che capovolge: ne “uscirono tre buste di plastica; le pistole che cercava.” – ma una “ne mancava ancora, la Mauser.”

Scorge una libreria, e nota “un volume posato sullo scaffale. Lo prese e vide che si trattava dei I demoni di Dostoevskij. Un segno e una vistosa piegatura sul dorso gli indicarono le pagine più lette. L’aprì allora in quel punto e lesse il solitario delirio di Kirillov.”

Al commissario Soneri, alla fine della fola, non arride una vittoria, né una sconfitta, ma un ignobile pareggio: si doveva accontentare “di aver trovato i colpevoli.” Juvara poi gli dirà il nome colui a cui apparteneva la pistola, aggiungendo che era “uno dell’archivio”.

Dopo che qualcuno l’ha informato a chi era appartenuta l’arma, Soneri “sferrò un pugno sul tavolo facendo sobbalzare le pistole nelle buste. Lui, Bondan, non l’avrebbe mai perdonato.” Che significano queste arcane parole?!

Per Einstein il tempo è un’illusione che potrebbe però essere connessa allo spazio, di cui dovrebbe essere un’ulteriore dimensione. Lo spazio però è curvo. E forse lo è anche il tempo! Nietzsche parlava di un eterno ritorno. Se m’attacco a questi giganti, è perché non comprendo non solo questo noir, ma nemmeno il misterioso resto.

Non so se è la prima volta che un thriller finisca così. Dice Soneri: “Chi avrebbe mai saputo la vera motivazione di quella catena di delitti? Lasciava l’interpretazione ai magistrati e ai criminologi. Lui, Soneri, si accontentava di aver trovato i colpevoli.”

La consanguinea m’aveva avvertito: altri romanzi di Varesi le erano parsi più accessibili, in questo il suo giudizio era rimasto sospeso. Il suo non era un giudizio negativo. Forse la partita non era mai finita, ma era stata sospesa causa nebbia.

Qualcun altro da me interpellato ha riscontrato talune difficoltà a memorizzare nomi, cognomi, veri e fasulli. Nonché il senso dell’intera storia.

Il protagonista dei capitoli dispari resterà un enigma per me. Non so che ruolo effettivo abbia svolto nell’organizzazione, né perché sia uscito da quell’inferno, pur rimanendo nei suoi pericolosi dintorni. Cosa lo tratteneva in zona, lungo il bordo di quel buco nero? È come se un Bondan sia rimasto in esso e uno ne sia evaso, pur rimanendo correlato al se stesso che fu, non riuscendo però a fuggire via e finendo per ricadere dentro di esso.

Cosa gli aveva fatto maturare la decisione d’abbandonare quel mondo infame in cui aveva agito quindici anni prima? Quali informazioni spariranno insieme a lui? Perché quel Kirillov destava tanto interesse in lui? Cosa potrebbe fare per lui l’autore, dopo averlo consegnato a un’ingiustizia disumana? Non potrebbe scrivere un prequel? È concepibile un sequel che possa ospitare noi poveri demoni?

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Valerio Varesi, Bersaglio, l’oblio, Diabasis, 2000

 

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