“La ricamatrice di Bayeux” di Claudia Ryan: Melisenda, personificazione di una sfida alle norme sociali

Il ricamo noto come Tapisserie de Bayeux è un monumentale prodotto d’arte e documento storico che risale agli anni ’70-’80 dell’XI secolo. Esso esalta l’epopea della conquista normanna dell’Inghilterra del 1066.

La ricamatrice di Bayeux - Photo by Tiziana Topa
La ricamatrice di Bayeux – Photo by Tiziana Topa

La paternità dell’opera è incerta ma la dovizia di riferimenti culturali lascia propendere per l’ipotesi che essa abbia visto la luce all’interno di un monastero.

Nel romanzo storico La ricamatrice di Bayeux (Nardini Editore, 2021, pp. 247) Claudia Ryan offre un’interpretazione più suggestiva della genesi della Tapisserie, attribuendola a una donna, Melisenda di Bayeux.

Il nucleo generativo dell’opera della Ryan è la potenza espressiva delle scene ricamate nel tessuto, alla cui storicità ella si attiene fedelmente, trasfigurando nell’invenzione letteraria personaggi e circostanze legati al processo creativo del manufatto.

Una mattina di primavera del 1075 Melisenda, pregiata ricamatrice titolare di un rinomato laboratorio, riceve la visita di Odo, vescovo di Bayeux e conte del Kent, il quale le commissiona un incarico prestigioso: tessere una lunga tela che celebri la conquista e l’ascesa al trono d’Inghilterra di suo fratello Wilhelm.

Per la ricostruzione dei fatti Melisenda attingerà alla testimonianza del conte Aldwig di Chilham che all’impresa ha partecipato. Il lavoro viene intrapreso in un clima di euforia a cui presto subentra lo scoramento per un cammino che si rivela irto di difficoltà. Vittima di due sabotaggi, Melisenda deve risolvere il mistero e guardarsi da nemici di cui ignora l’identità. Ma un’altra nube si addensa sul capo della donna che finisce al centro di un intrigo di potere. Mentre ella si dibatte in questa ragnatela di insidie, il rapporto con Aldwig cresce fino a sfociare nell’amore. Parallela alla storia personale di Melisenda, che si snoda tra il 1075 e il 1077, corre la Storia fissata sulla tela, che inizia nel 1064 e culmina nella battaglia di Hastings del 1066.

Il nome Melisenda deriva dal germanico Amalasunta, composto dalle voci amal (‘lavoro’) e suind (ʻforzaʼ). È davvero un nomen omen quello della ricamatrice che ha fatto del lavoro la propria forza. Ma la forza di Melisenda è anche il frutto del felice connubio di elementi preclusi alle donne nella società maschilista e patriarcale dell’XI secolo: una buona dose di cultura, un radicato senso di indipendenza e un brillante spirito imprenditoriale.

Ella è colta pur non essendo aristocratica. Legge, scrive, ha studiato Filosofia. La cultura è un “difetto” femminile di famiglia trasmesso alle discendenti dalla bisnonna, pupilla di papa Silvestro II, che le consentì di ricevere un’istruzione, convinto che le donne avessero lo stesso diritto allo studio degli uomini.

Il bagaglio culturale di Melisenda si nutre anche dell’osservazione diretta, dello studio sul campo. Grazie al padre mercante ella ha modo di viaggiare, di conoscere tradizioni e prodotti d’arte. A Roma, sua città natale, ammira le antiquitates; nel sud Italia rimane incantata dalla vivacità delle miniature. Dalla Penisola a Bayeux e da qui a Canterbury, Melisenda è una donna cosmopolita. La sua esistenza itinerante la porta a sviluppare un’idea di indipendenza più maschile che femminile, complice l’esempio della madre, emancipata e sicura di sé.

Genitori illuminati, quelli di Melisenda, che ne comprendono e rispettano la volontà d’autonomia. L’indipendenza della ricamatrice è anche di natura economica. Dal padre ha appreso la capacità di amministrare un’attività che le consente di mantenere un’apprezzabile agiatezza.

Prima inter pares, Melisenda regge il timone del laboratorio occupandosi degli aspetti decisionali, organizzativi e di coordinamento e, nel contempo, del lavoro manuale insieme alle due aiutanti che considera piuttosto come collaboratrici. Melisenda è dunque un unicum nell’universo femminile del suo tempo, la personificazione di una sfida alle norme sociali che pongono la donna sotto la tutela di un uomo, che sia il padre, lo sposo o il re.

So di essere una donna fuori dall’ordinario, ma lo stare sempre in casa, come il ruolo femminile vuole, mi annienta.”

Una donna che si è autodeterminata e che vive da sola. Inevitabile che sia guardata con diffidenza, inevitabile che susciti invidie. Una rivalità lavorativa e un antico risentimento personale la rendono invisa a Estrith, titolare del laboratorio concorrente. Estrith è provata dalla vita. Anche lei è una donna sola ma la sua solitudine è di segno ben diverso da quella della rivale: l’ha inaridita, l’ha abbrutita. Melisenda ha saputo invece conservare la gioia di vivere e una forte pietas verso gli svantaggiati.

“… Forse perché credo che ognuno di noi debba fare il possibile per salvare un suo simile. Forse perché credo nella carità cristiana…

Certo, Melisenda è forte, indipendente, ma è pur sempre umana e non è immune a momenti in accusa la lacuna di un uomo al proprio fianco, un uomo che la sostenga e le infonda energia.

Aldwig la turba fin dal primo incontro per l’aura di sofferenza e fierezza che emana. Il conte svetta nel rozzo mondo degli uomini d’armi; è un cavaliere sui generis. Valoroso e sensibile, non disdegna la lettura di un libro. La sua nobiltà non è solo quella di sangue ma è anche quella di un animo che, pur avvezzo a fatti cruenti, conserva radicati princìpi morali.

Egli non si dà pace che molti ignorino le virtù di onestà, onore e dignità, non si capacita che intrighi, prevaricazione e violenza siano diventati nuovi dèi da idolatrare. E si duole che amore e compassione siano silenziosi come pioggia primaverile. Pacato ed equilibrato, guadagna, ventunenne, la stima di Wilhelm, alla cui corte inizia un percorso di formazione che lo consacrerà cavaliere.

Quando giunge presso il duca di Normandia, Aldwig è allenato all’uso delle armi ma non ha mai partecipato a un combattimento. L’esordio nell’agone militare è traumatico: prova orrore per la scia di morte che vede intorno a sé, prova nausea per l’odore del sangue che macchia la terra su cui lui stesso cammina. Poi, con l’esperienza, egli matura una concezione razionale, meccanicistica della battaglia, forza bestiale che investe ogni cosa.

Claudia Ryan
Claudia Ryan

La nobiltà d’animo di Aldwig si declina anche come fedeltà alla promessa sposa. Lontano da lei, egli potrebbe colmarne la mancanza consolandosi con le grazie di qualche servetta. Invece no. Contro di lui la tentazione della carne si spunta come una freccia che urta contro una corazza. La perdita di Abigail, profanata e uccisa da Harold, infiamma di dolore e furore il cuore del giovane, spinto dalle Erinni a reclamare vendetta. Harold è un essere infido e abietto che rimanda un’immagine opposta a quella di Aldwig. All’alta caratura morale di quest’ultimo si contrappone la natura animalesca, triviale del conte di Wessex. Chilham dà prova di lealtà al proprio dux, Harold è un vile esempio di fellonìa.

Melisenda e Aldwig incarnano il mito delle due metà descritto da Platone nel Simposio. Sono davvero anime gemelle, per questo è inevitabile che si incontrino per ricomporre l’intero. Durante l’ingresso trionfale dell’armata di Wilhelm a Bayeux, nel 1064, le vite dei due si sfiorano per la prima volta. Tra la folla acclamante, una giovane dai lunghi capelli neri si impone all’attenzione di Aldwig. Quella giovane è Melisenda. Undici anni dopo questo fugace contatto premonitore, il destino si diverte a intrecciare in modo definitivo i fili delle loro vite. Nulla può la distinzione di casta contro quella forza che, come dice Platone, ricongiunge metà complementari.

Melisenda e Aldwig sembrano aver seguito lo stesso percorso esistenziale. Entrambi hanno perso tragicamente un grande amore. Entrambi hanno un antagonista che è il ricettacolo dei vizi opposti alle virtù di cui essi rifulgono. Entrambi sono chiamati a “governare”: l’una il laboratorio, l’altro il feudo. Realtà diverse, certo; ma anche nella gestione della proprietà essi rivelano un’affinità: preferiscono essere rispettati che temuti. Cosmopolitismo e cultura sono un ulteriore terreno in cui affondano radici comuni.

Galeotto è l’arazzo, che assume per ciascuno un valore che trascende la mera celebrazione di un’epopea. Per Aldwig raccontare le vicende accadute undici anni prima è, inizialmente, solo un omaggio al proprio dux. Poi, immergendosi nel passato, ogni incontro con Melisenda assume il carattere di una seduta psicoanalitica; il viaggio nella memoria gli permette di affrontare per la prima volta dopo tanto tempo emozioni soffocate nel tentativo di suturare una ferita troppo dolorosa da sopportare. Per Melisenda l’arazzo è un vestigium che le consente di sopravvivere alla breve esistenza terrena. Ma, soprattutto, è il proprio contributo alla Storia: le gesta che hanno condotto alla conquista dell’Inghilterra saranno consegnate all’eternità anche grazie a lei, una donna. Un’artigiana formidabile, sì. La migliore. Ma pur sempre una donna. Nel Medioevo il magister è sempre un uomo. Cattedrali e cicli pittorici prendevano forma da mani virili. Quell’arazzo, quel frammento di Storia, nasce dalle mani delicate e gentili di Melisenda, la ricamatrice di Bayeux.

 

Written by Tiziana Topa

 

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