Meditazioni Metafisiche #38: Giordano Bruno e la reincarnazione

L’indagine storica, a partire dall’idealismo, ci ha consegnato un’idea apollinea del Rinascimento.

Meditazioni Metafisiche 38 - Giordano Bruno e la reincarnazione
Meditazioni Metafisiche 38 – Giordano Bruno e la reincarnazione

L’immaginario collettivo, interiorizzata questa chiave di lettura, ne fa un’epoca di pace, di splendore e di armonia. E anche oggi, a livello filosofico, un intero filone interpretativo – di matrice più o meno heideggerianavede nel Rinascimento un’anticipazione dell’età moderna, grazie alla quale sarebbe emersa una nuova concezione della soggettività, come fondamento e misura di tutte le cose.

Le linee pure e ordinate della prospettiva sarebbero allora il sigillo di una umanità rinnovata, che osserva il mondo a partire da sé, dalla propria ritrovata centralità, al fine di plasmarlo e dominarlo.

Il Rinascimento come forma inaugurale di quel processo che porterà, pochi secoli più tardi, al dominio della razionalità scientifica, che appiattisce il mondo sulle esigenze del calcolo.

Si tratta, tuttavia, di una lettura assai parziale, che finisce per restituire un’immagine distorta di un periodo ben più inquieto e sfaccettato. Si può anzi affermare che i maggiori pensatori del Rinascimento – dall’Alberti a Bruno, passando per Machiavelli – tutto sono, fuorché promotori di un’idea trionfalistica dell’uomo.

Si tratta, al contrario, di pensatori tragici, il cui sforzo sta proprio nell’evidenziare i limiti costitutivi dell’agire umano, sempre in balia della Fortuna, condizionato sempre dalla finitezza.

È mio interesse portare all’attenzione del lettore questa diversa idea dell’epoca rinascimentale – un’epoca di ombre, di rotture, di contrasti dirompenti. Lo farò attraverso un aspetto forse poco conosciuto del pensiero di Giordano Bruno, relativo alla reincarnazione.

Cominciamo subito col definire Bruno per ciò che egli era, cioè un pensatore fortemente anti-cristiano. Bruno riteneva che Gesù fosse un «cattivo mago», ingannatore degli uomini, e fondatore di un credo corrotto e menzognero. In lui rivive quell’atteggiamento che fu proprio della grande filosofia neoplatonica, in particolare di Celso, che accusava il figlio del falegname di aver appreso, durante un soggiorno in Egitto, una serie di miserevoli trucchi, con i quali carpire in modo fraudolento la buona fede degli ingenui.

Perciò Bruno si rivolge altrove, a quelle forme di pensiero che erano tornate in auge sul finire del ‘400, grazie alla mediazione di Marsilio Ficino: si rivolge al platonismo, all’alchimia, all’orfismo, alle dottrine ermetiche, alla «vera magia». Uno dei frutti di questo incontro è proprio il recupero del concetto di metempsicosi, termine che sta a indicare la trasmigrazione delle anime da un corpo all’altro.

Nel mondo antico l’idea della reincarnazione era diffusissima. Bastino tre esempi, tra i molti che si potrebbero proporre. Anzitutto il mito di Er, raccontato da Platone nel X libro della Repubblica: caduto in battaglia, Er era stato già deposto sulla pira funebre, quando, spalancati gli occhi, era tornato in vita raccontando ai presenti quel che aveva visto nell’aldilà: una piana ridente, dove le anime, al cospetto di Anànke, dea della Necessità, sceglievano come da un cumulo la loro successiva incarnazione; così Er aveva potuto vedere Agamennone scegliere il destino di un’aquila, Orfeo rinascere in forma di cigno, Aiace in forma di leone, e Odisseo, ormai stanco di avventure, ritornare all’esistenza come un anonimo borghese, intento solo ai fatti propri.

Publio Virgilio Marone
Publio Virgilio Marone – autore ignoto

Un secondo esempio ci viene da Virgilio, dal libro VI dell’Eneide: al termine del suo viaggio nell’Oltretomba, Enea, guidato dalla Sibilla, giunge infine nei Campi Elisi, dove le anime dei trapassati trascorrono le ore coltivando le arti e gareggiando tra di loro, in attesa di reincarnarsi, «dopo aver girato la ruota del tempo per mille anni». È l’ombra di Anchise, il padre di Enea, a rivelare al figlio la sorte che attende gli spiriti: una grande Anima universale permea tutte le cose; da essa derivano le anime particolari, come faville da un immenso fuoco; con la nascita si insediano nei corpi, dai quali, con la morte, vengono poi liberate; infine, le anime si dissetano alle acque del fiume Lete, dimenticando in tal modo le vicende passate, per assumere daccapo un nuovo corpo.

Il terzo e ultimo esempio lo possiamo trarre dall’Antro delle Ninfe, commento esegetico ad un passo dell’Odissea, redatto da Porfirio, il principale allievo di Plotino. Nel tredicesimo canto del poema, Omero descrive una misteriosa grotta, situata sulla spiaggia di Itaca, dove le api depongono il miele, e le ninfe tessono manti purpurei su alti telai di pietra. Secondo Porfirio, la caverna rappresenterebbe il cosmo; i telai di pietra sarebbero invece le ossature dei corpi, e il loro essere coperti dalla porpora – dai vasi sanguigni – andrebbe dunque letto come una metafora della metemsomatosi, cioè del processo che conduce l’anima a una nuova incarnazione; il processo inverso sarebbe poi rappresentato dalle api, ovvero dalle anime che, lasciato il corpo, si librano al di sopra della sfera sensibile.

L’idea della reincarnazione, così diffusa tra gli autori classici, scomparve dalla cultura occidentale con l’avvento dell’evo cristiano. La trasmigrazione delle anime è infatti incompatibile con la dottrina dell’anima individuale proposta dal cristianesimo, per cui essa può aver sede unicamente in una carne, in un corpo destinato addirittura alla resurrezione, e cioè a formare assieme all’anima un legame sempiterno, infernale o paradisiaco. Tutto ciò, al contrario, non accade nel sistema delle anime trasmigranti, le quali passano di corpo in corpo a seconda della loro precedente condotta, e che, pertanto, non hanno nulla a che spartire con l’idea di un’elezione o di una dannazione eterna.

E Giordano Bruno?

Riallacciandosi alla tradizione neoplatonica, e a quella orfico-pitagorica, il Nolano riteneva la reincarnazione del tutto ammissibile, ben più di quanto non lo fosse la dogmatica cristiana. Nell’Asino cillenico, un dialogo pubblicato a Londra nel 1585 come aggiunta alla Cabala del cavallo pegaseo, Bruno mette in bocca proprio ad un asino le seguenti parole: «Ricordati ch’il tuo Pitagora insegna a non spreggiar cosa che si trove nel seno della natura. Benché io sono in forma d’asino al presente, posso essere stato e posso essere appresso in forma di grand’uomo; e benché tu sia un uomo, puoi essere stato e potrai essere appresso un grand’asino, secondo che parrà ispediente al dispensator de gli abiti e luoghi, e disponitor de l’anime trasmigranti».

Già un anno prima, nel 1584, Bruno aveva fatto delle affermazioni analoghe all’interno dell’Epistola che apre lo Spaccio de la bestia trionfante. Dopo aver accennato al rapporto gerarchico esistente tra anima e corpo, egli scrive: «Per aver dunque ivi menata vita, per esempio, cavallina o porcina, verrà come molti filosofi de’ più eccellenti hanno inteso, ed io stimo, che se non è da esser creduto, è molto da esser considerato, disposto da fatal giustizia, che gli sia intessuto incirca un carcere [cioè un nuovo corpo] conveniente a tal delitto o crime, organi e stromenti convenevoli a tale operaio o artefice. E così oltre ed oltre sempre discorrendo per il fato de la mutazione, eterno verrà incorrendo altre ed altre peggiori e migliori specie di vita e di fortuna».

Giordano Bruno
Giordano Bruno

Per Bruno, le anime possiedono un «principio vitale», in forza del quale vengono disposte ad una «prossima futura mutazion di corpo». E come l’anima che visse in forma d’uomo può reincarnarsi in un animale, così l’anima che sperimentò una vita animale può rinascere in un corpo umano. Da questo punto di vista, l’uomo non è titolare di alcun privilegio, come accade invece nel cristianesimo, dove la cesura tra mondo animale e umanità è assai netta. Certo, l’uomo, a differenza dell’animale, ha la possibilità di volgersi alla comprensione delle cose, e di adeguare dunque la propria condotta a quelle verità che riesce a cogliere, in un istante di «eroico furore».

Eppure, stando alla filosofia di Bruno (si pensi in particolare al De umbris idearum del 1582), l’uomo non è mai nelle condizioni di raggiungere il Vero in sé, e può soltanto addentrarsi in un reticolo di ombre.

L’uomo stesso è «ombra profonda», in un universo costellato da infiniti mondi sconosciuti. Queste ombre non sono semplici miraggi, e si configurano anzi come una traccia della Verità, in un percorso, tuttavia, che per un ente finito come l’uomo resta essenzialmente inesauribile, e quindi inevitabilmente problematico, inquietante, aperto.

L’universo infinito di Bruno manda in frantumi l’immagine del mondo medievale, il suo universo conchiuso, aristotelico, e con esso l’umano e il divino che vi abitavano. Non un Lògos che si fa carne, sulle strade di una Terra collocata al centro, al fine di condurre gli uomini, creature predilette, alla resurrezione, ma uno spazio sconfinato e inconoscibile, se non per segni umbratili, dove le sostanze spirituali trasmigrano senza posa da una carne all’altra, in questa o nelle altre, innumerevoli stelle.

Dal breve schizzo che abbiamo tracciato emerge dunque, tramite un aspetto del pensiero di Giordano Bruno (una figura, peraltro, già di per sé drammatica), una immagine del Rinascimento come luogo in cui convergono, scontrandosi, differenti esperienze e tradizioni, un periodo di tensioni, di lacerazioni, di crisi irrisolte, ben distante dall’idea museale, fin troppo corrente, tutta chiarori e matematica esattezze.

 

Written by Riccardo Peruzzo

 

Bibliografia

Giordano Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, BUR Rizzoli, Milano 2017

Giordano Bruno, Opere latine, Utet, Torino 2017

Giordano Bruno, Cabala del cavallo pegaseo, BUR Rizzoli, Milano 2019

Platone, Repubblica, Laterza, Bari 2007

Porfirio, L’antro delle ninfe, Adelphi, Milano 2006

Virgilio, Eneide, Einaudi, Torino 2012

 

Info

L’immagine di rilievo della rubrica Meditazioni Metafisiche è tratta dal libro “Pentateuch of Printing with a Chapter on Judges” del tipografo e bibliografo inglese William Blades (5 dicembre 1824 – 27 aprile 1890); la riproduzione di frontespizio a cui si fa riferimento è situata a pagina 137 nel capitolo “Chapther on Judges” e denominata “Discourse into the night”.

 

 

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