“L’uomo che guardava passare i treni” di Georges Simenon: una partita a scacchi tra l’Io e il Cosmo
Gli scacchi risvegliano nel giocatore novello alcune considerazioni di Sé e dell’Altro, in maniera più profonda che in qualsiasi gioco che preveda un trionfatore e un soccombente. Rispetto alle altre tipologie, gli scacchi hanno questo in più: ognuno sta solo sul cuor della stanza, trafitto dalla mossa nemica e che sia sera, o tarda notte, o all’alba di un nuovo giorno, il trionfo o la disfatta è un fenomeno che dovrà verificarsi. Un’estrema alternativa è il pareggio, frutto di una pace momentaneamente pattuita.
Nemmeno la più pallida delle Palladi Atena potrà darti una mano, ma sarà il reciproco destino che si mischia fra te e il tuo antagonista a concedertela o a negartela. Potrai andare in vantaggio, perdere per distrazione un pezzo, recuperare, soccombere e trionfare. Sarà il Cosmo a decidere, insieme te e a lui, in un tragico e a volte salvifico entanglement.
Ad Amsterdam il pedone di nome “Paméla faceva il bagno prima di andare al Tuchinski. Il cabaret alla moda. E che cosa aveva a che fare, tutto questo, con Popinga? Come pure il fatto che a Parigi, in un piccolo ristorante della Rue Blanche, Chez Mélie, una certa Jeanne Rozier, rossa di capelli, sedesse in compagnia di un tale Louis, al quale chiedeva, servendosi di senape…”
Sono frasi non prive d’importanza e a modo loro necessarie al prosieguo della storia. Non esiste pagliuzza (e nemmeno particella subatomica) che non abbia contribuito a mutare la storia di quel che appare il mondo attuale.
Popinga chiamava la moglie “maman per via dei figli”, e anch’essa, paragonabile a una “stufa”, “aveva quarant’anni e la stessa dolcezza, la stessa dignità di tutta la casa, persone e cose”.
Per la cronaca e ammesso che interessi a qualcuno, questo è uno dei romanzi che commento soltanto alla fine, e non in itinere, come di solito mi capita.
Si tratta di una partita molto complessa, di cui non importa scoprirne l’esito, ma il come possa andare a finire. Un libro ha questo di buono: ha un inizio e una fine. Una partita di scacchi, pure, ma prima ho detto una sciocchezza: una partita potrebbe finire con uno sconvolgimento esistenziale.
Mi sto chiedendo cosa capiterebbe se all’ultimo incontro fra due contendenti, con il giocatore A in netto vantaggio, con un avversario B, ormai ridotto al lumicino: poniamo un Re e un Pedone, contro un Re, una Regina, due Torri, un Alfiere e un Cavallo, A improvvisamente si trasferisse Colà dove non si gioca più: a chi andrebbe il titolo? Penso a B, per abbandono tragicamente occorso al rivale. Se accadesse un evento sismico o uno bellico, nel caso nessuno dei due scacchisti perisse, l’incontro potrebbe tranquillamente proseguire Altrove e quando il Destino lo consentirà.
Julius de Coster, datore di lavoro del nostro eroe, non sarebbe un onesto giocatore di scacchi. Egli si presta a ogni forma di inganni pur di vincere, ma soprattutto di non perdere. Mentre l’avversario si fosse allontanato per mingere, egli cambierebbe la posizione di un pezzo, anzi, farebbe di peggio.
Comodamente seduto a un tavolo di un’osteria, Julius confida, sorridendo e come se fosse un’amenità, che la ditta per cui Popinga lavora da anni con professionalità ed efficienza, “si troverà in bancarotta e a polizia si lancerà sulle mie tracce…”.
Particolare di una certa importanza, ai fini della partita: Popinga aveva investito quasi tutti propri soldi nell’azienda di quell’infido boss, e ora è praticamente rovinato.
Julius gli comunica il piano che ha in mente: “Domani tutti crederanno che mi sia suicidato pur di non subire il disonore, e quegli imbecilli spenderanno non so quanti fiorini per far dragare il canale… Nel frattempo il treno di mezzanotte e cinque mi porterà lontano di qui…”
La tattica è corretta per questa miserrima vita sociale, dov’è l’abilità nella truffa che ti porta in alto, a dominare sugli onesti, ma non per il gioco degli scacchi che, mi verrebbe da dire, è il gioco più onesto del mondo, almeno fra quelli che conosco.
Benevolmente, Julius gli allunga benignamente, come se fosse un San Martino, una sommetta che ammonta ad appena cinquecento fiorini, la metà esatta di quanto ha in tasca. Inoltre, assai gentilmente, gli va di offrire la consumazione del bar.
Julius chiede garbatamente a Popinga di accompagnarlo al treno, “se non ha troppo sonno”:
Mentre Julius stava discorrendo, Popinga ascoltava, senza interloquire: al massimo “trasalì, come strappato da un sogno...”.
I due si recano alla stazione. “Era un vero treno della notte, sonnacchioso, sordido, abbandonato in fondo a un binario. Il capostazione, col berretto rosso, aspettava solo di aver dato il segnale per andare a letto.”
Quando la notizia del (simulato) annegamento di Julius si diffonde, maman gliela comunica e Popinga non può che rispondere che non gliene importa nulla. I rapporti tra i due coniugi non sono calorosi, lei gli dava del tu solo “nelle grandi occasioni”, tipo quella che sta capitando ora: lui se ne sta andando via per sempre e forse lei, che lacrima, percepisce il fatto. Lui la saluta affettuosamente, chiamandola stupida: “Quella parola, la signora Popinga non doveva mai capirla, e mai doveva sapere che era la parola più tenera che Kees le avesse rivolto in vita sua.”
Che rapporto aveva coi suoi figli? Lo stesso che io ho dei miei, quando gioco una partita di scacchi. Sono perfettamente conscio che esistono, ma ora devo badare a dove piazzare il cavallo.
“Kees Popinga si era seduto in uno scompartimento di seconda classe insieme ad altre due persone, di cui non conta troppo parlare.”
Più importante è quello che egli va scrivendo su “un taccuino rilegato in marocchino rosso”, dove al momento erano trascritti i dati di alcune partite, “due pagine zeppe di segni convenzionali”.
Ora egli vi segna che è “partito da Groninga col treno delle 16.07.” e altri fatti degni d’annotazione.
“Nulla, assolutamente nulla lo distingueva da un visitatore qualunque, se non forse la sua calma.”
Sale da Pamela e le comunica che “per due anni l’ho desiderata…” e quel che succede ora influirà notevolmente sulla partita.
“Quando uscì era ancora più calmo, se possibile.”
Poi, “su una banchina della stazione, Popinga non manifestava la minima impazienza. Gironzolava in attesa del treno, e si divertiva a scrutare in ogni più piccolo dettaglio i viaggiatori che passavano.” Capita una cosa analoga durante una partita, un giocatore dopo aver mosso si alza e fa due passi, in attesa che l’Altro muova un pezzo.
“Questa volta fu un vero treno della notte, come quelli che visitavano i sogni di Popinga, un treno con vagoni letto, tendine calate sui vetri degli scompartimenti, luci abbassate e viaggiatori che parlavano in diverse lingue, un treno internazionale per di più, che in poche re varcava due frontiere.”
Una cosa a cui non si pensa granché: la vita trascorre il suo tempo sia durante una partita, che fra un incontro e l’altro: solo che in quest’ultimo caso il giocatore cessa di essere tale. Questo succede a me, a Popinga non so (ancora). Egli annota tutto, “come certi viaggiatori collezionano cartoline illustrate o menu di ristoranti.”
Per un’improbabile quanto singolare coincidenza sto leggendo il romanzo di Georges Simenon, la Vigilia di Natale e l’oggi che Popinga sta vivendo è datato “24 dicembre”.
Popinga è ora a Parigi, dove è ricercato per omicidio (di Paméla): per qualche motivo ineffabile è stato verificato il suo arrivo nella capitale francese. No è poi così ineffabile. Popinga si è confidato a una prostituta di nome Jeanne Rozier. Per meglio dire, a lei che gli chiedeva se fosse lui l’assassino di una certa Paméla avvenuto a Groninga, lui risponde: “Certo che sono io!”, ma poi aggiunge: “Non l’ho fatto apposta… Mi chiedo persino come abbia fatto a morire…” – e poi coglie delle “esagerazioni” nell’articolo di giornale che gli aveva esibito la ragazza. Solo lui sapeva la verità: quella Paméla, degna donna di tanto uomo (il succitato Julius), era morta perché si era messa a ridere senza un vero motivo.
In una sua più attenta disamina, egli dapprima sottolinea delle frasi che gli paiono errate (si definisce “non assassino, ma omicida”, e poi annota su taccuino alcune considerazioni. È la stessa cosa che sto facendo io ora, col romanzo di Georges, con la differenza che io non mi sogno nemmeno lontanamente di obiettare alcunché.
Un giornale francese “lo aveva definito a chiare lettere”: lui era “Kees Popinga, il satiro di Amsterdam!”
Intanto qualcuno prospetta l’idea illogica che sia il colpevole anche dell’uccisione di Julius, il cui corpo non è stato ancora trovato.
Egli intanto si affida a una banda di ladri d’auto a cui l’aveva raccomandato Jeanne Rozier, che ben presto si rivelano poco affidabili e di cui, l’ottimo scacchista non può che subodorarne il prossimo tradimento.
Con la consueta calma, Popinga capisce che “tutta la banda era come prigioniera del garage, come maman lo era della casa, Claes della clientela e di Eléonore, Copenghem del circolo degli scacchi di cui ambiva la presidenza…”.
Lui, Popinga, non era prigioniero di nulla, di nessuno, di nessuna idea, di niente di niente, e la prova… – speriamo sia nel capitolo seguente o in quello successivo.
Popinga comincia a provare interesse erotico per Jeanne Rozier, ammettendo con se stesso di aver sbagliato mossa, allorché “lei era stata a disposizione, nel suo stesso letto!” e lui non ne aveva approfittato. Non sono dello stesso parere. Non sarebbe stato un acte gratuit, di quelli che avrebbe amato un Gide, nel senso che lei avrebbe mercificato il suo corpo, e ora i soldi servono a Popinga per sopravvivere e, nella situazione in cui vive, hanno l’orientamento di calare, anziché aumentare.
Poiché lei, al momento, non era favorevole alla transazione, “lui colpì alla testa col calcio della revolver”, senza avere però alcuna intenzione d’ammazzarla. Popinga era ormai null’altro che “un’ombra in fuga”.
I giornali e le persone che lo incontrano hanno sempre quella maledetta tendenza di attribuirgli una personalità, ognuno scegliendo quello che più gli aggrada. Una prostituta, “della quale Kees ignorava il nome”, gli aveva detto: “Devi essere infelice, non è vero? Scommetto che hai pene d’amore…” – pazienza, dai…
Lui era superiore agli altri (“giornali, ladri, assassini, traditori in fuga”) perché “si occupava di quelle cose come un tempo si era occupato degli affari della Julius de Coster en Zoom, con sangue freddo, con un distacco assoluto, come se tutto quanto non lo riguardasse.” – non lo riguardasse troppo, aggiungo io. Intanto lui scrive al Commissario, fornendogli tutti gli elementi necessari per stroncare l’attività di quella banda di ladri d’auto, facendo arrestare i suoi componenti.
“… Kess era capace di restare immobile per ore, le gambe accavallate, tanto che la cenere del sigaro raggiungeva tre o quattro centimetri.” – lo stesso Gautama Buddha sarebbe stato fiero di lui.
Egli “si era accorto infatti che gli rimanevano tante ore da far passare ogni giorno, anche dormendo moltissimo. Non poteva girovagare per le strade più di tre o quattro ore, perché era faticoso e con l’andar del tempo demoralizzante. Doveva predisporre distrazioni regolari, come quella degli scacchi, farle durare il più a lungo possibile, per mantenersi in forma, per serbare una piena lucidità.”
Intanto continua ad annotare scrupolosamente i fatti che gli capitano e che lui giudica importanti.
Una bretone gli chiede se lui è straniero, ma lui non risponde (almeno nel romanzo di Georges). E mi chiedo cosa gli avrebbe chiesto Mersault, quel francese di tre anni più giovane, che viveva la sua vita di transfuga ad Algeri. Due personalità diverse, ma non troppo. Nemmeno complementari, ognuno forestiero a conto suo.
Dopo aver letto l’intervista fatta a maman, Popinga scrive al “signor caporedattore” una lunga lettera, comprensiva di tre assai circostanziati punti, contraddicendo gran parte delle sue esternazioni, anche che lei lo giudicasse “un buon marito e un buon padre”.
Egli non si considera “né pazzo né maniaco! Solo che a quarant’anni ho deciso di vivere come più mi garba senza curarmi delle convenzioni né delle leggi, perché ho scoperto un po’ tardi che nessuno le osserva e che finora sono stato gabbato.” – che è un’osservazione pertinente.
“Ma se invece mi si esasperasse e se prendessi gusto a una lotta all’ultimo sangue, penso che nulla mi fermerebbe.”
Finora lui era “come quel vecchierello che col naso appiccicato alla vetrina di una pasticceria guarda gli altri mangiare dolci. Adesso so che i dolci sono di coloro che si danno da fare per prenderli.”
Un giornale “stampava in grassetto Il folle d’Olanda”, al che lui prontamente replica (sempre per iscritto), varie cose che finiscono con questa frase piccata ma legittima: “Se questo è il modo in cui lei è uso informare i suoi lettori, mi riesce difficile felicitarmi con lei.”
Firmato, come sempre, “Kees Popinga”.
Un certo Lucas era colui che era stato incaricato dell’indagine. “Che spasso! Non si conoscevano, il commissario e lui. Non si erano mai visti. E assomigliavano a due giocatori, due giocatori di scacchi che scelgono le loro mosse senza conoscere il gioco dell’avversario.”
Sorgono problemi d’ansia: “Quando c’era una donna insieme con lui con lui, si addormentava subito per svegliarsi soltanto al mattino. Se invece era solo, cominciava a pensare, prima adagio adagio, come un veicolo che prenda l’abbrivio giù da un pendio, poi in fretta, sempre più in fretta, e sempre più a cose insieme, cose spiacevoli, tanto che alla fine preferiva levarsi a sedere sul letto e accendere la luce.”
Si diresse “… in una birreria d’angolo, dove un cartello annunciava un cenone a quaranta franchi, champagne incluso.”
Balla con “una formosa ragazza” che gli confida che seduto sta il suo ex, che le sta facendo, anche se il termine nel 1939 non era ancora diffuso, stalking. Lo scacchista Popinga nota che quel ceffo “per molte volte, mentre le danze erano in corso, aveva dato l’impressione di alzarsi, e a Popinga non piacque vederlo sempre con la mano destra in tasca.”
Mentre Popinga si rivolge con urgenza al cameriere, volendo saldare il conto, la sua intuizione “si trasformava in panico. Gli sembrava pericoloso perdere fosse pure un istante e si spazientiva aspettando che gli portassero il paltò..”
Egli “era sulla soglia… Lo sparo risuonò distintamente nonostante l’orchestra e fu seguito da un silenzio di stupore. Kees fu sul punto di votarsi, ma capì che doveva a ogni costo resistere a quella tentazione. Capiva che era in pericolo, che non doveva attardarsi un minuto di più in quel caffè…”
Poco oltre “vide passare un camion gremito di agenti, che sfrecciava in direzione dei Gobelins…”
Popinga, fin da ragazzo, era stato il migliore di tutti in qualsivoglia gioco. Era conscio della sua superiorità. L’episodio testé narrato ne è una comprova.
Pochi sarebbero stati in grado di spiegare i suoi sentimenti da lui provati per la famiglia: “Voleva loro bene”, da vero familius, “faceva quanto era suo dovere fare, era effettivamente quel che si suol dire un buon padre e nulla si può dire a riguardo.” – questo giudizio corregge lievemente quello precedente.
Popinga decide ora di scrivere “le sue memorie”.
Intanto uno psichiatra contattato dal giornale lo definisce “un paranoico che può diventare estremamente pericoloso qualora se ne esasperi l’orgoglio, tanto più che individui di tal fatta conservano in ogni circostanza un notevole sangue freddo.”
Altre definizioni del suo carattere, come se fosse la cosa più facile da interpretare: “paranoico”, “pazzo”, “depravato”, “infelice”!
Intanto, chissà dove, chissà con chi, e chissà come, Julius de Coster se la rideva! Come da lui previsto, “il Wilhelmine Canal è stato dragato inutilmente per più giorni…”
Quasi ogni giorno, il commissario e i giornali non fanno che prevedere l’arresto di Popinga: è sempre imminente e “a brevissima scadenza.”
Popinga comunica alcune proprie informazioni per facilitare il compito del detective. In modo simile egli usava dare dei vantaggi ai suoi avversari, in modo da esaltare il proprio valore.
Una fregatura l’attende. Un sedicente americano lo circuisce per poi derubarlo di tutti i suoi averi: era, quel miserabile, “uno dei più abili borseggiatori d’Europa”.
Ora gli resta in saccoccia solo una piccola elemosina fattagli dal barista che aveva servito lui e il ladro, che gli aveva chiesto di controllare se aveva ancora il portafoglio. Finalmente una persona onesta in tutti i sensi! Ma purtroppo inutile agli effetti del gioco.
“Forse era ancora più spossante pensare che camminare.” – la partita stava ormai volgendo al termine. Popinga decide di scrivere la sua ultima lettera “al caporedattore”, in cui simula la sua grande fuga…verso il trionfo finale!
“Ormai non aveva più bisogno di pensare, gli bastava mettere in atto le proprie risoluzioni, punto per punto, senza commettere passi falsi.”
Mancano solo un paio di mosse alla fine: “Aveva già mancato un treno, e non doveva mancare il successivo, senza contare che qualcuno avrebbe potuto scoprirlo…”
Qualcosa pensava ancora: che “era stupido… Non poteva farci niente… Era stupido, ma si stese sul traverso sul binario e poggiò la guancia sulla rotaia…”
La Vita è una partita a scacchi singolare che conduce alla Morte, dove la fortuna gioca in piena libertà tutte le sue carte, comprensive del nostro infinitesimo io, tanto che basta errare il numero del binario ed ecco che si profilano i contorni della sconfitta e del tracollo finale.
Ogni tattica che si adopera per raggiungere quel Castello così inesorabilmente lontano è destinata a un unico successo e a un’unica sconfitta: la patta finale non è prevista, ma… chissà… chi vivrà e chi morrà forse vedrà…
La fuga di Popinga è di breve durata e alla fine viene inesorabilmente catturato, prima che il treno transitasse “sul binario dove si era steso.”
Dopo il suo ritorno in patria, gli fa visita maman, che è in lacrime e che gli chiede dei consigli per varie questioni della vita familiare, e lui glieli dà con saggezza.
“Con le pagine del quaderno si costruì una scacchiera di carta, per giocare da solo. Non che si annoiasse, non si annoiava mai; più che altro era per una sorta di sentimentalismo verso il passato.”
Cominciò a scrivere le sue memorie, “e dove ancora si leggeva soltanto: ‘La verità sul caso Kees Popinga’. Il medico levò gli occhi attoniti, parve chiedersi come mai il suo paziente non avesse scritto altro. E Popinga, con un sorriso forzato, si sentì in dovere di mormorare:
‘Non c’è una verità, ne conviene?’”
La verità è un concetto religioso, perché la scienza non è mai stata in grado di certificarla, né di falsificarla. Quello che essa è in grado di esaminare, dandone un giudizio provvisorio, è la realtà, le cui determinazioni saranno sempre approssimate e mai conclusive, pur avvicinandosi sempre di più al termine dell’indagine, tanto che ognora si ha l’illusione di sciogliere l’ultimo velo, che potrebbe anche nulla celare.
Intanto, caro omicida non assassino, ti consiglio ugualmente di tentare di trascriverne i dati essenziali, anche se tutto quanto ti pare a prima vista prevedibile, a un certo punto del tuo cammino potrebbe rivelarsi ingannevole, tanto da farti intuire che nulla è esistente, se non quel velo.
A te, Georges, dico che di rado m’è capitato di leggere un romanzo meno imperfetto di questo tuo.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Georges Simenon, L’uomo che guardava passare i treni, Adelphi, 1986