“Il Mago di Oz” di Lyman Frank Baum: alla ricerca degli zii perduti
“Il mago di Oz“. Si tratta di una lunga favola, in cui gli incantesimi producono effetti portentosi, a prescindere dalla loro genuinità e dove non tutto brilla di verità, ma in cui ogni cosa splende nell’oscurità e il buio è un elemento necessario perché il miracolo finale, l’ennesimo d’una lunga serie, finalmente ha il suo luogo: la casa degli zii, nel Kansas.

Due parole su Lyman Frank Baum, desunte dalla Nota Bibliografica che precede il romanzo. Egli “nasce a Chittenango, New York, nel 1856 in una facoltosa e devota famiglia metodista di origine tedesche, settimo di nove figli di cui solo cinque giungono nell’età adulta.” La sua vita è ricca di tutto, soprattutto di fallimenti, ognuno dei quali è legato a suoi tentativi di pubblicare riviste o di finanziare produzioni teatrali e, verso la fine della vita, anche cinematografiche. Unico tracollo di diverso genere è quando aprì e presto chiuse un negozio, anche “per l’abitudine di dare la merce a credito”. Il 6 maggio 1919, muore “mormorando: ‘Ora possiamo attraversare le Sabbie Mobili’, uno dei luoghi tenebrosi descritti nei libri descritti nei libri dedicati al Paese di Oz.”.
Della sua biografia, che pur desta simpatia, non posso non citare il fatto che in una sua rivista, egli pubblica nel 1890 “due editoriali razzisti in cui auspica lo sterminio delle popolazioni nativo-americane e applaude la strage di Wounded Knee.” – per il popolo yankee questa è la colpa che difficilmente sarà lavata nella sua storia, non avendo mostrato ravvedimenti nelle vicende del XX secolo, bensì nuove manifestazioni di quel peccato che era sorto in quei fuggiaschi europei che si trovarono a combattere soli, in zone selvagge e attorniate da popoli che non intendevano farsi privare dei loro diritti, e che è l’origine dell’imperialismo americano che tanti lutti addusse agli umani.
Se si vuol perdonare il paese di Baum, si può solo far appello al fatto che non esiste popolazione che non si sia comportata in maniera così incivile, da distruggere le civiltà altrui. Questo è l’uomo Baum e l’ambiente in cui è vissuto. Ora veniamo al racconto che fece delle peripezie di quell’infante.
“Dorothy viveva nel mezzo delle grandi praterie del Kansas, con lo zio Henry, che faceva l’agricoltore, e la zia Em, sua moglie.” Che bella invenzione è lo zio… e la zia! Io ne ho avuti tanti, ma nessuno mi ha reso nipote: avevano tutti troppi figli a cui badare. Lo zio è un uomo che ha un po’ di potere dovuto alla sua esperienza, e che ti ama. Ormai non ne fanno quasi più di questo genere di prodotti a chilometro zero! Per i Latini lo zio materno era l’avunculus (da cui derivò il provenzale ovoncles, il francese oncle e l’inglese uncle), vale a dire il piccolo nonno. Lo zio paterno era detto patruus, affine al pater. In gran parte dell’Italia nord occidentale la forma dialettale per zio è barba: per analogia figurata, è l’uomo adulto degno di rispetto. Presso i Pigmei i bambini sono allevati da tutta la comunità. Non esistono capi, ma il saggio consiglio degli anziani decide il comportamento dei giovani e tutto il resto. Nel Tibet una persona autorevole è detta akou, cioè zio paterno. I primi cugini sono germani. Perciò il figlio di un cugino germano è considerato un nipote a tutti gli effetti. Nello stesso modo, il figlio di Maria, campana, è nipote della di lei prima cugina (sora cugina), ma è secondo cugino del figlio di quest’ultima. Quando portai mio figlio al Sud la prima volta, ebbi un bel da fare a dire ai Pixuntiani che questi era cugino dei nostri cugini, nonché nipote di mia sorella e di mio cognato, oltre che dei nostri zii. I parenti di mia moglie scuotevano la testa e con un certo compatimento mi correggevano: egli era nipote dei nostri zii, dei nostri fratelli e dei nostri primi cugini e cugino, al momento, soltanto dei nostri nipoti. A Pixuntum, dove non ti chiedono di chi sei parente, ma a chi appartieni, gli anziani sono detti zi’ per rispetto, anche se manca o non risulta chiara alcuna parentela coi relativi nipoti.
L’America è una nazione giovane e selvaggia e, fino a un secolo fa, assai all’antica moralmente. La popolazione autoctona, insieme agli Europei che arrivavano in cerca di miglior fortuna, guerreggiavano fra di loro e gestivano il territorio, mescolando le culture. Anche ora, nell’America dei grattacieli e delle grandi università che detengono il primato della ricerca, è basilare il concetto di zio: basti pensare a Zio Paperone, Zio Paperino, Zia Paperina, Zio Gastone, Zio Paperoga, Zio Sam, che cerca proprio te, fra milioni di nipoti, e Zio Tom così eroico nella sua capanna da schiavo.
Si discende da migliaia e migliaia di progenitori, ma se ne conoscono, di viventi, solo i genitori e al massimo i nonni, e qualche raro bisnonno, per lo più molto anziani e che fatalmente prima o poi ci lasceranno. Se s’allarga il legame stretto di sangue agli zii (per altro cioè giustificato dall’estrema somiglianza genetica) ci si assicura il futuro: gli zii sono a volte più giovani dei genitori, e i loro figli, i così detti germani, sono per lo più coetanei. I figli di questi potrebbero essere la discendenza che la vita potrebbe negare o privare. A Reggio Emilia il termine sio individua in modo derisorio una persona priva di importanza e magari un po’ ridicola, testimoniando per antifrasi l’antico rispetto. Ma ormai, quasi ovunque, si differenzia una persona che conta con titoli onorifici, direi quasi nobili, quali dott., cav., funzionario, figlio di putt… come se si dicesse principe o conte. Queste qualifiche non originano in alcun modo dalla famiglia, ma da un’istituzione regale che sovrasta gli individui, per esempio una scuola, una struttura sociale, un’organizzazione pubblica, una corte. Allora ti viene naturale scappellarti di fronte a una persona che detiene un certo status sociale o culturale, e poi ti capita di guardare con aria di superiorità il tuo vecchio zio, che a malapena riesce a discorrere in una lingua che non sia l’avito dialetto. E capita di sovente che costui chieda consiglio a te che hai studiato, e tu glielo concederai, non appena i tuoi impegni te ne lasceranno il tempo… …sic transit gloria mundi.
Scusa Dorothy, se ti ho trascurato, ma mi premeva cercare di conoscere i tuoi parenti.
La bimba, infatti, si chiama Dorothy, vive nel XIX secolo in campagna e non è né felice né infelice. La sua vita è normale, ma presto le succede qualcosa di terribile.
Prima di quel drammatico evento, Dorothy, coi suoi zii, “viveva in un casa piccina piccina, perché il legname per costruirla aveva dovuto essere trasportato su un carro per molte miglia”, che consisteva “in una sola stanza in tutto”, e “non c’erano nemmeno un solaio o una cantina, ma solo una piccola vasca scavata nella terra chiamata ‘la cantina del ciclone’, dove la famiglia poteva rifugiarsi nel caso si fosse alzata una di quelle grosse trombe d’aria, tanto forte da distruggere ogni costruzione al suo passaggio.”
Appunto: “Dorothy fu svegliata da un urto così improvviso e violento che…”
Insomma: “Il ciclone aveva deposto la casa” in un Altrove “di incredibile bellezza”, chissà dove!
“Dorothy vide arrivare un gruppo di persone tra le più bizzarre che avesse visto…”
Si trattava “di tre uomini e una donna”, i primi vestiti d’azzurro, compresi gli occhi e il cappello erano di quel colore. L’anziana, tutta in bianco, le fa i complimenti poiché aveva “ucciso la Perfida Strega dell’Est”, liberando “la nostra gente dalla schiavitù”: i Munchkin, compaesani di quei tre uomini azzurri. In realtà a ucciderla è stata la casa che, essendo di Dorothy, le trasmise il merito.
Dorothy vorrebbe tornare a casa, ma i suoi ospiti pensano sia quasi impossibile, poiché a Est “si estende un grande deserto”, che dicono che non sia attraversabile. A Sud, a Ovest e a Nord, la cosa non cambia granché. La vecchina, che dice di essere la strega buona che viene dal Nord, le consiglia di “andare alla Città di Smeraldo”, dove regna il potentissimo Mago di Oz.
La buona strega “la baciò con dolcezza sulla fronte, e dove le sue labbra l’avevano toccata rimase un’impronta tonda e scintillante, come Dorothy avrebbe scoperto poco dopo.”
Dopo un breve saluto e un augurio di buon viaggio, i quattro soggetti sparirono: gli uomini “tra gli alberi” e la vecchietta all’improvviso.
La bambina è consapevole che dovrà compiere un lungo viaggio, e per fortuna non è sola: insieme a lei c’è l’inseparabile Toto, il suo adorato cagnolino.
“… vide sul tavolo e scarpe d’argento che erano appartenute alla Strega dell’Est” – e, viste che ben le si adattavano, decise di indossarle.
“… non lontano vide uno spaventapasseri sistemato in cima a un palo per tenere gli uccelli lontano dal grano maturo.”
Nella mia vita ho visto così tanti spaventapasseri disegnati nei libri che non riesco a ricordare se ne ho visti anche dal vero. Questo “cercava di farle l’occhiolino”: cose che nel Kansas non capitano, pensava (manco a Reggio Emilia, né nella bucolica Gavassa). Non solo strizza gli occhi ma parla e le chiede di estrargli “un palo conficcato nella schiena”, che gli impedisce di scendere.
Ora che è libero grazie a Dorothy, decide di accompagnarla. Prima però le confessa il suo cruccio: “Come vedi sono fatto di paglia e quindi non ho nemmeno un cervello.”
Più avanti s’imbattono in “un uomo fatto interamente di latta…”, che chiede a Dorothy di prendere un oliatore e di ungerlo un po’. Cosa che lei fa. Dopo di cui, finalmente sciolto dalla precedente rigidezza, le racconta la sua drammatica esperienza.
La perfida Strega dell’Est lo distrasse varie volte, per cui con l’accetta si amputò prima una gamba, poi l’altra, poi entrambe le braccia, poi la testa e infine si tagliò a metà l’intero corpo. Per fortuna c’era in paese un eccellente lattoniere che ogni volta riuscì a rimetterlo in sesto, tranne che per un particolare: non aveva più un cuore con cui poter amare. Intanto, Dorothy sentiva fame, non essendo né di paglia né di latta, e pure Toto aveva un certo languore.
“… udirono un terribile ruggito, e un attimo dopo un grosso leone balzò sul sentiero. Con un colpo di zampa fece rotolare lo Spaventapasseri fino al ciglio della strada e poi colpì il Boscaiolo di Latta con i suoi artigli aguzzi.”, spalancando la bocca per addentare il povero Toto.
Al che l’intrepida giovinetta gli dà del codardo e lui, “chinando il capo per la vergogna”, lo ammette. “Questa è la mia grande pena, e mi rende la vita molto infelice. Ma ogni volta che c’è un pericolo, il cuore comincia a battermi.”
L’acqua è una gran bella cosa, purché tu non sia un Boscaiolo di Latta, che teme la ruggine, per cui: “quando venne giorno la fanciulla si lavò il faccino in un allegro ruscelletto…” – che anch’esso pare animato di una sua vita propria.
A pagina 48 scopro perché i leoni non prendono la rincorsa prima di un balzo: “Perché non è così che i leoni fanno queste cose.” – oh, come non detto…
Se deve andare male, forse andrà peggio: da quelle parti ci sono “i Kalidah”, che sono “bestie mostruose con il corpo di orso e la testa di tigre…”.
Niente paura: questi sono i fantastici 4 supereroi, pur non consapevoli del loro potere, ma mesti per la scarsa autostima. Quelle belve immonde incombono sul gruppo, ma per fortuna (e per valore) su suggerimento dello Spaventapasseri, “il Boscaiolo di Latta si mise subito all’opera con la scure e, proprio mentre i due Kalidah stavano per raggiungergli, l’albero cadde con fragore nel pregiudizio, trascinando con sé quelle belve deforme e ringhiose, che finirono sfracellate sulle taglienti rocce del fondo.”
Il Leone Codardo si lamenta per la tanta paura che ha avuto. Il Boscaiolo di Latta si rammarica di non avere un cuore. Lo Spaventapasseri ha il complesso di non avere un cervello. Nessuno è mai contento ‘n coppa a ‘sta terra.
A ogni evento e situazione, ognuno dei tre amici mostrano di soffrire per la loro inadeguatezza. Soltanto Dorothy non si disistima mai, anzi, è determinata dal desiderio di tornare dagli amati zii.
Il Boscaiolo di Latta salva la vita a una topolina che poi si rivela essere la Regina di Tutti i Topi di Campo. Intanto il Leone Codardo ha perso la capa in un campo di papaveri, il cui aulente profumo gli ha intorpidito la mente, facendolo addormentare, cosa che succede anche a Dorothy che, essendo leggera, viene salvata dagli altri due amici. Lui è troppo pesante per essere trasportato e viene al momento abbandonato. Sarà poi grazie alla Regina e alle migliaia di suoi sudditi roditori che quel Leone Codardo potrà essere issato e allontanato da quel campo malefico.
Finalmente il supergruppo arriva nella città di Oz, dove “un omino alto pressappoco come un Munchkin”, vende loro degli occhiali, che lui dice essere essenziali per non farsi accecare dalla magnificenza della Città di Smeraldo, in cui tutto… era splendidamente e immancabilmente verde (anche le monetine erano di quel brillante colore).
I quattro si fanno annunciare al Sovrano indiscusso del paese: Il Mago di Oz, il quale mal sopporta di mostrarsi alla gente, però accetta di vedere, uno alla volta però, prima Dorothy, poi lo Spaventapasseri, poi il Boscaiolo e infine il Leone.
A lei promette di farla tornare in patria, e agli altri tre di donare loro quello che manca perché possano sentirsi finalmente completi. In cambio, però, devono uccidere la Strega dell’Ovest.
Nel XII capitolo i quattro partono Alla ricerca della perfida strega, “che aveva un occhio solo – potente però come un telescopio – riusciva con questo a guardare dappertutto…” – con cui “vide Dorothy che dormiva e i suoi amici.”, contro cui mandò “un branco di grossi lupi”, che vennero decapitati tutti e quaranta dalla scure del boscaiolo; poi spedì contro di loro “un grande stormo di corvi selvatici, tanto numerosi da oscurare il cielo.”
Fu la volta dello Spaventapasseri a dimostrare il suo valore, girando il collo al loro Re e facendo fare analoga fine a tutti agli altri ignobili pennuti.
Quando la Strega pensò di utilizzare delle bellicose api nere, egli poi chiese al Boscaiolo di estrarre dal suo corpo tutta la paglia, per celare alla vista di quegli imenotteri Dorothy, il Leone Codardo e Toto. Non trovando nessun altro da pungere, quei miserabili cominciarono a pungere il Boscaiolo di Latta, spezzando in tal modo i loro pungiglioni, “e visto che quegli insetti non possono sopravvivere alla perdita di pungiglione, quella fu la loro fine.”
L’orrenda strega chiamò quindi “una dozzina dei suoi schiavi, i Winky”, che vennero atterriti dal ruggito del Leone Codardo e costretti alla fuga.
La stregaccia lanciò allora delle grida inumane, che richiamarono delle Scimmie Alate che uno a uno catturarono quegli eroici disgraziati.
“La Perfida Strega voleva a tutti i costi entrare in possesso delle scarpette d’argento che la fanciulla portava ai piedi” – che non osava far nulla contro Dorothy, la quale era protetta, giova ricordarlo, dal segno lasciatole con quel bacio dalla Strega buona, che riesce però a strappargliene una con l’inganno.
Al che Dorothy accecata dalla rabbia “afferrò un secchio pieno d’acqua che stava lì vicino e glielo rovesciò addosso, bagnandola dalla testa ai piedi” e quella “cominciò ad accorciarsi e a restringersi”, liquefacendosi in pochi minuti.
La ragazzina convocò “tutti i Winky, per comunicare loro che non erano più schiavi.”
Accortasi poi “del Berretto d’oro; se lo provò e notò che le stava a pennello. Lei non sapeva nulla del suo potere magico, ma vide che era carino, e così decise di tenerlo in testa…”
La Regina dei Topi comunica a Dorothy, che, avendo lei quel cappello, potrà farsi servire dalle Scimmie Alate che li “porteranno nella città di Oz in meno di un’ora”.
Il richiamo è “Ep-pe, pep-pe, kak-ke!”, poi “Hil-lo, hol-lo, hello!”, sì, ciao!, e infine “Ziz-zy, zuz-zy, zik!”, le stesse invocazioni che aveva gridato la Strega cattiva alcune avventure fa, e che Dorothy aveva letto “sulla fodera” del copricapo.

Le Scimmie Alate subito accorrono e Dorothy “domandò incuriosita” al loro Re perché il berretto avesse quel potere e lui non ha difficoltà a spiegarglielo, ma occorre leggere il romanzo dio Baum per saperlo, non avendo io voglia di raccontarlo a mia volta.
Il XV capitolo è intitolato La rivelazione di Oz il Terribile. Egli non è un mago e tutte le sue apparizioni sono frutto di sapienti trucchi e, messo alle strette, ammette di essere un impostore, che però potrà donare ai tre esseri quello che vanno cercando: un cervello, un cuore e il coraggio.
Mantiene la promessa, non offrendo loro che delle illusioni, ma queste è quello che a loro mancava. Ora lo Spaventapasseri è convinto di possedere un cervello, il Boscaiolo di Latta di sentire un cuore che batte e il Leone Codardo di essere coraggiosissimo.
Il finto mago tenta anche di aiutare Dorothy, per cui costruisce una mongolfiera, ma in quel momento non si riesce a trovare Toto e il presunto mago se ne vola via in solitudine, lasciando lì la povera Dorothy, la quale è comunque decisa a partire, anche da sola, anzi, no, con Toto, che lei non abbandonerebbe mai. Ma i suoi tre compagni sono ormai così legati a lei che decidono di accompagnarla.
Dopo alcune emozionanti avventure, combattute tra l’altro contro degli alberi guerrieri che nulla possono davanti alla potenza del Boscaiolo di Latta ora munito anche di cuore, dopo aver attraversato il paese di Porcellana e un luogo dove il leone non più Codardo uccide un enorme ragno che terrorizza tutti, comprese, le tigri, e dove finalmente viene nominato “il Re della Foresta”, nonché il “Regno dei Quadling”, dove i fantastici quattro (più uno, Toto) vengono salvati dalle solite Scimmie Alate… i nostri eroi vengono ricevuti da “Glinda”, “la Strega Buona” del Sud.
Lei, che buona (e disinteressata) lo è davvero farà riportare lo Spaventapasseri nella città di Smeraldo, “perché Oz mi ha eletto governatore e il popolo mi ama”; farà accompagnare il Boscaiolo di Latta nel paese dei Winky, che lo vogliono “come loro sovrano”; e farà condurre il Leone non più Codardo nella “grande foresta secolare”, dove “tutti gli animali che l’abitano mi hanno eletto loro re.”
A Dorothy dice non preoccuparsi: “Le tue scarpette d’argento ti faranno attraversare il deserto…”
La giovincella disse alle scarpette d’argento le semplici parole: “Portatemi a casa dalla zia Em!”.
E arrivò rotolando sull’erba, “prima di rendersi conto di dove si trovava”, direttamente nel Kansas, precisamente presso “la nuova fattoria dello zio Henry, costruita dopo che il ciclone aveva spazzato via quella vecchia.”
Alla zia che le chiede “Da che parte del mondo salti fuori”, lei risponde: “Dal Regno di Oz”.
E poi continua a dire: “E c’è anche Toto. Oh, zia Em! Sono così felice di essere di nuovo a casa!”
Qual è la morale sottesa a questa lunga e faticosa (da vivere, non da leggere) fiaba?
Posso dire quella che ho rinvenuto io, capitolo dopo capitolo, direi anzi riga dopo riga.
Ognuno di noi è portatore, non sempre sano, di una sua particolarità, che lo rende unico e, ma non si hanno certezze a riguardo, forse irripetibile. Non occorre confidare in modo eccessivo nelle proprie qualità, ma nemmeno serve dirsi di non valere come gli altri.
Tutti noi abbiamo un cervello, un cuore e un’anima: basta confidare di avere questi carismi che, improvvisamente, essi inizieranno a svolgere la loro funzione.
Alcuni di noi non si renderanno mai conto di possedere un paio di scarpette o un berretto magici. L’unica è provare a usarli e poi saranno loro a dimostrare il loro effettivo valore.
Nessuno di noi è invincibile, ma neanche incapace di neutralizzare il proprio antagonista, anche se io preferisco il verbo confrontarsi e amo di più il termine che ha reso celebre un celebre martire d’origine giudea, ma che ora appartiene al mondo: il prossimo, che va amato, possibilmente, o almeno benvoluto o, se proprio non è il caso di frequentarlo, almeno non bisogna né odiarlo né cercare di dominarlo.
Ognuno ha il suo proprio valore, qualcuno però preferisce barare, aggiungendovi un’arma esterna che è ingiusta, poiché è stata sottratta chissà dove e chissà a chi.
Questa, in soldoni (verdi, azzurri o rosa) la morale che ho tratto dalla lettura di questo inclito racconto.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Lyman Frank Baum, Il Mago di Oz, Newton Compton Editori, 2016