“Una questione privata” di Beppe Fenoglio: storia borghese di un partigiano
Qui giova partire dal giudizio che su quest’opera espresse Italo Calvino che, pur paragonandolo all’Orlando Furioso, lo indicò come il libro della Resistenza, capace di descrivere “la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e ala commozione e la furia…”.
Comincio a reagire (per iscritto) al romanzo dopo la fine del VI capitolo.
“Era stato Giorgio Chierici a presentargliela, in palestra, dopo una partita di pallacanestro.”
Lei è Fulvia: “Sedici anni sfollata da Torino per fifa dei bombardamenti aerei che in fondo in fondo la divertivano. Ora abita da noi, in collina, nella vita che era del notaio…eccetera, eccetera. Fulvia ha un sacco di dischi americani. Fulvia, questo è un dio in inglese.”
Tre individui affetti da borghesite cronica, malattia che si mischia al sud e s’attacca al nord, più infettiva come del più irriducibile dei virus.
Lui è Milton, nom de plume da partigiano: abbagliato dalla di lei bellezza e, appena la scorge, spaventato all’idea “di non ricordarli”, il che gli risulta per destino o per fortuna impossibile.
Il tempo, indifferente al destino degli uomini, passa e ora Milton va a cercarla dov’era una volta alloggiata: “La custode spiò dall’angolo”, riconoscendolo, ma non subito, come “L’amico della signorina” – ma poi si corregge: “Uno degli amici. Fulvia è via, è tornata a Torino.”
La tipa così la descrive: “Era cara, Fulvia. Impulsiva, forse capricciosa, ma molto cara.” – poi aggiunge: “E bella, molto bella.”
La quale è una qualità che può far di tutto, e non sempre del bene: “Milton non rispose, solo portò avanti il labbro inferiore. Era un suo modo di ricevere il dolore e resistervi, la bellezza di Fulvia l’aveva sempre, più che altro, addolorato.” – bella da morire!
“Ora il cuore gli batteva, le labbra gli si erano di colpo indurite. Sentiva filtrare attraverso la porta la musica di Over the rainbow. Quel disco era stato il suo primo regalo a Fulvia.” – la canzone è del 1939, l’autore è Harold Arlen, con testi di E. Y. Harburg, resa celebre dal film Il mago di Oz di Victor Fleming.
Il brano, lei dice: “Mi piace da svenire. Quando finisce senti che qualcosa è veramente finito.” Forse non è la sua preferita, perché: “è carinissima, mi piace da morire, ma ne ho altri tre o quattro.”
Lui è sempre lì, dalla custode, a evocare lei, Fulvia. “Andò al tavolino addossato alla parete di fondo, a lato del caminetto. Si inclinò leggermente e col dito disegnò la forma del fonografo di Fulvia. Over the rainbow, Deep purple, Covering the waterfront, le sonate al piano di Charlie Khuntz e Over the rainbow, Over the rainbow, Over the rainbow.” – che, mentre scrivo, sto ascoltando.
Beppe Fenoglio mi comunica che “Giorgio era il più bel ragazzo di Alba ed anche il più ricco, ovviamente il più elegante. Nessuna ragazza di Alba era in condizioni di far da pendant a Giorgio Cherici. Arrivò da Torino Fulvia e la coppia perfetta era formata. Lui era un biondo miele, lei bruna mogano. Fulvia era entusiasta di Giorgio, come ballerino. ‘He dances divinely’, proclamava e Giorgio di lei. ’È indicibile’, e, rivolto a Milton: ‘Nemmeno tu, che con le parole sei formidabile, sapresti dire…’ Milton gli sorrideva, silenzioso, tranquillo, sicuro, quasi misericordioso. Ballasse con Fulvia, facesse quel poco che gli era mezzo e destino di fare.”
En passant, segnalo che a quei tempi i miei zii in campagna ballavano nella stalla, che d’inverno era il luogo più caldo e accogliente.
Lei tentò d’insegnargli a ballare: “‘No!’ protestò lui, ma era così sconvolto che non tentava nemmeno di divincolarsi.”, lui dice: “Non voglio imparare… con te.”
Lei gli dice: “Sono io che lo voglio! Voglio ballare con te! Sono stufa di ballare con ragazzi che non mi dicono niente. Io non sopporto più di non ballare mai con te” – di certo non manca di chiarezza, la signorina. A Reggio si dice che quello è brótt ma s-cètt, brutto ma schietto: lei schietta lo era, brutta per niente.
Lei non pratica né il metodo Montessori, né il Malaguzzi, e “proprio mentre Milton cedeva, lo abbandonò, rilanciandogli forte le braccia contro il corpo. ‘Va’ a morire in Libia’ gli disse tornando al divano. ‘Sei un ippopotamo, un ippopotamo magro.’ Ma un attimo dopo lui sentì la mano di Fulvia sfiorargli le spalle e il suo alito sulla nuca.” – e la lezione continua in un qualche modo.
Per dirla all’americana, Beppe era alto sei piedi e giocava a pallacanestro. Anche Milton, forse più alto ancora, se la cavava in quello sport, che lo condusse magicamente all’incontro con Fulvia, soprattutto grazie a quel borghese bello e ricco di Giorgio. Milton era di aspetto decisamente brutto. Beppe invece era un bell’uomo, non so quanto consapevole d’esserlo.
La tipa dice: “Io contavo poco o niente, ero la custode della villa, ma la signora mamma di Fulvia, quando ce l’accompagnò, mi aveva pregato, mi aveva raccomandato…”
Suggerisce lui: “Un po’ di governante…” – le cui mansioni comprendevano quella di tener aperti gli occhi sulla ragazzina e su chi la frequentava: “Con lei io stavo tranquilla, tanto tranquilla. Parlavate sempre, per ore. O meglio, lei parlava e Fulvia ascoltava. Non è vero?”
Con lui poteva soltanto origliare con discrezione. “Con Giorgio Clerici, invece…”, molto meno. Egli “Ultimamente veniva molto spesso, e quasi sempre di notte…”
Alba è la città di Beppe, e di Milton. Dice Leo (il suo comandante): “… io sono follemente innamorato della tua città e sento il bisogno, il porco bisogno di sapere dove, quando e come me la f… Ma che hai? Nevralgia?”
No! Milton era “ancora stralunato, con la smorfia di dolore ancora stampata in viso” – quest’omonimo di tant’immenso poeta è un tipo decisamente emotivo e reattivo.
“Fulvia ci giocava con Giorgio, sempre in singolo. Spiccava candidi come angeli sul fondo rosso che Giorgio faceva rullare ed innaffiare con particolare cura prima della loro partita.”
Milton: “… senza i soldi per pagarsi una bibita e darsi un contegno sorseggiandola, con solo più una sigaretta da economizzare fino allo spasimo, con in fondo a una tasca un foglietto con la versione di una poesia di Yeats. ‘When you are old and gray and full of sleep…’”.
È davvero un “‘magnifico sport’, disse Leo, ‘Tutto anglosassone. Milton, non ti è mai passato per la testa, allora, che chi praticava la pallacanestro non poteva essere fascista?’” Non so. Stalinista lo poteva essere, anche yankee e franchista.
Milton passa di crisi in crisi (fenomeno che non reca sempre alla guarigione o alla morte; essendo a volte permanente): anche quando lei diceva delle cose non dico banali (non era possibile), ma assai normali, parlando che so, del mare, “lui sentiva affondarglisi nel cuore i becchi di tutti i gabbiani.”
Lei lo minaccia: “‘Quando torno in villa voglio trovarci una tua lettera.’
‘Sì’, rispose, e la voce gli tremò nel monosillabo.
‘Debbo trovarla, capisci?’”
Sì è composto da solo due lettere, ma talvolta ci si imbatte in un caos abissale tra la S e la ì.
“Il piccolo Jim sbucò da uno dei vicoletti laterali”: e pareva uscito da un romanzo dickensiano.
Milton attende d’incocciare Giorgio: “Come sempre, quando era estremamente emozionato, il cuore gli latitò in corpo.”
Col pensiero fisso d’incontrarlo, Milton “inghiottì saliva e poi chiamò il nome di Giorgio, regolando la voce come lo dovesse sentire chi in quel momento salisse l’ultima rampa.”
Penso al soprannome bellico di due altri partigiani: “Pascal”, chissà se immerso nei suoi pensieri; e “Sceriffo”. E poi di un terzo: “Jack era l’unico che dormiva, sulle fascine spinose come un fachiro, dormiva e gemeva come un moribondo.”
Sto pensando alla lingua che parlavano i campagnoli e i loro figli fino agli anni ‘70 (pure oggi, in certi casi), mentre leggo che un contadino dice: “Non sono mica una donna, ho fatto il militare anch’io. Mi son subito detto che l’unico dei vostri che li poteva fermare era Ciccio e son volato giù. E ho rischiato la mia parte perché quelli in coda potevano vedermi mentre li sorpassavo e spararmi come una lepre…” – e poi continua il discorso per altri due o tre minuti, finendo per chiedersi: “Che potevamo farci noi due soli?”
Parbleu, anzi: goddam! Un mio condomino, oggi ottantenne, che all’epoca dei fatti, era forse nella pancia della mamma, e che poi divenne voltatore di formaggio, mestiere che gli ha quasi spezzato la schiena (le forme di grana s’aggirano sui quaranta chili), favella solo in arşân e i suoi discorsi, pur non brevi, non sono mai così compiti e circostanziati.
“‘Piantatela’ disse Pascal, mentre il telefono squillava.”
Nel frattempo pioveva che chissà chi la mandava (a pagina 27, un partigiano di nome Ivan imprecò mentalmente: “Dio fascista!”): “Pioveva a dirotto su Giorgio prigioniero, forse su Giorgio già cadavere, pioveva a dirotto sulla sua verità di Fulvia, cancellandola per sempre.”
Milton ha un’idea: “cercare un cambio per Giorgio”. Dialogo:
“Vado da Hombre”
“Vai dai rossi?”
“Visto che noi azzurri non abbiamo prigionieri.”
“Ma quelli, ammesso che l’abbiano, non te lo daranno mai.”
“Me lo farò… imprestare.”
“Non te lo presteranno nemmeno. Con la ruggine che c’è, con la testa che gli montano i commissari, con la bile che hanno in corpo per via dei lanci che noi riceviamo e loro no…”
L’uomo, in guerra, diventa una merce di scambio. La guerra fa schifo anche per questo.
Ora “la pioggia si stiacciava sulle loro teste” – toscanismo non assente su quei monti, ma non presente nel dizionario della mia videoscrittura.
Milton dice qualcosa del tipo: vado di fretta. “Il suo tacco apriva nel fianco piaghe lunghe e profonde e lustre…” – una prosa che un ex partigiano mago della parola come Beppe, è in grado di scrivere.
Il VII capitolo puzza schifosamente di guerra. Milton va a cercare il “comandante Hombre”, capo dei partigiani rossi. Lui è un badogliano. Ne Il partigiano Johnny un rosso si vantava che i veri partigiani erano i comunisti, non essendo gli altri che un sottoprodotto sbiadito, più o meno.
Un certo Nèmega (il cui nome mi pare fosse presente anche in quell’altro romanzo), gli dice: “sai che noi ce l’abbiano amara con voi badogliani’”.
C’era stato un rosso che se n’era andato da quegli altri, portandosi con sé il moschetto, dicendo che era di sua proprietà e che apparteneva invece al suo ex battaglione. E i badogliani non vollero consegnare né lui né il suo fucile. Un altro rosso ha un nome desueto: “Pac”.
Poi il capitolo finisce col racconto di un prigioniero fascista che viene fatto fuori mentre grida “Viva il Duce”.
Nel capitolo successivo, “Milton scrollò la testa. ‘Questa guerra non la si può fare che così. E poi non siamo noi che comandiamo a lei, ma è lei che comanda a noi.”
Mi stupisce una vecchia che, mentre quello è appostato, e dopo che lui le ha chiesto del pane, dice a Milton: “Vado e torno. Ma non te lo butterò come a un cane. Vado a farti un sandwich di pane e lardo e se te lo buttassi si disferebbe per aria. E poi tu non sei un cane. Voi siete tutti nostri figli. Vi teniamo per tali al posto di quelli che ci mancano…”
A stupirmi non è la dieta ricca di colesterolo. Mi madre diceva che la grâsa rinfresca al sângov.
Chi dice sandwich è una donna d’istruzione incerta, che abita a Canelli ma che, ad Alba, dice, “non ci sono mai stata ma so dov’è.”: circa trenta chilometri a est, direzione Acqui Termi.
Nel X capitolo c’è un’azione di guerra, che finisce come deve finire. Morendo, un sergente fascista, cessa di fungere da cambio di prigioniero.
“Fabio rise cordialmente, e in un baleno la risata fu mulinata dal vento lontana, come fosse una piuma.” – nulla a proposito, se non che: a thing of beauty is a joy for ever.
Quando lessi Il partigiano Johnny, che tanto mi penetrò l’anima, fui disturbato da quell’idioma inglese che veniva fuori a ogni pagina sospinta, inopinatamente. Il troppo stroppia e a volte storpia. Qui spunta talvolta e dove manca ce lo metto io (in modo arbitrario, me ne rendo conto).
Beppe era uno studente ginnasiale, quando si infatuò chissà come per l’idioma albionico, dilettandosi anche a tradurre da quella lingua. Poi, s’iscrisse a Lettere, nel ‘40.
Nel capitolo XI un partigiano di origine popolare, si lamenta. Chiama il compagno catturato “Giorgio Pigiama di Seta”, spiegando: “non ho saputo fare a meno di ricordarlo mentre si metteva il pigiama di seta per coricarsi sulla paglia.”
Poi non riesce a non recriminare, alludendo anche a Milton: “Voi siete studenti universitari, pesci fine, belle scatole da aprire. A voi lo fanno. A voi gli va di farvi il processo, mi spiego? I tipi come me invece, e quei due là dietro, non siamo abbastanza interessanti. Come li pigliano li scaraventano contro un muro e già gli sparano quando ancora sono a mezz’aria. Però, Milton, sia chiaro che io non te ne voglio per questa differenza. Crepare subito o tre giorni dopo. E che differenza è?”
Le guerre nascono a causa di quei tre giorni, in cui è Adikia, dea dell’Ingiustizia e dell’Errore, a governare.
Milton ora sta pensando a quel sergente, che manco lo aveva visto in faccia, e si dice che si era, in definitiva, “ucciso da sé”.
Prima della fine del capitolo una maestra irascibile e sogghignante viene rasata a zero per la sua incrollabile fede nel Fascio.
Nel capitolo seguente Riccio, una staffetta di quattordici anni viene fucilato; lo seguirà a ruota un certo Bellini, di un anno più anziano.
In quello dopo, Milton ha la mente rivolta unicamente al suo dio in gonnella: “Tu non devi saper niente, solo che io ti amo. Io invece debbo sapere, solo se io ho la tua anima. Ti sto pensando, anche ora, anche in queste condizioni sto pensando a te. Lo sai che se cesso di pensarti, tu muori, istantaneamente? Ma non temere, io non cesserò mai di pensarti.”
Beppe scrive: “Con una zecca del pollice sbottonò la fondina, ma non estrasse la pistola” – zecca viene dall’alto tedesco zecken, che significa menare un colpo, battere.
Milton fa ciò mentre “il soldato più vicino dirigeva su di lui gli occhi frastornati dall’acqua”, per cui “Milton ruotò seccamente all’indietro. Non gli arrivò l’urlo dall’allarme, solo un rantolo di stupore.”
Inseguito da una cinquantina di soldati fascisti, egli scappa: “Non aveva più la pistola per spararsi, non vedeva un tronco contro cui fracassarsi la testa, correndo alla cieca si alzò le due mani al collo per strozzarsi…”
Come ho scritto poc’anzi, la guerra fa davvero schifo. Una schifezza talvolta eroica, ma sempre una schifezza.
Con quella corsa, Milton finisce il romanzo: “Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton gli puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò.” – e qui non si capisce se fu per la stanchezza, per la mortificazione o per qualche altro accidente: è comunque una questione privata.
Porre sullo stesso piano il romanzo di Beppe Fenoglio con quello delle memorie del partigiano Egidio Baraldi sarebbe un’assurdità. La verità è fatta di finzione, e la menzogna di sincerità, come la memoria è creata dall’oblio, come ci insegna Jorge Borges.
Tornando alle considerazioni di Italo: Beppe riuscì a descrivere “la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali…”
È davvero così. E l’ha infine ammantata di quel mito che, mutando l’aspetto delle cose, le rende assai più reali e rimembrabili.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Beppe Fenoglio, Una questione privata, Garzanti, 1979