“Dune” di Frank P. Herbert: spezie, vermi e bipedi pennuti

“Non ha mai due volte lo stesso gusto – replicò Yueh. – È come la vita, ha ogni volta un diverso sapore. Alcuni pensano che la spezia induca una reazione di sapore favorevole. Il corpo, una volta imparato che una cosa è buona per lui, l’accetta, e ce ne trasmette il sapore come gradevole… leggermente euforico. Come la vita, questa sostanza non può essere prodotta per sintesi.” È un fatto naturale, assoluto, immediato. O c’è o non c’è. Non si può costruire artificialmente. Come la vita. Come la vita?

Dune di Frank P. Herbert
Dune di Frank P. Herbert

Questo mio riporto accade a pagina 104 (delle 712 totali, comprese le appendici che sono, come si dice, facenti parti del romanzo stesso). E non è che le prime 103 pagine non fossero interessanti, ma ero troppo impegnato a seguire tutti quei dialoghi, cercando di carpirne il senso sotteso, gli intrighi celati, e non ero ancora riuscito a fissare la mia attenzione su un singolo passo, bensì ero sì preso, senza essere affascinato, dalla ragnatela che i personaggi stanno tessendo, ognuno per conto suo, con la supervisione dell’autore, beninteso, per scopi che ancora non mi sono per nulla chiari.

Ora che mi sono svegliato da tale torpore, la pagina a fianco colgo: “… il Duca è in realtà due uomini. Uno, quello che io amo moltissimo, è affascinante, intelligente, premuroso, tenero… tutto quello che una donna può desiderare. Ma l’altro è… freddo, insensibile, intelligente, egoista… duro e crudele come il vento dell’inverno. È l’uomo creato da suo padre. – Una smorfia le contorse il viso. – Se quel vecchio fosse morto quando il Duca è nato!” A parlare è Jessica, colei che è destinata (da chi, dal mondo intero, da se stessa anche?) a servire. Mi verrebbe da dire: colei che, servendo, tende a dominare, nel senso hegeliano, colui che è servito: non la paziente moglie del Duca, ma la sua impaziente concubina.

Il Duca è scapolo, perché doveva rimanere… a disposizione… della comunità come possibile fautore di eventuali alleanze…: “… e inoltre costringere qualcuno a fare qualcosa, piegarlo al tuo volere, crea in te un atteggiamento cinico verso l’umanità. Degrada qualsiasi cosa tu tocchi. Se lo avessi convinto… in realtà non sarebbe stato lui a farlo.”

Si tratta di una di quelle logiche che si fa fatica a tradurre in un linguaggio moderno. Siamo in un imperscrutabile futuro, in cui tutto è obnubilato e quel che si manifesta pare antico, del tempo delle signorie medioevali. E come in quel tempo non scarseggiano i mostri, dei mostri incredibilmente immensi pronti a ingurgitare te con tutta la tua armatura, o addirittura tutta la tua astronave, l’ornitottero, così la chiamano.

“… gli scudi sono pericolosi, nel deserto. Anche un semplice scudo individuale attirerebbe ogni verme presente, da centinaia di metri all’intorno. Sembra che gli scudi creino nei vermi una sorta di follia omicida…” – chissà, forse essi hanno collegato che gli scudi (arma apparentemente obsoleta) indichino la volontà di un qualche essere di avanzare invadendo. Uno che rimane a casa sua non ne ha bisogno, quanto invece chi è sceso per occupare il domicilio altrui.

Esistono varie etnie: Leto, il Duca è il Dominus degli Atreides, mentre l’obesissimo Barone è il leader maximo degli Harkonnen, sempre in lotta per la gestione del pianeta Arrakis. Entrambi sono subordinati a un fantomatico Imperatore. Poi vi sono i Fremen (come dire gli uomini liber), che non si capisce bene a cosa aspirino nella vita, se non nella propria indipendenza.

Il protagonista del romanzo è Paul, figlio del Duca, che “fissò il padre, poi di nuovo Hawat, improvvisamente conscio degli anni del Mentat, e del fatto che Thufir aveva servito tre generazioni di Atreides. Vecchio. Lo si capiva dal riflesso appannato dei suoi occhi bruni e acquosi, dalle guance screpolate e bruciate dalla luce e dall’aria dei più lontani pianeti, dalle spalle curve, dalle labbra rinsecchite macchiate di sapho.” – che, qualunque cosa sia, non mi pare giovi alla salute.

Idaho, maestro di spada, dice al Duca: “Il coltello è un dente affilato del verme delle sabbie. È l’emblema dei Fremen, Signore. Con esso, un uomo dagli occhi azzurri potrebbe penetrare in qualsiasi sietch. Io verrei imprigionato e sottoposto a un duro interrogatorio, se non fossi così conosciuto…”

Gli occhi azzurri sono il carattere genetico che contraddistingue i Fremen, indotto dall’ecologia in cui si sono condotti a vivere.

“Paul fissò il punto dov’era suo padre fino a pochi istanti prima. Gli sembrò che quel punto fosse vuoto da lungo tempo, ancora prima che suo padre lasciasse la stanza. E ricordò l’avvertimento della vecchia: – ‘… per il padre, no.’”

La vecchia è la Reverenda Madre che era apparsa all’inizio del racconto e la cui autorità è, almeno per il lettore che vi scrive, repellente: assomiglia a una divina fatalità, a cui non è lecito ribellarsi. Spero di non incontrarla più, o di riuscire almeno a non citarla ancora. Ma ne dubito. Lei non è una Domina, ma una Colei che sa. E queste nubilacce non se ne stanno mai zitte.

La parte migliore del Duca “annuì, pensando: Forse si può anche amare questo pianeta. Forse può anche diventare una buona patria per mio figlio.”

Il pianeta è assai arido, un luogo dove “perfino la rugiada veniva raccolta” – con “degli strani arnesi simili a roncole.” – un deserto che tenta di vivere, nonostante tutto.

“Ma può essere anche un mondo ripugnante, concluse il Duca.”

Ogni capitolo è preceduto da un esergo, ognuno dei quali appartiene a un’opera della medesima autrice, una non meglio identificata “Principessa Irulan”, che talvolta parla con toni commossi del padre, chiunque egli sia. Spesso si tratta di motti e massime edificanti. Questa, di pagina 156, mi ha colpito: “Probabilmente non c’è momento più terribile, nella nostra vita, di quello in cui si scopre che nostro padre è un uomo… in carne e ossa.” – e non c’è momento più liberatorio, per quel che ne so.

Qualcuno ha suggerito al Duca che il tipo che stava per attentare alla vita di Paul era stato favorito da Jessica. Il padre, quasi fosse un congedo dal suo più amato consanguineo, gli dice: “…  se mi accadesse qualcosa, potrai dire la verità… che non ho mai dubitato di lei, neppure per un attimo. Voglio che lei lo sappia.”

Si vive in un mondo in cui ognuno insegna a qualcuno come comportarsi. Halleck aveva istruito Kynes “su come comportarsi col Duca e il suo erede.Ecco il prontuario: “Chiamerai il Duca Mio Signore. Meglio ancora Nobile Nato, ma è riservato normalmente alle occasioni più ufficiali. Il figlio può essere chiamato Giovane Duca o Signore. Il Duca è uomo assai clemente, ma non concede molta familiarità.” – noblesse oblige.

È una società organizzata: “Kynes si piegò a esaminare le chiusure delle gambe: – L’urina e le feci sono trattate nelle imbottiture delle cosce – disse, e si alzò, tastando il rivestimento del collo, alzandone una sezione quadrata.” – perché nulla si deve sprecare.

Il Duca è un sovrano illuminato come pochi:era molto più preoccupato per gli uomini che per la spezia. Ha rischiato la vita, e quella di suo figlio, per salvarli. Ho avuto un solo gesto di stizza per la perdita del trattore pieno di spezia. Ma la minaccia che incombeva sugli uomini lo ha mandato in bestia. Un simile capo potrebbe assicurarsi una lealtà fanatica. Sarebbe difficile sconfiggerlo. Contro la sua volontà e contro ogni precedente giudizio, Kynes fu costretto ad ammettere dentro di sé: Mi piace questo Duca.”

Le alternative nella vita sono varie, fra cui: a) saper sopportare i capi; b) amarli o quanto meno ammirarli; c) non averli sempre tra i piedi.

“La governante gli aveva spiegato che era costume, per gli ospiti de castello, immergere cerimoniosamente le mani in una bacinella, rovesciando parecchie scodelle d’acqua sul pavimento, asciugandosi poi le mani e gettando l’asciugamano nella pozza d’acqua sempre più larga, sul pavimento.”

Le regole non sono che delle serve, nel senso che svolgono un compito: dirigere e azioni dei servitori, al fine di controllarli meglio; incidentalmente possono agevolare la vita.

“Il Duca lasciò che la sua voce si spegnesse lentamente sull’ultimo verso, e inghiottì un’abbondante sorsata dalla sua caraffa, appoggiandola poi con violenza sul tavolo. L’acqua schizzò fuori dall’orlo e inzuppò la tovaglia. Gli altri bevettero in silenzio, imbarazzati. Ancora una volta il Duca sollevò la sua caraffa, e questa volta la vuotò per metà sul pavimento, sapendo che tutti gli altri, intorno alla tavola, avrebbero dovuto a fare lo stesso. Jessica fu la prima a seguire il suo esempio.” Questo riporto dà un’adeguata idea dei costumi dell’epoca, dove quel che conta è onorare chi è a capo della comunità, qualsiasi cosa combini. Mi viene a proposito in mente a quel che la leggenda narra a proposito di Giovanna, contessa di Kent, a cui cadde una giarrettiera: Honni soit qui mal y pense!

Jessica, che è Bene Gesserit, diplomata di una scuola esoterica che insegna a servire con dignità e autorevolezza, capisce che il suo amato Duca “è infuriato, e incerto…” e che “agisce come un uomo disperato”, “… veramente disperato” – e non solo per quella “maledetta ala di trasporto” che è scomparsa.

“Jessica si ricordò di una lezione alla Scuola Bene Gesserit. Una lezione di spionaggio e controspionaggio. Una Reverenda Madre dal volto roseo e soddisfatto le aveva istruite, con una voce allegra che era curiosamente in contrasto con l’argomento trattato: ‘C’è un fatto da prendere in considerazione per qualsiasi Scuola di spionaggio e controspionaggio, ed è il tipo di reazione, fondamentalmente uguale per tutti i diplomati di queste scuole…” e continua per un po’ a spiegare, tra l’altro, che “… le motivazioni, infatti, saranno simili in tutti gli agenti di spionaggio…” – per cui

“nel comportamento di Kynes tutto indicava una facile disposizione all’omicidio. Poteva uccidere con estrema facilità, e indovinò in questo una caratteristica dei Fremen.” amanti della loro libertà, ma non della pace di tutti.

“Kynes fissò il piatto. Jessica studiò il gioco delle emozioni sul suo viso. Sa nasconderle molto bene, pensò…” – e se Keynes dice: “È… possibile” – significa che “finge di essere incerto!”

Tento ogni tanto di raccogliere delle perle di saggezza: “La buona creanza viene dalla città, la saggezza dal deserto…” – forse una cosa simile da noi esiste fra città e campagna.

Paul cerca di caricarsi per darsi coraggio, dicendo: “Quando mio padre affronta un problema, lo risolve. Gli Harkonnen se ne stanno accorgendo soltanto adesso.”

La madre non può fare a meno di pensare:Nessuno che questa notte sia costretto a dormire nelle profondità del sottosuolo come unica precauzione contro i laser ha il diritto di vantarsi.”

Ulteriore esergo tratto da un’opera “della Principessa Irulan”: “Non c’è scampo: noi paghiamo la violenza dei nostri antenati.” – senza di cui non saremmo nemmeno nati.

Jessica “si preparò ad aspettare al modo Bene Gesserit, accumulando pazienza e conservando le forze.” – la quale tecnica assomiglia a certe pratiche chan.

Hawat aveva accusato Jessica di essere una traditrice del Duca. Lei lo sa e gli dice: “Sono pronta a perdonare parecchio, per questa tua fedeltà” – al che lui replica: “Devo chiedervi ancora una volta: c’è forse qualcosa da perdonare?” – entrambi sono al servizio del Duca, ognuno a modo suo. Lui, come lei, svolge il ruolo che gli spetta, niente di più, né di meno. È un carico esistenziale a cui non può rinunciare, ormai inserito per sempre nella sua anima. E così è per lei. Lei lo accusa di aver messo a repentaglio la vita di Paul. Lui gli spiega che ha “presentato le mie dimissioni al Duca” – e lei gli dice: “Le hai forse presentate a me …o a Paul?”. Fine della diatriba e non del mutuo risentimento, quando Hawat replica, dicendo: “Io appartengo al Duca.” La discussione continua ancora per un po’, ma l’ardore che l’accompagna si sta tingendo di un simulato rispetto reciproco, tanto, che obtorto collo, Hawat alla fine, un po’ stremato, concilia, affermando: “Se voi siete innocente, mi scuserò con voi, nel modo più umiliante.” Continua imperterrita la Bene Gesserit: “Ma è una caratteristica umana il fatto che i nostri problemi personali, quelli che più s’identificano con noi stessi, sono i più difficili da esaminare con la nostra logica. Abbiamo la tendenza a ricercarne le cause intorno a noi, accusando tutto e tutti, salvo la cosa ben reale e profondamente radicata in noi, che ci consuma.”

Poi la polemica s’inasprisce di nuovo, all’improvviso, per cui Hawat dice: “… Io non mi lascio ingannare da quello che le vostre Scuole dicono al pubblico, che voi esistete solo per servire” – che le vostre Scuole, al maiuscolo, dicono al pubblico – un’altra cosa è “il vero addestramento che ricevete.” Aggiunge anche: “Non mi fido dei vostri moventi Bene Gesserit…”sebbene “…voi credete di poter guardare nel cuore di un uomo, anche se siete convinta di spingere un uomo a fare esattamente quello che…” – al che Jessica lo interrompe chiamandolo:Thufir! Povero imbecille!” E gli spiega, come si fa a un portatore di handicap psichico: “… la verità è molto più grave. Se io volessi distruggere il Duca… o te, o qualsiasi altra persona vicino a me, tu non potresti fermarmi.”

Jessica, che oltre che sensitiva è anche sensibile, s’accorge di essersi scoperta e pensa: “Perché permetto che l’orgoglio mi faccia dire cose simili? Non è questo il modo in cui sono stata addestrata. Non è così che posso colpirlo.”

Hawat le dice che il Duca non l’ha sposata. E lei: “Ma non sposerà nessun’altra – rispose – Non finché io sarò viva. E, come ho detto, noi siamo dei tutori. Spezzare quest’ordine naturale, disturbare, confonderci e dividerci… quale obiettivo più allettante per gli Harkonnen?” Così Jessica definisce il suo interlocutore: “Una persona per cui sospettare è naturale come respirare. Che trascorre l’intera sua vita tra le insinuazioni e i misteri.” Quando lei gli intima di non andare perché “non ti ho ancora congedato, Thufir!”, lui “aveva sentito il proprio corpo obbedirle prima ancora di poter pensare. Niente avrebbe potuto impedirlo, né la logica, né il furore… niente.” E così lei gli serve la mazzata finale: “Se io desiderassi un fantoccio, il Duca mi sposerebbe subito – continuò Jessica – Potrebbe anche convincersi di averlo fatto di sua spontanea volontà.”

Le Bene Gesserit potrebbe fare di tutto, se non lo fanno è anche perché “non desideriamo distruggere noi stesse…” – e anche perché “noi esistiamo soltanto per servire.” Hawat pensa che lui è “il toro e lei è il matador…”

Altro inclito aforismadella Principessa Irulan”, come gli altri tratto dalla “Raccolta dei detti di Mouad’Dib”: “Dovrebbe esistere una scienza dell’infelicità. La gente ha bisogno di tempi difficili e di oppressione per sviluppare i propri muscoli psichici” – no pain no gain, direbbe Arnold Schwarzegger. A loro contrappongo il pensiero di Cesare Pavese che, ne Il mestiere di vivere scrive che il dolore non insegna affatto a vivere. Io credo che solo la vita, quel mix di gioie e infelicità, di piaceri e di afflizioni, insegni, non a tutti e non nella medesima misura, a far esistere la nostra piccolezza umana.

“Il tempo, per il Duca, era una successione di strati. Li stava risalendo uno a uno. Devo aspettare.” Nello stile dell’autore il pensato ha lo stesso valore del parlato, e spesso non si differenzia con virgolette o trattini, ma assume, pur non sempre, la forma corsiva.

“Insopportabile, pensò ancora il Barone. Ora l’Imperatore saprà come io abbia fallito. Lo giudicherà un segno di debolezza. Era angosciato: l’Imperatore e i Sardaukar erano uguali nel loro sdegno per le debolezze…”

In tal cosmo, come nella maggior parte degli altri, quel che conta è l’apparenza, l’illusione.  Gli scappa anche pensato: Sia maledetto quel perfido Duca!

Yueh scrive: “… quando leggerete questo messaggio il Duca Leto sarà morto. Possa consolarvi la mia dichiarazione che non è morto da solo; colui che odiamo più di tutti è morto con lui.”

Paul pensa:Ho amato mio padre”. E “dovrei piangerne la scomparsa. Dovrei sentire qualcosa.” Eppure “non sentiva nulla, fuorché: È una notizia importante. Era soltanto un fatto come gli altri.” Al momento non c’era tempo per le lacrime: “Piangerò la morte di mio padre più tardi… quando ne avrò il tempo.”

Jessica si sorprende quando scopreche la mente di Paul aveva distanziato la sua; Paul ora vedeva più lontano di lei. Lei stessa aveva contribuito ad addestrare l’intelligenza che gli consentiva di farlo, ma scoprì di averne paura. I suoi pensieri cercarono allora, disperatamente, il riparo perduto che per lei era stato il Duca, e le lacrime le bruciarono gli occhi.”

L’amore, nemmeno quello più grande, difende dal timore, anzi, dalla paura dell’Altro. Ognuno sta solo sul cuor della terra, anche una mamma.

L’ancor piccolo Paul non si definisce un Mentat, ma “un capriccio di natura” – che alla fine desidera stare da solo, lontano da tutti, soprattutto da lei.

“Le girò le spalle, fissando la notte. Perché non posso piangere?, pensò. Sentì ogni fibra del suo essere anelare a quello sfogo, ma gli sarebbe stato negato per sempre.”

Lei, anche quando è in crisi, dissimula, persino a se stessa, il suo stato d’animo e inizia ad agire su di sé: “Lei cercò nella sua mente di collegare i fatti tra loro… fatti su fatti, secondo la Via Bene Gesserit di valutare gli eventi. E la risposta era lì: la sensazione di una perdita terribile.”

E il figlio, invece?

“Paul percepì il dolore della madre, ma dentro di sé sentì il vuoto. Non provo alcun dolore, pensò. Perché, perché? La sua incapacità di provar dolore gli parve un terribile difetto.”

Jessica si rifà alla “Bibbia Cattolica Orangista: ‘Un tempo per conservare, un tempo per gettar via; un tempo per l’amore e un tempo per l’odio; un tempo per la guerra, un tempo per la pace.” – e io potrei aggiungere: un tempo per la lettura e uno per la scrittura. Due fasi del medesimo percorso, due lati dello stesso sentiero, direbbe Jorge (Borges).

Paul “riconosceva i nomi e i luoghi, provava innumerevoli emozioni, innumerevoli notizie gli giungevano dalle fonti più oscure e inesplorate. C’era tutto il tempo per esplorarle, saggiarle, toccarle, ma non per rimodellarle.” – cercherò di comprendere un bel dì questa frase, il cui senso mi sfugge.

“Il tutto era uno spettro di possibilità, dal passato più remoto al futuro più lontano… dal quasi certo al più improbabile. Vide la morte in un numero infinito di modi. Vide nuovi pianeti, nuove civiltà.”

Otto ani prima dell’uscita del romanzo, Hugh Everett III pubblicò la sua teoria dei molti mondi, collegata all’incertezza quantistica. Se la tal particella compisse il suo tragitto terminandolo in un altro luogo rispetto a quello che abbiamo attestato, il mondo sarebbe diverso?

Nel 1928 George Gamow e, successivamente, Max Born ipotizzarono che una particella che avesse una pur minima possibilità di superare una pur densissima barriera potrebbe compiere il miracolo, per quanto quasi improbabile. È quel quasi che permette al mondo di evolversi attimo per attimo.

Nel frattempo Paul percepiva “ancora, acuto, il dolore di sua madre. E anche l’assoluta mancanza di dolore dentro di lui… Come una cavità profonda, la sua mente, separata dal resto, continuava implacabile, sempre uguale, a ricevere i dati, a valutarli, a calcolarli, ponendosi le domande e risolvendole quasi come se fosse un Mentat.”

Era un abisso che si apriva dentro di lui, un vero e proprio caos pieno di informazioni: “Poteva guardare al proprio passato e vederne l’inizio: l’addestramento, l’affinarsi dei talenti, la sollecitazione perfettamente graduata delle discipline più sofisticate, perfino la scoperta della Bibbia Cattolica Orangista in un momento critico… e infine la miracolosa spezia. E poteva anche guardare avanti a sé (la direzione più terrificante), e vedere dove tutto ciò conduceva.

Sono un mostro! gridò dentro di sé. Un capriccio di natura! – No! Disse. E ancora: – No, no, no!”

Chiede, angosciato, alla madre:Che cosa mi hai fatto?” Lei, che avrebbe tanto da dire, si limita a un “Ti ho messo al mondo”.

Un atroce e ancora per me, almeno, esoterica verità: “Tu volevi uno Kwisatz Haderach! Tu volevi un maschio Bene Gesserit!”

Paul capisce di averavuto un sogno da sveglio.” Infatti, è stato la spezia a ispirarlo: “La spezia è dovunque, qui… l’aria, il suolo, il cibo. La spezia geriatrica. È come la droga delle Veridiche. È un veleno!” … che allarga l’area della coscienza…

“… la spezia era un tossico. Il suo corpo lo aveva saputo molto prima che la sua mente se ne accorgesse.”

Jessica insiste: “Noi esistiamo solo per servire.” – a cosa? A un sovrano, a un popolo, a uno scopo misterioso?

Paul scopre una verità terribile: “… madre mia, c’è una cosa che non sai e che dovresti sapere: noi siamo Harkonnen!” Anche lei ha dolorosamente avvertito quella verità: “Un… ramo rinnegato della famiglia…” Paul ha scoperto che lei è figlia del Barone. La madre di Jessica “era una di voi.” Quel “voi la colpì come uno schiaffo.”

Jessica temeva ora il figlio: “Gli sembrò d’esser nuda davanti a lui perché comprese che nulla, o quasi, era nascosto ai suoi occhi. E questo, appunto, era l’origine prima della sua paura.” Lei ha frainteso: “Tu pensi che io sia lo Kwisatz Haderach – disse Paul. – Cancella quest’idea dalla sua mente. Io sono qualcosa d’inatteso.” E un’inevitabilità: “Sarà troppo tardi quando sapranno che io esisto”. Lui “pensò: Sono un seme.” E “scoprì di non poter più odiare il Bene Gesserit né l’Imperatore e neppure gli stessi Harkonnen. Erano tutti coinvolti nell’ineluttabile spinta della razza a rinnovare la propria eredità dispersa, incrociandosi, mescolando le stirpi in un gigantesco ribollire genetico. E la razza conosceva soltanto una via… quella antica, sperimentata e sicura che travolgeva ogni ostacolo: il Jihad.”

Il termine, in questa nostra periferia della galassia, indica lo sforzo che ogni islamico deve compiere per condurre la propria condizione di credente ‘sulla via di Dio’.

Qui finisce la prima parte del romanzo: Il pianeta delle dune. La seconda è Muad’Dib.

Vorrei che qualcuno mi spiegasse questo passo: “La sua voce proveniva dall’ingresso a sfintere della tenda”. Lo sfintere è notoriamente una formazione vascolare che apre e chiude un orifizio, al fine di consentire il passaggio di sostanze, oppure di frenarle.

Un Fremen chiede, con una certa arroganza, ad Hawat: “Ci credi corrotti come i bizantini?” – la domanda, per quanto legittima, mi lascia perplesso.

“Il Fremen si portò il pugno all’orecchio…” – più tardi, “il Fremen teneva ancora il pugno schiacciato sull’orecchio…” Paese che vai gesticolare che trovi.

Kyens chiede a Paul cosa vuol far di quel luogo. Lui risponde immediatamente, come se non avesse pensato ad altro fino a quel momento: “Per rendere questo pianeta abitabile dagli uomini.”

E Keynes pensa, tra sé e sé: “Forse è per questo che li aiuto”.

E poi dice a Paul: “Mi piace la vostra risposta”.

Dice Paul: “C’è una leggenda, qui, sul Lisan al-Gaib, la Voce di un Altro Mondo, colui che condurrà i Fremen in paradiso.” Per Kynes si tratta solo di “Superstizioni!”

Paul pensa che: “se ti affidi soltanto al tuo sguardo, gli altri tuoi sensi s’indeboliranno.” – che era “un assioma Bene Gesserit”, la quale è una religione filosofica, se richiede al fedele di confidare in verità fondanti e non falsificabili.

“Armi da fuoco, missili, tutto l’antico armamentario: ecco cosa daremo ai Fremen – mormorò Paul.”

Jessica sente “il vento raggiungere senz’altro la velocità di settecento chilometri all’ora, pensò, e percepì il morso dell’adrenalina. Non devo aver paura, si disse, e intonò la litania Bene Gesserit: ‘La paura uccide la mente.’“

Jessica si appoggia “accanto a lui, felice per quell’istante di riposo.” – e: “Fermarsi, pensò. Fermarsi… fermarsi davvero. La vera felicità, si accorse, era questa: la possibilità di fermarsi, sia pure per un istante. Non c’era alcuna felicità, altrimenti.”

Felicità deriva da una radice sanscrita che poi s’innesta nel greco: fyo: produco. Nel caso di Jessica, che è stata educata soltanto a servire, significa: non avere per un istante il benché minimo scopo, l’essere per quell’attimo inerte, privo di inutili arti e di qualsivoglia altra funzione. La materia è continua, oppure discontinua. Essa comprende tutto quel che si può misurare. Ma all’interno di essa c’è lo spazio di Planck, in cui le leggi fisiche pare che non abbiano valore. Pare.

“… secondo la Via Bene Gesserit, cercò la spiegazione del suo comportamento e la trovò. Ho paura di mio figlio. Mi spaventa la sua diversità. E ancora di più quello che potrebbe vedere davanti a noi, sulla nostra strada. E quello che potrebbe dirmi.”

Ancora la paura che l’Altro, per quanto amato, rappresenti un pericolo per noi, oltre che per se stesso.

“Seguendo l’addestramento Bene Gesserit che lei gli aveva insegnato, Paul placò il furioso battito del cuore e ridusse la mente a una lavagna vuota, sulla quale gli ultimi istanti del passato potevano comparire di nuovo. La sua memoria rievocò ogni singolo movimento, vortice o contorsione della valanga, con enorme ricchezza di particolari, anche se il tempo richiesto fu in realtà una frazione d secondo.”

Un rallentamento fisico che produce una provvidenziale pausa esistenziale.

“Jessica restò immobile, per paura di disturbare l’iperconcentrazione mentale di suo figlio.” Consiglia al figlio di saper gestire anche la muscolatura: “il corpo agisce da solo a volte, Paul, e io posso insegnarti qualcosa in proposito. Devi imparare a controllare ogni fibra del corpo. Le tue mani per esempio…” Al che Paul, “si guardò le mani. Sembravano così insufficienti, paragonate a creature come il verme.” E cita ora una frase di suo padre: “Pesante è la pietra e densa è la sabbia; ma non sono nulla al confronto della furia di un pazzo.” – è un’iperbole che va al di là del suo significato letterale: un uomo può distruggere un pianeta intero, con tutti gli elementi che lo compongono, a causa di una sua disperata pantoclastia.

Il capitolo che è a pagina 378 inizia con l’ennesima citazione tratta da un’opera “della Principessa Irulan”, che riporta a sua volta il celebre (ma non per me) ‘Inno al Vecchio’, premettendo, tra l’altro, che “questo adattamento religioso dei Fremen è dunque l’origine di ciò che conosciamo come ‘I Pilastri dell’Universo’, di cui i Quizara Tawfid sono i rappresentanti fra noi, con i segni, le prove e le profezie…”

L’uomo, in questo caso la donna, crede che per forza il cosmo abbia bisogno di fondamenta su cui posarsi, che però non sono cosmiche, altrimenti non reggerebbero nulla. Si tratta di una teoria religiosa, tanto certa quanto indiscutibile, semmai rinnegabile. A ognuno la sua. Si pensi che io credo nella religione dell’arte che fonda ogni mio atto che tenta di essere poetico o letterario…

E infine si chiede tal fatale principessa: “Chi non ha ascoltato, senza commuoversi profondamente, l’’Inno al Vecchio?’“

Frank P. Herbert
Frank P. Herbert

Non faccio testo, ma io lo leggo soltanto. Qui il testo lo ha fatto Frank P. Herbert. Lo si chieda a lui, o al suo spettro.

Si tratta, almeno fino a ora (e si tenga presente che solo da questo punto comincio a reagire in itinere), del capitolo più squisitamente ideologico del romanzo. Ed ecologico: tratta dell’ambiente in cui la storia è raccontata.

“L’uomo strisciò sulla cresta di una duna. Era come una pagliuzza nel riflesso del sole di mezzodì. Indossava soltanto i resti di…” era proprio malmesso, non solo dal punto di vista del vestiario.

L’essere si presenta: “Io sono Lyet-Kynes – disse, rivolgendosi all’orizzonte vuoto, e la sua voce era una rauca caricatura della forza di un tempo. – Io sono il Planetologo di sua Maestà Imperiale – bisbigliò poi. – Ecologo planetario di Arrakis. Il servitore di questo mondo.”

Per uno sfaticato come me è bello sapere che al mondo ci sono più servitori che servizi, anche se a volte il troppo stroppia.

“Un pensiero gli attraversò la mente, chiaro, distinto: la vera ricchezza di un pianeta è nel suo terreno, nel ruolo che noi giochiamo in questa fonte primordiale di civiltà, l’agricoltura.” sente una voce uscita da dove non si sa, nel senso che lo sa ma non lo accetta: “La più alta funzione dell’ecologia è la comprensione delle conseguenze.”

Non può essere! Cosa proverei se ora, in questa stanza dove sono solo, vibrasse la voce di mio papà che è salito altrove quasi vent’anni fa?

“Questa voce lo sconvolse, perché colui al quale apparteneva era morto. Era stato la voce di suo padre, che era stato planetologo su Arrakis prima di lui…”

Kynes comprende fin troppo bene che sta delirando. Sente quella voce recitare come un mantra la solita, vecchia e tediosa lezione che l’ha educato per anni. E ormai non ne può più. Troppe volte l’ha sentita, quando era vivo. Troppe volte l’ha ricordata negli anni seguenti. E ora soffre nel sorbirla ancora.

Riporto alcune delle massime paterne, una più tragicamente saggia dell’altra:

“Più vita c’è in un sistema, maggiore è la quantità di nicchie ecologiche che presenta…”

“La vita accresce la capacità di una ambiente a sostenere la vita…”

“La vita aumenta la disponibilità di sostanze nutritive…”

“Non è possibile tracciare nette separazioni tra i problemi che coinvolgono un intero pianeta. La planetologia è la scienza del ‘taglia e ricuci’…”

“Il più importante strumento per il lavoro di un Planetologo è l’essere umano…”

A ogni principio esposto, il poveretto geme sconsolato, implorando lo spettro di tacere: “Continua a parlare dalla cattedra. Perché non sta zitto? Non vede che sto per morire?

E quello finalmente gli dà ragione: “E davvero morirai – proseguì il padre, – se non ti togli da quella bolla di gas che sta formandosi sotto di te. È lì e lo sai. Senti già le esalazioni della prespezia. Sai che i piccoli creatori stanno per perdere un po’ della loro acqua nella massa.” – rischi di prosciugarti, su!, sta’ attento!

E l’anziano fantasma continua la sua lezione e il consanguineo discente non ne può più: “Chiudi la bocca, vecchio – borbottò Kynes.” Macchè!

 “– Religione e legge dovranno essere un’unica cosa per le masse – riprese il padre. – Tutti gli atti di disobbedienza devono essere peccati e comportare una punizione religiosa” – l’ordalia e il conseguente autodafè.

“Questo avrà un doppio beneficio: decuplicare l’obbedienza e insieme il coraggio. Noi non dobbiamo dipendere dal coraggio del singolo, capisci, ma dal coraggio di tutta una popolazione” –  il Jihad ha da essere generale, sennò non vale nulla. Le regole hanno due scopi: proteggere i diritti di alcuni e tenere a bada, regolare, l’esuberanza di altri. Mi viene in mente il fato che, quando venne scritto il romanzo, si era in piena guerra arabo-israeliana, condotta in gran parte nel deserto, per cause non solo economiche e non solo religiose, politiche tout court, diciamo.

Perché non mi aiuti? Sempre così; quando ho più bisogno di te, non ci sei. Volle girare la testa nella direzione dalla quale sembrava giungere la voce del vecchio, ma i muscoli si rifiutavano di obbedire.”

Penso che quando uno stia per tirare le cuoia sia legittimato a pensare al padre e anche alla madre, a entrambi forse. Ma come, mi avete fatto nascere e poi ve ne siete andati lasciandomi qui a combattere e a perire da solo!

“Sentì che la bolla lo sollevava, lo trascinava con sé, esplodeva” – e altre cosmiche meschinità.

“Poi, nell’istante in cui il suo pianeta lo uccideva, capì che suo padre e tutti gli altri scienziati si erano sbagliati e che i princìpi fondamentali dell’universo erano per sempre l’errore e il caso.” Amen. E pensare che “perfino i falchi lo sapevano.”

Imparare a conoscere le lingue è sempre stato un dono che la vita ci può dare, oppure negare. Mi capita sovente di sorprendermi per come due stranieri discorrano con veemenza fra loro senza che si riesca a capire su quale strambo argomento e per quale arcano fine.

“Cignoro hrobosa sukares hin mange la pchagavas doi me kamavas na beslas lelele pal hrobas” – vorrei capire cosa significhi. Dovrei chiedere a Jessica che, “grazie al suo addestramento Bene Gesserit, riconobbe la lingua. Era Chakobsa, una delle antiche lingue dei cacciatori, e l’uomo sopra di loro stava dicendo che forse erano gli stranieri che stavano cercando.”

Un Fremen dice a Paul: “… io sono uno che non paga il fai, il tributo d’acqua, agli Harkonnen. Per questo, appunto, potrei accogliere dei fuggitivi” – solidarietà fra chi evade dalle regole imposte.

Gente d’onore: “Noi non facciamo promesse alla sera, per dimenticarle all’alba successiva. Quando un uomo dice una cosa, è un contratto. Io sono il capo del mio popolo. Esso è legato alla mia parola.” – una semplice stretta di mano dovrebbe bastare per qualsiasi accordo.

“Noi Bene Gesserit non rompiamo le nostre promesse più di quanto non facciate voi – disse Jessica.”

Madre e figlio, a quanto pare, sono destinati a portare quel popolo “al paradiso”, lo dice la leggenda.

“Sietch: questa parola si agitò a lungo nella sua mente. Una parola Chakobsa, immutata per lunghi secoli nell’antica lingua dei cacciatori. Sietch: un luogo d’incontro nei momenti di pericolo. Le profonde implicazioni della parola e della lingua soltanto adesso cominciavano ad acquistare un significato per lei, dopo la tensione dell’incontro.”

Io sento a ogni pagina un profumo d’oriente, a volte delicato, a volte pregno di effluvi nauseanti.

Questi Fremen assomigliano a certi gruppi armati di cui la storia, non soltanto recente, ha riempito le cronache internazionali: “La sua mente si concentrò sul valore di quel gruppo di uomini, su quanto le era stato rivelato della cultura dei Fremen. Tutti, nessuno escluso, pensò, formano un’unica società militare. Quale potenzia inestimabile per un Duca in esilio!”

Si tratta di un popolo deciso, che si regge su certezze di tipo manicheo: “Il paradiso alla mia destra, l’inferno alla mia sinistra, e dietro a me l’angelo della morte.”

Qualcuno li protegge, e li fa pagare perché non debbano pagare (ad altri): “Noi paghiamo alla Gilda una quantità mostruosa di spezia perché nessun satellite ci spii dal cielo e non sappia che cosa facciamo alla superficie di Arrakis.”

Considerazione di Jessica: “Il prezzo della corruzione ha un rischio. Tende ad aumentare sempre di più.”

Né Paul né l’autore sono a digiuno di conoscenze scientifiche: “Capì che la prescienza era un’illuminazione che aveva in se stessa i limiti di quanto rivelava. Una combinazione di esattezza e di errori significativi. Vi interveniva una sorta d’indeterminazione di Heisenberg: la stessa energia delle sue visioni alterava, nel medesimo istante, le immagini.” – l’osservazione deforma l’immagine osservata. Sennò che mondo assoluto sarebbe!

“E quello che percepiva era il nodo temporale di quella stessa caverna, un ribollire di possibilità concentrato in un punto, in cui l’azione più impercettibile (il battito di una palpebra, una parola irriflessiva, un granello di sabbia fuori posto avrebbe agito su una leva gigantesca, moltiplicandosi in tutto l’universo. La violenza incombeva con un tal numero di variabili che il minimo movimento scatenava immense alterazioni dello schema. Questa visione lo spinse a un’assoluta immobilità, ma anche quest’immobilità era un’azione e avrebbe avuto le sue conseguenze.”

Nel solito esergo del capitolo successivo scopro che la “Principessa Irilan chiama “mio padre, l’Imperatore Padiscià...”, il quale “aveva settantadue anni e tuttavia non ne dimostrava più di trentacinque, quando meditò la morte del Duca leto e il ritorno degli Harkonnen su Arrakis.”

L’età di Paul è indicata (per la seconda volta) a pagina 417: “ha solo quindici anni”. A pagina 425, Paul chiede di farsi chiamare come “quel piccolo topo… il topo che salta!”, cioè “Muad’Dib.” – “Paul Muad’Dib”.

Una teoria economica che dà l’idea di quel sabbioso mondo: “Su Arrakis l’acqua era il denaro. Lei l’aveva capito.”

I Fremen non sono poveri: “Qui, noi abbiamo più di trentotto milioni di decalitri d’acqua…”

Paul, in duello ha sconfitto Jamis, finendo per ucciderlo. Qualcuno poi si chiede, a proposito di un “baliset”: “Credi che Jamis mi odierà se lo uso?” – e Jessica pensa: “Parla dei morti come se fossero vivi…”

È uno strano rapporto quello che lega Paul e Jessica: “Mia madre è la mia nemica. Lei non lo sa, ma lo è. È lei che ha il jihad nel sangue. Mi ha fatto nascere, mi ha addestrato. È lei la mia nemica.”

Da qualche parte spunta “il ritratto a olio de Vecchio Duca Artreide, padre del defunto Duca Leto” – un esempio di nobilissimo vintage?

Vi è ora un altro duello che reca un nuovo morto, Feyd-Rautha ammazza uno schiavo.

“… Feyd-Rautha provò uno slancio di ammirazione per lo sforzo compiuto dallo schiavo per vincere la paralisi e piantarsi il coltello nel cuore. E nello stesso tempo capì che c’era veramente qualcosa da temere.”non sempre l’eroismo altrui comporta la tua gloria.

“La folla impazziva, urlando, pestando i piedi e dandosi violenti colpi sulle spalle” panem et circensem.

Grazie a tutto questo: “Questa notte potrebbe passeggiare disarmato e senza scuso attraverso i quartieri più poveri di Harko…” – senza timore alcuno, anzi: “… gli offrirebbero fin l’ultimo tozzo di cibo e l’ultimo sorso del loro vino, per l’onore della sua compagnia.” Ma, attenzione, la paura non è un lusso che ci possa permettere, perché “il senso di colpa incomincia dal timore di fallire.”

Paul ha ucciso Jamis, che era l’uomo di Harah. E lui le chiede se lo detesta. Lei quasi non capisce la domanda. Le chiede perché non piange? E Lei: “Quando sarà il tempo di piangere, piangerò.”

Anche tra quei Fremen c’è una Reverenda Madre, una figura anch’essa insopportabile, fortuna che è ormai agli sgoccioli.

“Ancora una volta la presenza della Reverenda Madre s’impose, ma la percezione, ora, è triplice… Due erano attive e la terza, immobile, assorbiva tranquillamente.”

La reverenda Madre non è autorevole, è l’Autorità e le dice: “Fai silenzio!… Sei pronta a ricevere?”

Jessica, “troppo tardi si accorse di quanto stava accadendo: la vecchia moriva e nel morire riversava le sue esperienze nella coscienza di Jessica. Come acqua in una tazza. La terza particella svanì lentamente nella propria coscienza prenatale, sotto lo sguardo interiore della madre, mentre la vecchia Reverenda Madre lasciava l’intera sua vita nella memoria di Jessica, con un ultimo gemito confuso.” Jessica, e lo avverte come una certezza, ora è la nuova “Reverenda Madre”.

Mentre l’effetto della droga stava svanendo,sentiva ancora la presenza dell’altra particella…” Si rivolge alla figlia, con parole contrite: “… e ti ho esposta senza alcuna difesa alla infinita varietà delle sue conoscenze.”e ci vuole poco a capire che sorte seguirà quest’ancora immaturo essere.

“Ma l’attenzione di Jessica si era concentrata sulla rivelazione dell’Acqua della Vita. Vide la fonte: l’esalazione liquida di un verme delle sabbie morene, di un creatore…” – che “veniva annegato!”

Paul, intanto segue anche lui la sua sorte chimica: “sapeva quel che sarebbe accaduto se avesse bevuto la droga: la quintessenza della sostanza che aveva causato in lui il mutamento. Sarebbe ritornato alla visione del tempo puro, un tempo divenuto spazio. La droga lo avrebbe portato su una cima, ad altezze vertiginose, e lo avrebbe sfidato a capire.” il tempo divenuto spazio, la sua quarta dimensione relativistica.

“La droga già produceva il suo effetto su Paul, e il tempo sbocciava davanti a lui come un fiore.”mi domando cosa significhi. Un fiore sboccia, si dilata, e poi lascia cadere i petali, secondo il ben noto secondo principio della termodinamica, che cresce col tempo. E che promette il disordine cosmico.

Qui finisce la seconda parte e inizia la terza: Il profeta.

A casa del Barone si discute su quanti Fremen sono stati tolti di mezzo negli anni passati. L’anno precedente seimila. “E l’anno prima novemila, e i Sardaukar, prima di andarsene, devono averne massacrati almeno ventimila.” – poco dopo il baronaccio parla di “progrom dei Sardaukar” e della “repressione di Rabban”. Anche sul fronte opposto non è andato meglio: “Arkanis è un pianeta crudele”. Così si dice di una terra in cui l’uomo è pronto ad ammazzare il prossimo. Come se fosse colpa della crosta terrestre che ci sono tanti conflitti in giro per il mondo.

Definizione di Hawat da parte dell’autore: “il vecchio soldato spia”. Ora di casa presso il Barone. “Quale odio velenoso deve avere avuto quella donna per gli Atreides!, pensò. Un odio simile a quello che io provo per questo Barone. Il mio colpo finale sarà definitivamente come il suo?”

Discussione fra Paul e la madre a proposito della religione. Lui dice: “I Fremen hanno una religione semplice e pratica.” Lei: “Nessuna religione è semplice” – per forza, ti deve stringere ben stretto, con tutte le sue regole e tenere ben avvinghiato coi suoi precetti e misteri sublimi.

La donna “non aveva mai accettato il suo legame…” con Chani, che aveva donato a Paul un nuovo erede.

Alcune particolarità glottologiche: i “Fedaykin, i commando suicidi cui era affidata la salvezza di Muad’Dib.” – palese è il riferimento ai fedayn (plurale arabo di fidā’ï, devoti), i militarono che sacrificavano la loro vita per difendere i valori della propria gente.

L’autore parla di oggetti che non saprei definire (nemmeno Dio Google): “Alia si asciugò le lacrime con un angolo dell’aba di Jessica” – che la descrizione dell’azione connessa può dare un’idea, pur vaga.

“C’era un albero di portyguls, lì accanto, rotondo e cupo” – in arşân, portugâl è l’arancia. “E un paniere con mish mish, e baklava, e coppe colme di liban…” – e qui rinuncio a tentare di capire.

“… nel grido di un uccello o nel messaggio pigolato da un cielago…” – e qui la soluzione forse c’è ma la lascio ricercare all’eventuale prossimo lettore del romanzo di Herbert.

Alia ha ormai due anni e a un certo punto dice una cosa che si assimila a quello che disse il fratello un paio d’anni prima: “Io sono un mostro, lo so.”

C’è un conflitto latente, che prima o poi conflagrerà: “I giovani dicono che se Usul non sfiderà Stilgar, vorrà dire che ha paura” Usul è un altro nome di Paul, mentre Stilgar è il suo prezioso e non si sa quanto fido luogotenente.

Solito esergo della “Principessa Irulan”: “Non si può evitare l’influenza della politica in seno a una religione ortodossa. La lotta per il potere permea l’educazione, l’addestramento e la disciplina di una comunità ortodossa…” – concetti banali e sempre veri.

“Sentì il battito delle ali dell’ornitottero…” – e qui un mio consanguineo mi invia il riferimento da Youtube: nella versione del 1984 paiono mosconi, in quella del 2021 assomigliano a libellule, sempre insetti però, e non uccelli. Infatti, poco dopo, si parla di “uno sciame di ornitotteri ronzanti”.

Gurney, un disperato che appartiene col cuore al vecchio Duca, e che scopre con emozione che Paul non è morto, dice: “La creatura che tutti temono, su Arkaris, voi la usate come animale da sella.”il che non è del tutto vero, ma quasi. I vermi non sono ancora del tutto domestici, ma presto faranno la fine del Canis lupus Linnaeus.

“Uno dei momenti più terribili della vita di un ragazzo – riprese Paul, – è quando scopre che suo padre e sua madre sono esseri umani che condividono un amore al quale lui non potrà mia partecipare. È una perdita ma anche un risveglio, la constatazione che il mondo esiste, e che noi siamo soli. Questo momento porta con sé la propria verità, cui non possiamo sfuggire.” La quale è la frase più importante che sono riuscito a collezionare, la farfalla coi colori più significativi.

Ieri sera ho terminato di leggere il libro: 660 pagine di romanzo, più altre 52 divise in 6 appendici (tra cui un glossario in cui i quesiti glottologici espressi prima hanno avuto una risposta). Dune è il romanzo dell’arida solitudine e della tetra incomunicabilità, dove i sentimenti non sono spontanei ma necessari, quasi fatali. Ognuno deve svolgere la sua missione umana o bestiale (quella dei vermi è di proteggere quella diabolica linfa che parendo dapprima necessaria diventa alla fine essenziale per l’esistenza di chi ne è ormai schiavo). Non ci sono scelte, ma destini contro cui è però mortale ipotizzare di voler combattere. Fino all’ultimo ho sperato che l’eroe vincesse la sua tenzone e che scegliesse la libertà, invece…

Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto dal proprio compito da svolgere. Ed è subito, pur gloriosa, morte.

“Paul Muad’Dib non è come gli altri uomini…” – perché, mi chiedo, dev’essere davvero così?

“Non c’è più alcun dubbio, è un uomo, e tuttavia vede attraverso l’Acqua della Vita, come una Reverenda Madre. È veramente il Lisan al-Gaib.”mi dispiace per lui; ma siamo sicuri che la faccenda sia in questi termini?

“Colui che può distruggere una cosa, la controlla – disse Paul. – Noi possiamo distruggere la spezia!” E fallo, delinquente!

“… Pensa! I migliori Navigatori della Gilda, gente che può esplorare il tempo per trovare la rotta più sicura ai più veloci incrociatori… tutti questi uomini mi cercano… e sono incapaci di trovarmi. Tremano! Sanno che ho in pugno il loro segreto!” sono come dei malvissuti mafiosi che hanno paura del loro infido (e inaffidabile) protettore. Questa è la società umana: qualsiasi organizzazione, lecita o delinquenziale, che ti offre protezione necessita di un’altrui protezione. Nulla è in grado di reggersi da solo.

“Paul studiò gli uomini schierati nella depressione, alla luce che filtrava attraverso la copertura mimetizzante. Il tempo era come un insetto che strisciava sulla roccia.” si favoleggia ormai su questa capacità del nostro eroe di visualizzare il tempo.

Sua definizione da parte dell’obeso Barone: “… un fanatico Fremen, un avventuriero religioso. Spuntano regolarmente ai bordi della civiltà. Sua Maestà lo sa.” – e sa anche che è la stessa civiltà a partorirli?

Rispunta ora quell’odiosa anzianotta di Reverenda Madre, che si sente ora invasa dalla sorellina di Paul: “Non è telepatia. Lei è veramente nella mia mente! Lei è come tutte le altre che mi hanno preceduto e che mi hanno lasciato i loro ricordi. Lei è nel mio spirito! È impossibile, ma è dentro di me!”

Perciò “dev’essere distrutta” – anzi, non doveva manco nascere. Ormai è tardi, però. Dice, sogghignando, quella discola magica: “Mio fratello sta per arrivare.” – e aggiunge: “Anche un Imperatore deve tremare davanti a Muad’Dib, perché la sua forza è quella del buon diritto e il cielo gli sorride.”

Colgo solo un’inesattezza: il Cielo pretende il maiuscolo. Anche la piccirilla divina ogni tanto è vittima di refusi.

Solito esergo “della Principessa Irulan”: “… Non si può misurare Muad’Dib con gli standard ordinari. Nel momento del suo trionfo, indovinò la morte che gli veniva preparata e tuttavia accettò il tradimento…”

“Ti piacerebbe vivere miliardi e miliardi di vite? – chiese Paul. – Che riserva di leggende! Pensa a tutte le esperienze, a tutta la saggezza che ne può derivare. Ma la saggezza attenua l’amore, non è vero? Essa dà una nuova forma all’odio…”creando il tedio infinito e irrinunciabile. Io ho bisogno dei miei limiti umani per poter gustare la Bellezza che si eterna nella Gioia infinita! Diversamente: a thing of beauty is a joy to forget.

E il fellone aggiunge: “Dovresti aver paura di me, Madre. Io sono lo Kwisatz Haderach.” L’abbiamo trovato finalmente. C’era proprio bisogno di uno Kwisatz con quel che segue. Ora il mondo andrà come deve andare. Come sempre, cioè. In avanti, diretto all’entropia cosmica.

Paul “pensò allora alla Gilda, a questa potenza che si era specializzata da così lungo tempo, fino a diventare un parassita incapace di esistere indipendentemente da questa vita di cui si nutriva.”

Faceva però parte dell’arredo urbano, difficilmente fare meno ormai anche degli elementi che svolgono una loro ecologica funzione di disturbo.

“Paul la riconobbe all’istante: la Principessa Reale Ben Gesserit, un volto che gli era apparso infinite volte nelle sue visioni: Irulan.” finalmente anche lei è stata emessa dalla storia.

Paul sberleffa la vecchia “Reverenda Madre Bene Gesserit, il più paziente degli esseri al servizio della più paziente delle cause…”e la canzona fino a che la vecchia chiede a Jessica di farlo star zitto, al che lei risponde: “Fallo tacere tu”.

Paul ha le idee chiare, beato lui: “La razza umana aveva preso coscienza della sua stagnazione, del suo malsano ripiegarsi su se stessa, e ora vedeva un’unica via di scampo: il turbine che avrebbe mescolato i geni, al quale sarebbero sopravvissute soltanto le combinazioni più forti. In quell’istante tutti gli uomini formavano un unico organismo incosciente in preda a un istinto capace di travolgere qualsiasi barriera.”è la follia, tipicamente umana, di credere di essere la razza prescelta dalla divinità per mutare il cosmo. Quante dorate illusioni e quante insipide mediocrità l’uomo è stato in grado di creare in nome di Dio.

Paul è sereno e quasi serafico: “Se io dovessi morire, qui, diranno che ho sacrificato la mia vita perché il mio spirito possa guidarli. E se vivrò diranno che nulla può opporsi a Mouad’Dib.” – l’importante è creare l’ennesimo Mito. C’è anche chi, nel dubbio fra le due ipotesi, morì e poi tornò a rifarsi vivo dopo una manciata di giorni.

L’imperatore aveva rispolverato un Eunuco Conte Fenring che sarebbe stato forse capace di neutralizzare Paul.

“… era uno di Coloro che Sarebbero Potuti Essere, uno Kwisatz Haderach potenziale che un’unica, impercettibile macchia nello schema genetico aveva respinto, un eunuco dai talenti furtivi, segreti. Provò allora una profonda compassione per il Conte Fenring, il primo vero sentimento di fraternità che avesse mai conosciuto.”che sia anche l’ultimo?

Paul, ormai vincitore, comincia a legiferare: resterà (anche) il deserto, che servirà a proteggere (chi a sua volta proteggerà) la manna, pardon, la spezia. Tutto è deciso. Paul sposerà l’atarassica figlia dell’Imperatore, che “avrà il nome, e tuttavia sarà meno d’una concubina… non avrà mai un momento di tenerezza dall’uomo cui sarà unita. Mentre noi, Chani, noi che portiamo il nome di concubine… la storia ci chiamerà spose.”indovinate un po’ chi chiude in siffatto modo il romanzo.

Prima Appendice: parla dell’ecologia di Dune e del padre di Liet-Kynes, molto interessante. Ti fa capire che l’ecologia è un discorso politico e, come diceva, Karletto, principalmente, strutturalmente anzi, economico.

Secondo, pestilenziale appendice: La religione di Dune.

“Molti hanno fatto notare, però, la varietà di elementi presi a prestito da altre religioni.” – ah sì?, non me n’ero accorto.

“Saari Maomettano”, “Manuale Liturgico Cattolico Orangista”, “insegnamenti della Bibbia, dell’Ilm e del Fiqh”, “il Navacristianesimo di Chusuk”, “le varianti Buddislamiche”, “le Miscellanee dei Mahayana Lenkavatara, lo Zen Hekiganshu di Delta Pavoins III”, “gli Zabur Tawrath e Talmudico che sopravvivevano su Selusa Secundus”, “il penetrante Rituale Obeah”, quello degli zombie, per intenderci, “il Muadh Quran”, l’“Hindu” e infine, last but not least: “il Jihad Butleriano”: penso che per il momento possa bastare.

“La carne di un uomo gli appartiene e la sua acqua appartiene alla tribù… e il mistero della vita non è un problema da risolvere, ma una realtà da sperimentare”che vada poi come debba andare.

“E poiché siamo qui, e abbiamo la religione, alla fine la vittoria non potrò sfuggirci.”fede, speranza soprattutto e, se capita, carità.

La terza appendice discetta sui Bene Gesserit e non mi eccita commenti. La quarta, che è L’Almanacco en-Ashraf, nemmeno. La quinta è il suddetto (immaginifico) glossario, in cui imparo una cosa ovvia, che il “Galach”, “lingua ufficiale dell’Impero” è “un ibrido angloslavo con forti tracce di termini culturalmente specializzati, adottati nel corso della lunga catena di migrazioni umane”un mescaa Francesca, direbbero a Portici.

La sesta indica le “Note cartografiche” di Dune. Serve, essenziale per non capire, la cartina del pianeta che è disegnata due pagine dopo. Su cui non so se planerò ancora, magari a bordo di un lepidottero. Vedremo, dai.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Frank P. Herbert, Dune, Fanucci editore, 2014

 

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