“Figlia della cenere” di Ilaria Tuti: il tempo è l’illusione che ti conduce alla rinascita

“Ti manca tanto così, ispettore. Un piccolo, fondamentale tassello da rimettere a posto. E allora, forse, capirai.” – questo, nel capitolo 27, è il consiglio che Giacomo Mainardi, il pluriomicida, dona, si fa per dire, a Massimo Marini, l’ispettore.

Figlia della cenere di Ilaria Tuti
Figlia della cenere di Ilaria Tuti

Figlia della cenere è composto da una continua alternanza fra un Oggi e un Ventisette anni prima, con l’inserzione, sporadica e misterica, di un IV secolo. Ed è subito dopo la lettura del Capitolo 40, che riconduce il lettore a diciassette secoli fa che scelgo di abbandonare momentaneamente la compagnia e di rifugiarmi nei miei sogni personali, ben sapendo che la mattina seguente inizierò a scrivere questa reazione. E che accada quel che accada, che capisca quel che capisca.

Anche a me manca almeno un tassello perché la storia sia comprensibile. Esso è ben nascosto in quella chiesa paleocristiana che un paio di estati fa non riuscii a visitare, a causa di una forte pioggia battente, essendo di ritorno da una breve vacanza a Trieste. Il segreto che ti permette di tornare in alcuni luoghi magici è il non averli potuti apprezzare per via del destino avverso. Grazie al libro di Ilaria Tuti sto finalmente recuperando quell’assenza dovuta alla perfidia meteorologica.

L’eroina in cui una consanguinea e un paio di amici si sono negli anni identificati (mentre io la stimo, purché non mi stia troppo addosso) è il consueto commissario donna: Teresa Battaglia, già protagonista degli altri thriller di Ilaria. Mi spiego: sono un suo fan dal punto di vista intellettuale, ma psicologicamente parteggio per l’ispettore sunnominato, con l’unica differenza che non condividerei la sua pazienza e che qualche volta l’avrei mandata sonoramente a quel paese.

Quel che m’infastidisce di Teresa è la sua finta supponenza, sia perché è finta, sia perché è supponenza. Grazie a essa lei tende a celare le sue debolezze, le cui origini sono state ben individuate e descritte nel presente volume. Teresa era congiunta con una persona perversa che intendeva dominare, anziché amare, la consorte. E che le procurava delle violenze quotidiane.

3. Ventisette anni prima:Teresa restava accovacciata. Aveva appreso l’arte sottile di rendersi invisibile in un mondo di uomini, aveva occupato uno spazio lasciato disponibile perché negletto. E intanto osservava, imparava, si muoveva libera dove altri trascuravano di spingersi.”

La sua non era una fuga, ma un accovacciarsi, anzi, come dicono nel Cilento (e in gran parte del sud), un ammucciarsi, un ricoprirsi di quel che serve per dissimulare la propria figura.

“L’assassino aveva asportato sette falangi delle mani. Le stavano ancora cercando, ma Teresa non credeva che le avrebbero trovate. Se l’era portate via. Doveva esserci un significato in quelle mutilazioni.” – ogni dito un tassello?

4. Oggi: Sorprendente è l’incontro fra Giacomo e Teresa. Lei gli chiede “perché ti sei consegnato alla polizia?”, e lui evita di risponderle, ricordandole soltanto che tutto è accaduto “dopo che tu mi avevi catturato e fatto rinchiudere. Ventisette anni di carcere duro, mi sono fatto.” – quel che stupisce è il tu condiviso.

Alla scena è presente Marini che, allorché l’assassinosi gettò sul tavolo e le afferrò la mano”, stava “per buttarsi addosso all’uomo, quando lei lo fermò”.

5. Oggi: Quello di Giacomo è stato un gesto espressivo, non aggressivo. Almeno così Teresa si augura. E spiega poi che “Giacomo Mainardi è un assassino ed è anche un artista, non possiamo prescindere da questo, perché lui è questo: l’immaginazione ha un ruolo centrale. Lasciamo che le sue fantasie vengano canalizzate in modi espressivi innocui. Credetemi se vi dico che è stato dimostrato che le fasi dell’omicidio seriale sono le stesse della creazione artistica. Aurorale, eccitamento, di seduzione, fase creativa, totemica…” – e il ragionamento è tanto forte che spinge Albert Lona, il suo superiore/antagonista, a esclamare: “Ma per favore, Teresa!” – che non è mai una richiesta di una cortesia, bensì un mal dissimulato invito a tacere.

L’intrepida donna non lo sta a sentire, e così continua a dire: “E infine ‘depressiva’, Albert. Significa che se gli togliamo le tessere e gli attrezzi, a Giacomo tornerà una gran voglia di uccidere, strappare un osso dal corpo, trasformarlo in sette piccoli pezzettini e ficcarli da qualche parte che non sia un mosaico…”.

6. Ventisette anni prima: Parri, che si occupa dell’autopsia, fa toccare a Teresa il “petto della vittima”, e le chiede se sente “questa fissità innaturale? È questo che ti spaventa, nient’altro. Toccare la morte, ma la morte vuole essere toccata. È preziosa, ha una storia complessa da rivelare… – quel che conta è saper ascoltare le sue parole.

7. Oggi:Aquileia la sotterranea, la perduta” – ma come la Morte, è sempre là, dove ha vissuto e dove i suoi monumenti (dal greco mnê-ma, memoria, che conduce al latino mònere, ricordare, e anche ammonire) per l’eternità non cesseranno di narrare le proprie e le altrui vicende.

“La Basilica di Santa Maria Assunta” custodiva “il mosaico pavimentale paleocristiano più antico ed esteso del mondo occidentale. Milioni di tessere da vagliare una alla volta, annusando la morte.” Teresa intuì che “tra quei milioni di tessere, la cattedrale celava sette frammenti d’osso.”

John Keats - Painting by Joseph Severn, 1821 - 1823
John Keats – Painting by Joseph Severn, 1821 – 1823

9. Oggi: “Donne e uomini avevano sempre cercato nella bellezza dell’arte il volto di Dio, e di rimando una traccia della propria scintilla divina.” Dio rappresenta l’Infinita Speranza che la Bellezza, che tanto commosse poeti come Keats, sia una Gioia destinata a esistere per l’Eternità (con tutte queste maiuscole comprese).

“A volte Teresa cercava quella scintilla allo specchio. Non poteva credere che tutto sarebbe finito assieme al suo corpo, e prima ancora assieme ai ricordi. Si guardava dentro agli occhi, sprofondava in se stessa…” – smarrendo il proprio Io, ma non il Sé che mai l’abbandonava.

Teresa è ammalata da tempo, e lo sa. L’Alzheimer è qualcosa di più di una minaccia, è una certezza del suo prossimo futuro. Avendo avuto una mia amata consanguinea affetta da tale morbo, mi sono spesso chiesto cosa rimanesse della sua individualità. Ed ho sempre temuto che il non saperlo lei stessa fosse la ragione della sua ormai per sempre dispersa angoscia.

11. Oggi: “Le tessere cesellate con le ossa della vittima erano incastonate nella figura di un leprotto bianco dagli occhi rosseggianti, racchiusa in un ottagono perfetto, proprio dove la massiccia gradinata della torre strappava spazio al tessuto musivo, sul muso dell’animale, parte di quelle originarie erano state rimosse, i resti umani le avevano sostituite formando una Tau, come quella sulla fronte dell’ariete.” Presa dall’emozione, Teresa compie “un errore da principiante”: “sfiorò i frammenti d’osso e il dente con le dita nude”, cioè senza guanti.

12. Oggi: “Le mani di Giacomo modellavano con perizia tanto la bellezza quanto la morte. Si considerava un artigiano e nei mosaici in divenire riconosceva il proprio mondo immaginifico…”

14. Ventisette anni prima: l’assassino, questo sconosciuto, a volte affascinante, quando pare ineffabile e lo si può immaginare “in una tana, in quel momento. Probabilmente ripensava alla morte inferta e godeva ammirando i suoi feticci, i trofei strappati. Ma presto l’euforia sarebbe scemata e sarebbe tornato prepotente il bisogno.”

Mi stupisce questo descrivere una volontà omicida come una necessità umana, paragonabile ad altri, come la ricerca di risorse, come se fosse una caccia, oppure un atto artistico che sorge inevitabile, per un’urgenza che non si riesce a trattenere, quasi fisiologica, come partorire e andar di corpo. Per Teresa il delitto scaturisce dal “bisogno di potere. Quello assoluto su un altro essere umano.” – se ne può discutere: in genere è così, ma forse non sempre.

Ventisette anni fa, Teresa porge all’antagonista, al sempre fatalmente superiore di grado, Albert, una fede che “era nel ninfeo” e lei l’aveva raccolta “a mani nude”.

Due errori analoghi in ventisette anni, il primo occorso per una giovanile sbadataggine, il secondo per un’involontaria distrazione.

16. Ventisette anni prima: per un criminale, “i morsi sono tipici di una furia incontrollata. Voleva letteralmente cibarsi della violenza che stava esercitando. Era affamato, avido. Ma il particolare importante è un altro. Nella seconda vittima i morsi non ci sono.”

21. Oggi: Marini e Teresa concordano su un fatto: l’assassino “sta giocando con noi”, ma lei sente anche che “ci ha dato un grande aiuto”. Poi aggiunge la solita perla: “Ogni tanto è necessario difendere la Bestia, Marini, e ricordare il bambino che ogni mostro è stato. Vi sto offrendo una diversa prospettiva da cui osservare i fatti.” – e ne vorrei proporre una mia, non meno scandalosa: ogni bambino è un mostro che cerca in una sua alterità la miglior difesa contro le avversità disseminate nel cosmo.

23. Oggi: L’assassino “ha pensato di incastonare le tessere” dove meno uno se l’aspetterebbe, “Nell’angolo più lontano c’è questo coniglietto bianco scampato alla pietra dei gradoni. Lì, li ha messi.” – al che la sua donna Elena, lo corregge,disgustata”: “Una lepre, Massimo, una lepre.” Non vorrei portargli sfortuna, a questo simpatico giovane, ma non vorrei che si stesse allevando in casa una commissaria Battaglia, dopo averla addirittura messa incinta.

27. Oggi: Giacomo Mainardi dice a Massimo Marini dice che gli manca solo un quel piccolo, fondamentale tassello, di cui si diceva all’inizio… Massimo ha scoperto che fra i due (Teresa e Giacomo) per almeno quattordici anni ci sono stati dei colloqui con cadenza mensile (il direttore del carcere è tale da solo quegli anni: “e che io ricordi ci sono sempre stati”). Ed è la ragione per cui Giacomo parla di Teresa come a un’amica, e la cosa aveva infastidito l’ispettore.

29. Oggi: “Il DNA del dente ritrovato nella basilica è stato isolato. È un vecchio dente…”, che “appartiene a Teresa.”

30. Ventisette anni prima: quando gli inquirenti trovano un morto assassinato, la domanda che sorge spontanea è “Che cosa si è preso?” – e stavolta la risposta è: “Il costato è squarciato, verso il fianco. Una costola. La punta di una costola.”

32. Oggi: Massimo Marini “stava passando sotto la lente di ingrandimento ogni riga del rapporto stilato ventisette anni prima sul caso di Giacomo Mainardi e non aveva ancora trovato quello che cercava disperatamente: un tassello fondamentale della storia di Teresa Battaglia, la chiave di volta per spiegare il legame che quella donna sentiva di avere con l’assassino.”

L’entanglement quantistico è quella misteriosa proprietà della materia, per cui due particelle che vengono a contatto casualmente rimarranno per sempre correlate. Al variare dell’una, muterà anche l’altra. Un fenomeno inspiegabile risveglia in esse un’antica somiglianza, forse la singolarità che è sorta all’alba dei tempi.

Quando leggo un autore rimango coinvolto da lui e, nella mia fantasia, lo sento mutare insieme a me, suo ipocrita lettore. E questo è una delle ragioni per cui ogni nuovo romanzo con protagonista la talvolta fastidiosa Teresa, mi costringe prima o poi a interagire, facendo riferimento a lei e a chi la creò, e che è obbligata solidale con la mia presente scrittura.

33. Ventisette anni prima: finora non ho quasi detto nulla di Sebastiano, coniuge di Teresa, ma una descrizione di un suo atto scatena la mia urgenza descrittiva, che utilizza in toto quella dell’autrice, che meglio di chiunque lo conosce, e che vari capitoli fa lo definì “la bestia”: “Sebastiano non stava accarezzando lei. Stava lisciando le catene che giorno dopo giorno le stava attorcigliato addosso e che giorno dopo giorno, sempre più, godeva nello stringere. In quel momento di calma apparente, Teresa ebbe la certezza che lui non avrebbe mai sciolto le catene, né avrebbe permesso a lei di spezzarle. L’unica valigia con cui sarebbe potuta uscire da quel matrimonio era quella fatta con la sua pelle.” La cosa le riuscì solo allorché ebbe il coraggio di denunciare l’ultima violenza subita.

35. Oggi:La cattura non era stato l’unico contatto tra lei e l’assassino.” – che sarebbe forse bastato. “E se aveva conservato un pezzetto di lei per tutto quel tempo non era stato per fantasticarci sopra, ma perché quello che era accaduto li avrebbe legati per sempre.”: come volevasi dimostrare.

36. Ventisette anni prima: “Sono Battaglia. Anche la terza vittima ha una protesi recente all’anca, vero?”

37. Oggi: “Giacomo si era aperto i polsi, come aveva riaperto la storia che lei stava seguendo.” – l’evento, pur nella sua drammaticità, può essere inteso anche come un estremo tentativo di comunicare al mondo la propria intima essenza, da parte di un essere che ha fatto dell’espressione, a prescindere dalla sua eticità, la propria ragione esistenziale.

39. Oggi: “La richiesta d’aiuto di Giacomo era ancora lì, dopo ventisette anni. Teresa non era mai riuscita a sbrogliare la matassa di dolore che lui aveva dentro il petto.” – la distanza fra due corpi è sempre di tipo spazio-temporale. E non sempre l’entanglement, che pur consente la comunicazione, è in grado di prevedere una sua esatta comprensione.

“Chissà che cosa stava sognando, Giacomo, se da qualche parte, in un’altra dimensione dove la violenza non era una maledizione che ricadeva di generazione in generazione, avrebbe mai potuto sentirsi come gli altri. Né peggiore, né migliore.”

Giacomo e Sebastiano hanno prodotto due forme di violenza (che deriva dal latino vis, forza, che è affine al greco is, da cui physiké, che è la forma che assume la Natura ai nostri occhi), cioè di energie volte a creare e a distruggere, nel consueto, inevitabile, gioco cosmico che si svolge tra Śiva e Visnù, che ogni cosa muta, perché nulla cambi mai del tutto.

Se non ci fosse stato quell’orrido marito, forse lei non avrebbe mai rinvenuto in sé la volontà di andare oltre. Non è una giustificazione di nulla, men che meno della violenza, semmai è un augurio, che mai deve venire a mancare, che non tutto il male viene (solo) per nuocere.

Continuando a ragionare per assurdo: se Giacomo non avesse ucciso tanti innocenti, la vita di Teresa sarebbe stata forse più povera? La risposta non c’è, o soffia nel vento, come canta il poeta.

Albert Einstein
Albert Einstein

Einstein teorizza che il cosmo si regge su uno scambio di energia (anche l’amore lo è; anche l’odio) che collega ogni corpo all’altro, e che il Tutto, sciogliendosi nel Nulla, ne è necessariamente ricreato. Egli ipotizza che il tempo non esista realmente, e questa sua teoria è di tipo religioso, non dimostrabile né falsificabile.

Il romanzo di Ilaria Tuti appare come la narrazione del mutare di questa illusione, che conduce alla riproduzione del mondo, che non avrebbe ragione alcuna senza il passato.

E per continuare il paradosso, che è un andare contro l’opinione comune, un’inversione del senso, e non della direzione, mi viene da dire che il passato non esisterebbe se non ci fosse l’oggi, da esso determinato e dal futuro, che già si sta preannunciando.

Come forse qualcuno avrà notato, non ho ancora estrapolato nulla dai capitoli intitolati al IV secolo. Il motivo è intuibile: essi racchiudono tutta la verità, ammucciandola con una serie di detriti che ingannano gli occhi di chi si affanna a rovistare nel Tutto Che Non C’È Più.

Le vittime di Giacomo, tutti sui ‘70 anni, furono ricoverati nella stessa struttura ospedaliera, per un intervento all’anca grazie a cui ognuno di loro “sarebbe tornato quello di prima.”

42. Ventisette anni prima: “era tipico degli assassini seriali regalare oggetti appartenuti alle vittime alle persone che sentivano in qualche modo importanti per loro, ma Teresa allora non si spiegava perché poi l’assassino avesse abbandonato l’anello nello stagno del ninfeo.”

L’unico assassino seriale con cui ho avuto a che fare era la nostra micia il cui nome che gli affibbiammo era assai fantasioso: Gâta. Anche lei usava regalare alla sua famiglia adottiva alcune sue prede, solo quelle che lei giudicava più interessanti, e ciò non era di certo frutto del caso. Era qualcosa ch’era dentro di lei a scegliere, e a donare.

“Se nell’immaginario dell’assassino quell’anello era destinato a una donna, se l’assassino aveva iniziato a seguire i passi della polizia, e se il contato che aveva avuto con Teresa non era casuale, quella fede, forse…” – due parole non rientrano nel vocabolario dei felini e dei serial killer: se e forse. L’atto che li caratterizza è di tipo scientifico, e la loro azione è di tipo galileiana: se funzionano o se sono alla fine verificate, beh, quello è un altro discorso.

Di certo credono nei propri postulati, o negli assiomi, o fin anche nei dogmi… Insomma, si tratta di gente seria, organizzata, che più lucida non può essere.

Nella storia di Giacomo Mainardi c’era un problema che si poteva risolvere con un po’ d’amore e con un piccolo intervento chirurgico: aveva “un buco al posto del cuore”, una antiestetica cavità nel torace che fin dalla sua infanzia era motivo di scherno da parte dei suoi coetanei: in esso egli avrebbe deposto negli anni i suoi sentimenti distruttivi.

44. Ventisette anni prima: Esistono vari tipi di negatività. Albert, il superiore di Teresa, pur essendole legato, cerca di umiliarla ogni volta che gli capita l‘occasione. Ora le chiede: “E allora, Teresa, non riesci a proprio stare lontana dagli uomini violenti?”

Che sia una domanda dall’intento distruttivo, lo si può facilmente dedurre dal fatto che, di fronte a essa, “lei non riusciva a reagire”. Lo stesso le capitava quando Sebastiano le recava tutta la sofferenza che era in grado di offrirle, e in cambio non richiedeva nulla, non perché non osasse farlo, ma perché diversamente essa sarebbe in qualche modo condivisa. Il rapporto fra i due non esisteva: la dimensione di quell’uomo era infinita, quella di lei azzerata.

Con Albert invece il confronto era ancora possibile. La superiore intelligenza di Teresa era motivo di continua acredine. Questo, paradossalmente, permetteva il mantenimento di un rapporto, che vedeva, per motivi gerarchici, lui prevalere dal punto di vista gerarchico e soccombere da quello intellettuale. Con Einstein egli condivideva solo il nome di battesimo.

45. Oggi: “Giacomo Mainardi è scappato dall’ospedale…”

Le tessere “ritrovate nella basilica assieme al tuo dente”, Albert spiega con la consueta sicumera, “sono ricavate dallo sterno della vittima…”.

Giacomo aveva quel “buco al posto del cuore”: “era lo sterno, quello sterno che in lui era nato sbagliato e che lo aveva maledetto…”

Aggiunge poi il colpo finale a sorpresa, dopo averlo accuratamente preparato: “è stata trovata una corrispondenza del DNA della vittima…” – che era un uomo che “schedato perché recidivo. Quasi uccise una donna…” – e quella donna “eri tu, Teresa. I resti appartengono a Sebastiano.” 

50. Oggi: “Siamo tutti vittime di qualcuno e tutti siamo stati almeno una volta carnefici. Alcuni si salvano o vengono salvati. Altri soccombono. Pochi, per fortuna, diventano quello che è Giacomo. Questo è lui, un ragazzino che si sentiva già morto quando i suoi coetanei immaginavano e progettavano il futuro– fin da piccolo Giacomo si sentiva perfectus, senza più destino se non quello che la vita aveva deciso per lui. Il che non era affatto vero, ma lui ci credeva, e coltivava in silenzio la sua diversità umana.

Ora “era ancora latitante”, e “sembrava essersi riconsegnato alla notte da cui aveva scelto di uscire solo per un breve istante.” – e in cui era rientrato: “Nessuna nuova morte avrebbe potuto dargli la perfezione assaporata con l’uccisione di Sebastiano.” – che equivaleva a un dono immenso che egli aveva creduto suo dovere fare a Teresa, l’unica vera amica della sua terribile esistenza.

Kam’a, da cui deriva sia amore che amicizia, è un termine sanscrito che indica la passione. Non occorre aggiungere altro alla discussione su quale sentimento egli provi per una donna che poteva essergli madre o sorella maggiore. Quello che s’era introdotto nell’anima di Sebastiano era un’altra forma di passione, che coincideva unicamente col suo folle Io: l’ultimo giorno della loro convivenza, dopo averla umiliata con accuse fondate su una demente follia, e averla picchiata “sulle tempie tanto da farle vedere doppio”, egli “la colpì al viso, al ventre” e poi “le batté il capo contro la parete”… e, dopo numerose altre violenze, “se ne andò, il respiro ancora affannato dall’impresa compiuta, lasciandola sul pavimento come un giocattolo rotto dalla furia di un bambino.” – un infante mostruoso che non sarebbe mai diventato adulto e responsabile.

Ilaria Tuti
Ilaria Tuti

53. Oggi: “Marini si allontanò di nuovo. Stava tentando di sgravarla di ogni peso possibile, ma lei avrebbe solo voluto riavvolgere il tempo di qualche giorno, poche settimane.” – mi dispiace, cara, ma ciò non è forse possibile, anche se lo scienziato Julian Barbour, in The end of time, assicura che il tempo è la più scherzosa delle finzioni cosmiche e lo si può immaginare come un filo quasi infinito con tante cartoline appese, ognuno con la sua relativa configurazione e realtà fisica, sia pure immaginaria. Non so cosa significhi, ma pare che certe equazioni matematiche rechino a tale assurda eventualità.

54. IV secolo: “La vecchia sciamana la prese tra le dita tinte di nero come artigli d’aquila, la avvicinò alle fiamme per osservarla, fiutò e sembrò riconoscere nel suo odore quello delle ossa.”

Una speranza assai umana ci induce a convincerci che, in altre mitiche ere, era disponibile una magica scienza che permetteva d’intuire quale potesse essere il nostro destino.

“Così stagliata contro il fuoco, la statuetta della dea pareva ardere. Claudio pensò che forse doveva accadere, per farla rinascere. I cristiani avevano creduto di averla resa cenere, ma dalla cenere lei sarebbe risorta dotto altra forma.”

Il merito di ogni religione risiede nel fatto che nulla, grazie al loro Nume (che sia Osiride o Cristo poco importa) è mortale, ma sempre foriero di una salvifica rinascita. Il che in fondo non è così assurdo, finché la celebre formula di Einstein (E = mc2) non sarà un giorno falsificata.

55. Ventisette anni prima: “Teresa sentiva il corpo bruciare. Ogni parte di lei era fatta di brace e senza fiamma ardeva, anneriva e si consumava. Sentiva un vuoto di espansione, dentro…” – la massa che le era cresciuto in grembo stava trasformandosi di nuovo in energia.

“Il dolore che la bruciava era altro, veniva dall’anima, che sapeva, aveva visto tutto, senza poter far niente perché non c’era più nulla da fare…”

56. Oggi: Teresa incontra Giacomo che le confessa “di aver seguito i passi di una storia di redenzione che mi è stata raccontata…” – come lei sicuramente non poteva non sapere.

Per quanto abbia promesso di non voler uccidere più nessuno, a prescindere da chi sia stato il mandante di quest’ultimo suo omicidio, le chiede di non avvertire i suoi amici: “una bestia resta un bestia.” – e lui si ritiene tale.

Un ultimo avviso: il dente non era mai stato in suo possesso, ma apparteneva a chi gliel’aveva rotto, e che se lo era tenuto a mo’ di “feticcio”, sempre perché “una bestia resta sempre una bestia.” – la quale asserzione può valere per ciascuno di noi, a seconda del destino che ci conduce per mano in un tragitto che solo in minima parte ci è consentito di modificare.

Sebastiano “era inserito nella società” ed era “insospettabile”. Lui, “invece, era un assassino seriale, vissuto e tenuto ai margini. Il primo aveva cercato di cancellarla. Il secondo l’aveva salvata.”

Epilogo. Ventisette anni prima: Albert così s’era espresso sull’intenzione di Teresa di diventare commissario: “Non riuscirai mai a superare l’esame. Non sei pronta, non lo sarai mai.”

Teresa, che era ancora titubante, assunse da tale negatività l’energia indispensabile per portare a compimento il suo progetto.

Ci sono crimini che rimangono impuniti, perché non esiste modo di scoprirli, né di contrastarne l’esecuzione, se non grazie alla decisione della vittima di non più subire la prepotenza del carnefice.

Questo è il prezioso insegnamento che emerge in questo noir, in cui l’autrice, con la sua consueta forza e finezza di scrittura, sa mirabilmente scrutare in fondo all’anima di ogni singolo personaggio che, pur presentando talora un mistico amalgama di ferocia e d’innocenza, finisce per svolgere la sua discreta e necessaria funzione.

Apprezzabile è anche il voler condurre il lettore a una sorta d’incertezza finale, consentendogli in tal modo d’aggiungere qualcosa di sé, in un moto perpetuo che assicura alla storia narrata l’ineffabile continuità che caratterizza le vicende umane.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Ilaria Tuti, Figlia della cenere, Longanesi, 2021

 

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