Carlo Riva: la decisa levità plasma con delicatezza il linguaggio
Lo scultore Medardo Rosso affermò: “Ce qui importante pour moi en art, c’est de faire oublier la matière.”

Egli abbandonò la finitezza quindi, perché le sue opere lasciassero presagire l’atmosfera circostante.
Anche Carlo Riva rifuggì l’approccio fotografico e il realismo, sin dagli albori del proprio percorso artistico.
Sono molteplici i risvolti, in cui ha esperito se stesso, ma nessuno di essi serba la certezza dei dictat formali; la sua mano muta, nel corso del tempo, passando dalla riproduzione del puro “dato scientifico”, reinterpretato in maniera personale, all’attuazione di un linguaggio, che possa dar voce a percezioni soprasensibili.
Era sua consuetudine addentrarsi, sin dagli anni 70, assieme alla figlia ancora bimba, nelle zone boschive, circoscritte al fiume Lambro, per trovare le sue “muse”: alcune divennero emblema della stagione, che lui stesso battezzò “Alla Medardo Rosso”…
Durante questo periodo, il sasso del Lambro abbandona infatti il proprio letto, sposato dal suo occhio, che lo ama con il proprio animo e la propria predisposizione alla ricerca: l’involto materico lascia indi la terra per affrontare le palme dell’autore di Sirone e significarsi in altre vesti.
Nella severità del marmoreo aspetto, il ciglio dell’artista coglie un attimo esistenziale e goccia, poi, il “riverbero” dell’immaginario canto di una cascata, simbolico di una naturale inclinazione per l’arte, sulla roccia, dilavandola.
Nascono così individualità esperienziali, carezzate dallo strumento, che l’autore di Sirone sembra impugnare e adoperare con estremo garbo: la decisa levità, amabilmente imposta dalla sua contezza, plasma invero una delicatezza, in ciò che nasce, spesso, come realtà sterile e accessibile a pochi.
I volti appaiono quindi allo sguardo come pienezza plastica, che serba però il segreto delle genesi terraquea e altresì del cilestrino archè.
La manifestazione artistica “accade” come metamorfosi, sospesa tra quello che il senso percepisce mentre, fuggevole, si nullifica, e, al contrario, la verità di una piena assenza, che si forma tra le trame della materia.
Carlo Riva frange il limite segnico, sorradendo il nucleo sensibile con risoluto e altresì amabile tatto: appaiono allora epifanie, sospese in un diastema esperienziale, penetrale di una dissolvenza concreta.
Allo stesso modo, l’autore “ruba” l’incipit da un pensiero intuitivo, che assume sassosi lineamenti umani.
L’“hŏmō” latino, legato a hŭmus ‘terra’, abbraccia l’equivalente greco ànthrōpos, addivenendo indi morphos del ricongiungimento all’ “Uno” primievo universale.

Carlo Riva dirime così la successione compositiva roccia-individuo, completandola con la significanza della cattedrale: il sintagma allora procede verso l’assoluto nulla, pantheon sacrale di possibilità illimitate.
Lo stesso sintagma diadico/creativo si risolve, leggendolo al contrario, nel ritorno, a ritroso, verso lo spazio della creazione prima e delle sue alchemiche mescianze.
I luoghi cari all’anima si staccano, via via, dal confine geografico e abbracciano, in seguito il “chàos”, ossia il vuoto, l’immensità.
Se per Nikolaj Berdjaev il pane è una questione spirituale, l’artista lombardo sottolinea, nelle proprie volizioni artistiche, la sostanziale differenza tra nutrimento per il corpo fisico e quello rivolto all’interezza dell’essere umano: depone infatti, al cospetto dell’osservatore, la pienezza di un atto estetico vivo e vivificante, nell’ottica di un’esperienza totalizzante.
L’artista, nel corso degli anni, ha affrontato sia le discipline pittoriche che scultoree, concretizzando oltre 5000 opere.
Attualmente i figli Anita e Stefano Riva si occupano del patrimonio artistico dell’eclettico autore.
Written by Maria Marchese
Info
Alcune delle opere di Carlo Riva si trovano presso la residenza pugliese “Marchese Houses”