“David Copperfield” di Charles Dickens – Tomo II: leggere è smontare pezzo per pezzo l’anima altrui

David Copperfield giunge a Yarmouth giusto in tempo per salutare il signor Barkis, che è al suo ultimo viaggio. “‘Prenderà il largo con la marea’, mi disse il signor Peggotty, parlandomi da dietro la mano.” David non pare capire.

David Copperfield di Charles Dickens
David Copperfield di Charles Dickens

“La gente delle coste non può morire, – proseguì il signor Peggotty, – se non quando la marea è prossima ad andarsene. Non può nascere a meno ch’essa non sia prossima a venire… non completamente nascere finché il flusso non avanza. Egli prenderà il largo con la marea. Vi sarà il riflusso alle tre e mezza, poi bassa marea per mezz’ora. Se sarà in vita sino a quando essa girerà, egli rimarrà aggrappato sino a che sarà finito il flusso, e prenderà il largo con la successiva marea.” infatti, “essendovi acqua bassa, egli prese il largo con la marea.”

Noi abitanti della terraferma, sia parlando delle nascite che del vino da imbottigliare, parliamo di lune che vanno e vengono, ma i concetti sono analoghi.

David presenzia al funerale o, meglio, raggiunge a piedi il “cimitero quand’esso giunse, accompagnato soltanto da Peggotty e da suo fratello.” Fra tutte le cerimonie umane, questa è la meno illusoria: uno crede a quello che vede, gente che piange colui che non potrà più nemmeno tergiversare, partecipare a un discorso e nemmeno a sorridere.

“A questo punto una paura mi pervade. Una nube si sta abbassando sulla distante città, verso la quale tornavo a dirigere i miei passi solitari. Ho paura di avvicinarmici. Non riesco a sopportare il pensiero di ciò che accadde in quella memorabile notte, di ciò che deve accadere di nuovo se proseguo. Nulla di peggio può capitare per il fatto ch’io ne scrivo. Non avverrebbe nulla di meglio se fermassi la mia riluttantissima mano. Il fatto s’è compiuto. Nulla può annullarlo; nulla può renderlo diverso da come fu.” ei fu significa che lo fu per sempre.

“Mi sentii un perfetto procuratore quando lessi questo documento ad alta voce con tutto il cerimoniale possibile, ed enunciai le sue disposizioni, nel dovuto numero di volte, a coloro che ne erano interessati.” Meno male che a rallegrare la compagnia ci pensa la solita signora Gummidge: “Io non sono una persona che possa vivere con chi ha avuto denaro in eredità. Le cose a me vanno troppo storte. Preferirei essere una liberazione.” E insiste: “Come potevo aspettarmi d’essere desiderata, essendo così solitaria e derelitta, e con le cose che sono cattive con me!” Più drammatica, e a volte più tragica della morte c’è però la vita.

Il mio amore, signorino David… l’orgoglio e la speranza del mio cuore… quella per la quale sarei morto e per la quale vorrei ora morire… se n’è andata!”

Il povero Ham non è più in sé: “Il viso ch’egli alzò al torbido cielo, il tremore delle sue mani contratte, l’angoscia del suo aspetto rimangono anche oggi associati nel mio cuore a quell’arida landa solitaria. Là è sempre notte ed egli è l’unico oggetto della scena.”

“La piccola Emily” – ormai cresciuta è fuggita. Si sospetta con chi: Steerforth, colui che fa sterzare e via! Disgraziato Ham!

“Ora egli era diventato del tutto inerte; e quando l’udii piangere, l’impulso che avevo avuto di buttarmi in ginocchio per chieder loro perdono della disperazione che avevo suscitato, e maledetto Steerforth, cedette a un sentimento migliore. Il mio cuore oppresso trovò lo stesso sollievo, e anch’io piansi.”

Ham, di solito così silenzioso, ora quasi straparla: “Non so esattamente come sia, ma da di là da ciò che v’è laggiù m’era sembrato che venisse… anche la dine della cosa, – rispose, guardandomi come se si stesse svegliando, ma con lo stesso volto risoluto.”

David gli chiede a quale fine si riferisce. Lui dice che non lo sa: “‘… stavo ricordandomi che l’inizio di tutto è accaduto proprio qui… e poi è venuta la fine. Ma m’è passato! signorino David, – aggiunse rispondendo, come penso al mio sguardo; – non avete nessun motivo di temere per me, ma sono un po’ turbato; mi capita di non riuscire a capire nulla’, il che equivaleva a dire che non era in sé e che si sentiva tutto confuso.”

A distanza di tempo, “il ricordo di questo colloquio, collegato col mio precedente pensiero, mi perseguitò tuttavia, a intervalli, finché l’inesorabile fine arrivò al tempo designato.”

David conduce il signor Piggotty dalla madre di Steerforth. Fu un errore che fu forse inevitabile? Nessuno lo potrà mai dire. L’anziano pescatore e la vecchia aristocratica sono due antagonisti che si affrontano ognuno con la sua arma più tagliente, il primo con una dignità, una compostezza e un ardore privo di astio; la seconda con l’atroce rancore e la certezza di essere lei l’unica vera vittima in quella miserabile storia.

Quel che dice fa fremere il lettore, che però capisce che il suo discorso, per quanto atroce, non può essere diverso. Alla fine, come una regina oltraggiata, esce di scena, lasciando i suoi due ospiti in compagnia di una signorina Dartle che aggiunge fuoco all’incendio: “la loro è una classe corrotta e indegna. Vorrei ch’ella venisse frustata!” Ancora: “Vorrei che la sua casa venisse abbattuta. Vorrei che lei venisse marchiata in viso, vestita di stracci e buttata fuori per la strada a mori di fame. Se avessi il potere di sedere in giudizio contro di lei, vorrei veder questo attuato. Vederlo attuato? lo farei io!” – e continua per qualche altro ignobile e assurdo minuto.

David: “Nessuna descrizione che potessi dare di lei renderebbe giustizia al mio ricordo di lei o al suo intero abbandonarsi alla sua ira. Ho visto la collera in molte forme, ma non l’ho mai vista in una forma come quella.”

Il signor esce in strada e, dopo aver cenato con la sorella e con David, parte, per dove si sa, a cercare lei, ovunque lei sia perché: “il mio amore per la mia diletta bambina è immutato.”

David pensa che prima o poi dovrà dichiararsi a Dora, chissà quando, forse domani. “Non so come lo feci. Lo feci in un attimo. Intercettai Jip. Ebbi Dora tra le mie braccia. Fui pieno d’eloquenza. Non m’arrestai mai per cercare una parola. Le dissi quanto l’amavo. Le dissi che darei morto senza di lei. Le dissi che l’idolatravo e che la veneravo. Jip abbaiò furiosamente per tutto il tempo.”cinicamente geloso.

“Che periodo ozioso fu quello! Che periodo immateriale, felice, assurdo fu quello!” Ricordo lo sceneggiato degli anni ‘60: Dora, interpretata da Laura Efrikian, non era forse bella come una Venere, ma era graziosissima. Quasi troppo. Era impossibile non amarla, e difficile immaginare come potesse quel miracolo avere un suo tempo assoluto, privo di coordinate spazio-temporali e magico.

“Quello in cui avevamo quei nostri incontri nel giardino della piazza e sedevamo entro la squallida casina d’estate, così felici, che ancor oggi voglio bene ai passeri di Londra per nient’altro, e vedo il piumaggio dei tropici nelle loro penne color fumo!”

David scrive ad Agnes e le confessa il suo fidanzamento, dicendole che non è un capriccio, ma…

“… e il ricordo dei suoi chiari occhi calmi e del suo dolce viso andava pervadendomi, esso soffuse un influsso così pacificante sulla fretta e sull’agitazione nelle quali ero vissuto ultimamente, e delle quali la mia stessa felicita era in un certo grado partecipe, che m’intenerì sino alle lacrime. Ricordo che rimasi con la testa posata sulla mano, quando la lettera era per metà scritta, beandomi in una generale fantasticheria, come se Agnes fosse uno degli elementi della mia naturale dimora. Come se, nel ritiro della casa resa dalla sua presenza quasi sacra a me, Dora e io avremmo dovuto essere più felici che altrove. Come se, nell’amore, nella gioia, nel dolore, nella speranza o nella delusione, in tutte le commozioni, il mio cuore vi si volgesse naturalmente e vi trovasse il rifugio e il miglior amico.” Charles-David era innamorato cotto di Dora eppure amava che di più non si poteva la sua amica, così lontana e tanto vicina.

A lei fa sapere della fuga di Emily, senza dire tanto altro, bene sapendo “quant’ella fosse sempre rapida a intuire la verità e che non sarebbe mai stata la prima a fare il nome di lui” – donna tanto intuitiva quanto discreta.

Una novità chiude il trentaquattresimo capitolo: la prozia col fido Dick si presenta a casa di David e si siede su una cassetta, perché, spiega poi, essa “è tutto quello che posseggo. Perché sono rovinata, mio caro!” – da cui fa conseguire la solita saggissima morale: “Dobbiamo affrontare i rovesci finanziari coraggiosamente e non tollerare ch’essi ci spaventino, mio caro. Dobbiamo imparare a interpretare la nostra parte sino in fondo. Dobbiamo dimenticare col tempo la sventura, Trot!” e dobbiamo passare al capitolo successivo, Trot (che è il nomignolo con cui la zietta chiama da sempre il nipotino).

David alla zia vuol un bene che ella ricambia come solo lei sa fare: “Dopo di che, rimessomi tranquillo a giacere, m’accorsi ch’ella mi sedeva accanto, mormorando tra sé: ‘Povero ragazzo!’. E allora mi sentii venti volte più infelice, comprendendo quant’ella fosse altruisticamente premurosa verso di me e quanto io fossi egoisticamente premuroso verso di me.” Adattando un proverbio napoletano (che nell’originale parla della mamma), chi tene ‘a zia nun chiagne. Specie se la zia si chiama Betsey.

Giunge Agnes, che prospetta a David una parziale soluzione ai suoi problemi (occorre sempre diffidare delle soluzioni definitive). Al che, David risponde: “Se avessi avuto il cappello dell’illusionista, non avrei voluto estrarne nessun altro fuorché voi!” – e giustamente Agnes le chiede: “Che?” – e solo a quel punto lui specifica: “Beh! forse prima Dora…” – e lei annuisce come solo lei sa fare.

“Per me ella fu come la Speranza personificata. Come mi sentii deferente dopo un solo breve minuto, avendo Agnese al mio fianco!”

Agnes e la zia s’incontrano: “Notai che Agnes impallidì come guardò attentissimamente la zia. La zia, accarezzando il suo gatto, guardò attentissimamente Agnes.” – ecco come la stessa azione assume colorazioni illusoriamente differenti.

David, la zia e Agnes si recano nell’ufficio del padre, che ora è in società con Uriah. Il signor Wickfield sembrò davvero sottomesso “a quella strisciante personificazione della spregevolezza ch’era Uriah Heep: “Se avessi visto una scimmia prendere il comando d’un uomo, difficilmente l’avrei giudicato uno spettacolo più avvilente.”

Charles Dickens e le 2 figlie in una foto del 1865
Charles Dickens e le 2 figlie in una foto del 1865

Mentre Charles-David si rammenta di come Agnes elogiasse Dora, ora, a distanza di tanto tempo non può fare a meno di pensare: “Oh! Agnes, sorella della mia fanciullezza, avessi capito allora ciò che capii più tardi!” – che l’amore, fra le passioni, è la più forte e silente?

Niente da segnalare nel capitolo trentaseiesimo, Entusiasmo, se non che il dottor Strong accetta (ben volentieri) di impiegare David presso di sé, come collaboratore al suo Dizionario, per l’onesta cifra di “settanta sterline l’anno”, che Dick conosce Traddles, e l’aiuterà (in cambio di una piccola paga) a ricopiare degli scritti legali, dimenticando per un attimo il suo Memoriale e quel Carlo I che tanto l’angustiava nella sua redazione, e che rifà capolino il signor Micawber, che ha a sua volta ottenuto un impiego niente meno che da Uriah Heep (e quel buon uomo “già si vedeva con gli occhi della sua mente giudiziaria, sul cuscino del seggio del Lord Cancelliere.”).

Nel successivo Un po’ d’acqua fredda cala sul capo di David quando sconvolge per cinque minuti la mente della piccola Dora, confessandole di non avere un soldo. Ma la giovane ragazza poi si riprende e ricomincia a giocare col cane. Entrambi i Micawber possono assomigliare ai genitori di Charles. Dora un po’ alla mamma di David e a Mary, la tenera e disgraziata cognata di Charles.

I figli sono pezzi di cuore, si dice. Ma anche risorse da far crescere come un conto in banca. Tre situazioni.

David ama, riamato, Dora. Il padre intima loro di cessare di nutrire aspettative l’uno dall’altra, che, per la figlia ha ben altri progetti. Poi, inaspettatamente (per necessità di racconto), muore.

Emily ama Steerforth e scappa da casa per inseguire una comune sorte insieme a quell’ineffabile giovane. La madre di lui è annichilita. Il signor Peggotty, che è come un padre per lei, la va inseguendo per ogni dove (Francia, Italia, Alpi svizzere) per ricondurla serenamente all’ovile.

Uriah Heep ama, pur contorcendosi, e molto umilmente, Agnes, ma il padre di lui non solo non vuole, ma lo aggredisce verbalmente dicendogli di tutto. Lui, che più resiliente non può essere, assorbe i colpi, non cessando affatto di perseguire il suo (bieco) scopo, con tutta: “… la manifesta esultanza con la quale Uriah si torse e si contorse per farsi grande davanti a me. Mi fece male al cuore il vederlo, e alle mie mani ripugna scriverlo.”

Quattro storie, anzi: la mamma della fidanzata di Traddles “… la reverenda Horace Crewler… quando ne feci parola con ogni possibile precauzione alla signora Crewler, l’effetto su di lei fu tale, ch’ella mandò uno strillo e svenne. Non potei alludere all’argomento per mesi.” Il motivo è semplice: “Poiché Sophy era di tanta utilità nella famiglia, nessuno dei suoi familiari, capite, poteva tollerare il pensiero ch’ella potesse mai essere sposata. Infatti avevano stabilito assolutamente tra di loro ch’ella non dovesse mai sposarsi e la chiamavano la vecchia zitella…” anche Traddles è parecchio resiliente, in misura quasi esagerata.

Alla storia d’amore fra Dora e Doady (grazioso appellativo che la signorina ha creato per il suo appassionato) si aggiungono le due zie di lei, signorina Lavinia e signorina Clarissa, che non sono male, anzi, trattano bene il probabile futuro affine, anche se non mancano di parlare delle “… leggiere perché le chiamo, a paragone di tali sentimenti, leggiere… propensioni dei giovanissimi…” che non sono altro che “polvere rispetto alle rocce. Appunto per la difficoltà di sapere se è probabile ch’essi durino o abbiamo un qualche reale fondamento, mia sorella Clarissa e io siamo incertissime sul da farsim signor Copperfield…”

Le due sorelle sono, in genere, ma non completamente, solidali: “Credetti d’intuire che la signorina Lavinia avrebbe provato una straordinaria soddisfazione nel sovrintendere a due giovani innamorati come Dora e me, e che la signorina Clarissa avrebbe a stento provato minor soddisfazione nel sovrintendere a noi e intervenire nelle nostre conversazioni col suo particolare ramo dell’argomento ogniqualvolta quell’impulso avesse agito fortemente su di lei.”

Per spiegare meglio (non troppo): la signorina Lavinia “è versata in faccende di questa natura…” – in problemi amorosi (credo), mentre la signorina Clarissa lo è in tutto il resto (forse)…

“Se la mamma di Dora, – disse, – avesse subito detto, quando sposò nostro fratello Francis, che non c’era spazio per la famiglia alla tavola da pranzo, sarebbe stato meglio per la felicità di tutte le parti…”da cui deduco che chi parla, la signorina Clarissa, sia una specie di ministro degli interni, mentre la signorina Clarissa lo è della gioventù familiare.

Le due consolesse (non so perché mi è venuto di chiamarle così) dicono, anzi, lo dice soltanto la signorina Lavinia, ma in accordo con quanto preventivato insieme alla signorina Clarissa: “… avevamo stabilito, prima d’aver il piacere di ricevere voi due signori, di lasciarvi soli per un quarto d’ora perché rifletteste su questo punto. Permetteteci di ritirarci.” Anche se “dissi che nessuna riflessione era necessaria. Insistettero di voler ritirarsi per il tempo indicato perciò quegli uccellini uscirono saltellanti con molta dignità...” – più simili ad averle maggiori che a fringuelli.

Fu stabilito un patto inderogabile: Doady avrebbe potuto pranzare con loro (e con Dora) “ogni domenica, se la cosa è di suo gradimento. Andiamo a tavola alle tre.”. E durante la settimana? “… saremo liete di ricevere il signor Copperfield per il tè. Da noi si serve alle sei e mezzo.” – ma solo “due volte alla settimana”, ma “come norma non più spesso.”

Doady rivede finalmente quel tesorino graziosissimamente (per me) insopportabile di Dora, che gli dice di non riuscire a reggere la presenza del misero Traddles. “Quanto dev’essere stupido!

Pare che, almeno a suo dire, “era esattamente come era stata lei alla sua età: doveva essere cambiata moltissimo” – colpa della solita inarrestabile entropia, tranquillo.

La prozia di Doady fa la conoscenza di Dora (che era molto riluttante a riguardo): “la zia, con la quale ella era diventata gradatamente familiare, la chiamava sempre Fiorellino; e il godimento della vita della signorina Lavinia era quello di servirla, d’arricciarle i capelli, di fare ornamenti per lei e di trattarla come una bambina viziata. Va da sé che quel che faceva la signorina Lavinia lo faceva anche la sorella. Per me era una cosa stranissima, ma tutti sembravano trattare Dora, al suo livello, assai similmente a come Dora trattava Jip al livello di questo.” Quando Doady cerca di dirle: “non siete una bambina”, ecco che Dora gli dice: “Ora vi state adirando!” – e la cosa non può non recarle dolore! Tra i singhiozzi gli domandase ella non mi piaceva, perché mai avevo tanto desiderato fidanzarmi con lei; e perché non me ne andavo via ora, se non potevo sopportarla.”

Poi gli chiede quel famoso Libro di cucina che le aveva promesso. Lui, lo fa “graziosamente rilegare per farlo apparire meno arido e più invitante”. Nulla da fare. “… il Libro di cucina aveva fatto venire a Dora il mal di testa, e le cifre l’avevano fatta piangere. Queste non volevano sommarsi, ella disse. Perciò le aveva cancellate, disegnando mazzolini di fiori e ritratti di me e di Jip per tutte le tavolette” – Doady le aveva incautamente richiesto d’incominciare a impratichirsi dei bilanci domestici.

Alla domanda di Doady se, andando “a comprare una spalla di montone per il pranzo: sapreste come comprarla?” – lei rispose con accorta sagacia: “Ebbene, se il macellaio saprebbe come venderla, e che bisogno c’è che lo sappia io? Oh, che sciocchino che siete!” – beh, effettivamente… E “che cosa avrebbe fatto se fossimo stati sposati e le avessi detto che mi sarebbe piaciuto un bello spezzatino di montone, ella rispose che avrebbe detto alla domestica di farlo; e poi giunse le manine sotto il mio braccio e rise in maniera così affascinante da essere più deliziosa che mai.” Oh, non per difendere quell’indifendibile, ma io, a una domanda analoga un giorno seppi rispondere: Non so se sarei all’altezza di un grande chef, però sappiate che una volta l’ho visto fare…

Il quarantaduesimo capitolo è, non a caso, Malvagità e tratta, non a caso, di Uriah Heep. Charles-David inizia così: “Sento come se non stesse a me riportare, ancorché questo manoscritto non sia destinato ad altri occhi che non siano i miei…”

Caro Charles-David, crederei più se a dire una frase del genere fosse il protagonista della Macchina del tempo di H. G. Wells. Charles-David intende dire che “… a qualsiasi cosa mi sia dedicato, mi ci sono dedicato completamente; che nei grandi propositi come in quelli modesti ho sempre operato con assoluta serietà…” Ancora: “Non mettere mai una sola mano a qualcosa cui potevo gettarmi tutto, e non ostentare mai di disprezzare il mio lavoro, qualunque esso fosse: queste, scopro ora, sono state le mie regole auree.” – che valgono il doppio quando si vive in tempi di crisi.

Uriah Heep, protagonista di questo capitolo, inizia a sparlare di Maldon, che è poco simpatico anche a me, amico del dottor Strong, “farò quanto potrò pur di far cessare quest’amicizia”.

Dei suoi avversari egli non è solito provare pietà: “… e io mi ci afferro coi denti e con le unghie. Non devo lasciarmi mettere troppo sotto i piedi come persona umile. Essi devono scendere realmente dal carro, signorino Copperfield!”

Particolare quasi coreografico: “Uriah si fermò di botto, si mise le mani tra le grandi protuberanze dei ginocchi e si piegò in due per le risa. Risa assolutamente silenziose. Non gli sfuggì un suono. Provai una tale repulsione per il suo odioso modo di comportarsi, particolarmente per questo esempio conclusivo, che me n’andai senza alcuna cerimonia, e lo lasciai piegato in due al centro del giardino, simile a uno spauracchio bisognoso di sostegno.”

Dora incontra (molto timorosa) Agnes: “quando alla fine mi prese sottobraccio per essere accompagnata in salotto, il suo affascinante visino era soffuso di rossore e non era mai stato tanto grazioso. Ma quando entrammo nella stanza ed esso impallidì, ella fu diecimila volte più bella ancora.” – difficile dire, caro Doady, chi dei due sia il più ingenuo. La mia idea però ce l’ho.

“Ma quando la vide con un aspetto insieme così sereno e così serio e così riflessivo e così buono, ella mandò un gridino sommesso di compiaciuto stupore, pose immediatamente le sue braccia affettuose attorno al collo d’Agnes e appoggiò la sua innocente gota contro il viso di lei.” – per essere baciata, intuisco.

Dora chiederà poi al suo Doady se, avendola conosciuta prima, avrebbe “potuto essere più intelligente”. Doady, non puoi assolutamente fare a meno di scrivere (a te solo!): “Non avevo mai e poi mai voluto bene a Dora profondamente e sinceramente come gliene volli quella sera.” – Doady, ci sono mille modi per descrivere la tua condizione, alcuni sublimi e preziosi, altri da popolani villici della peggior specie. Quando c’incontreremo ne sceglierò uno rovistando tra i secondi.

David, Uriah incontrano il dottor Strong e il signor Wickfield. Uriah, candido com’è, non perde occasione per creare sofferenza in chi l’ascolta, dicendo apertamente “come tra il signor Maldon e la vezzosa e piacevole signora ch’è la moglie del dottor Strong vi sia del tenero eccessivo…”

L’anziano, che è forse la creatura dal sentire più alto finora incontrato nel romanzo, si addossa l’intera eventuale colpa: “A me altro non resta se non sopportare quanto più remissivamente potrò la consapevolezza dell’infelicità che ho provocato. È lei che dovrebbe muovere i rimproveri, non io. Il salvarla da un fraintendimento, da un crudele fraintendimento che persino i miei amici non sono stati capaci d’evitare, diventa mio dovere…” – e poi continua, ma diventa troppo doloroso riportare le sue considerazioni.

E David dà del mascalzone a Uriah e gli allunga una sberla: “vidi così chiaramente nella furtiva esultanza della sua faccia ciò che già così chiaramente sapevo, intendo dire ch’egli mi costringeva ad accogliere la sua confidenza appositamente per rendermi meschino, e m’aveva deliberatamente teso una trappola proprio su questo argomento, che non potei sopportare la cosa. L’intera sua guancia scarna m’era davanti in modo invitante, e io la colpii con la mano aperta con una forza tale, che le dita mi bruciarono come se me le fossi scottate.” – manco avesse schiaffeggiato il Diavolo. I due si fissano “per lungo tempo, lungo abbastanza per me da vedere le bianche impronte delle mie dita scomparire dal rosso profondo della sua guancia per lasciarvi un rosso più cupo.” Grandissimo resiliente di un Uriah!, quando dice a David: “… bisogna essere in due in un litigio. Io non voglio essere uno dei due.”

David, sempre più fuori di sé, lo manda al diavolo. Uriah gli consiglia saggiamente di non dire cose siffatte: “Se che poi ne sarete addolorato. Come potete farvi tanto inferiore a me da far mostra d’un animo così cattivo! Ma io vi perdono.” – non credo cristianamente; gli ripete poi il concetto che per litigare occorre essere in due.

“… non potete fare a meno d’essere perdonato. Non intendo parlarne a mia madre né ad anima viva. Sono risoluto a perdonarvi. Ma mi meraviglio che abbiate alzato la mano su una persona che sapevate tanto umile!” – ognuno combatte con le sue armi. Sono come due pugili, uno è un picchiatore, l’altro un guizzante serpentello: una volta vince Roberto Manos de pietra Duran, la volta seguente la vittoria arriderà a Ray Sugar Leonard.

“Venni a sapere ch’egli andò da un dentista di Londra il lunedì mattina e che si dovette far cavare un dente. Spero che fosse un dente doppio.” – troppo buono, il nostro David.

Umberto Eco scrisse L’elogio di Franti. Io tenterò ora la difesa d’ufficio di Uriah Heep, che una volta non ebbe vergogna di svelare a David le disgraziati origini dei suoi due genitori, che vivevano grazie alla pubblica assistenza. Questo, e tu David dovresti saperlo molto bene, è un mondo ingiusto dove chi non fa nulla è colmato di danarose sinecure, mentre a chi fatica come un ciuccio spetta una razione di cibo appena sufficiente (quando va bene) a sopravvivere. Sic transit iustitia mundi! Perciò ti dico, Uriah, ragazzo mio, che la tua è una (il)legittima difesa e pertanto non t’aspettare dal prossimo minor cattiveria di quella che tu sei in grado di offrire a lui. E ora desidero passare al capitolo successivo, sperando bene. Il quale s’intitola Un altro sguardo retrospettivo: “Ancora una volta consentite che mi soffermi su un periodo memorabile della mia vita. Lasciate che mi tenga in disparte a vedere i fantasmi di quei giorni passare con me, accompagnando l’ombra di me stesso, in processione distinta.” – ma non stavi scrivendo per te stesso, mio buon Charles-David?

La vita di David sta andando sempre più benino, quella di Traddles abbastanza di meno, però se la cava, dai.  “Mi sono rivelato sotto un’altra veste. Ho cominciato con angoscia e tremore la professione di scrittore. Scrissi segretamente qualcosuccia e la mandai una rivista, ed essa vi fu pubblicata, da allora mi sono preso l’ardire di scrivere moltissimi brani insignificanti. Adesso essi mi vengono regolarmente pagati. Nel complesso sono in buone condizioni finanziarie…”

Arriva il momento del suo matrimonio con “Dora!” – che, se non ti chiami Charles-David è meglio che rinunci a tentare di riprodurre la miriade di scene e scenette, con e senza cane, con e senza Dora, con e senza Agnes, zia Beatty, e le due sorelle Spenlow etc etc… occorre leggere l’intero enorme romanzo per riuscire a godere di queste adorabili piccinerie. M’avvedo ora che Charles D. e David C. hanno le iniziali speculari.

“Mi sono tenuto in disparte a vedere i fantasmi di quei giorni passare con me. Se ne sono andati, e io riprendo il viaggio del mio racconto.”

Il quarantaquattresimo capitolo, Il nostro governo della casa, conferisce a Dora il titolo di più graziosa e scarsa massaia della storia. Ce ne saranno state di più graziose e di più scarse, ma nessuna seppe unire queste sue due caratteristiche. Definii poco fa quel tesorino graziosissimamente (per me) insopportabile, ora mi sento di correggere il tiro: sempre e solo per me, Dora è insopportabilmente graziosa. Ella dà quasi assuefazione: com’è concepibile un mondo privo di quell’essenza dell’inutile pratica, ma anche di quell’infantilismo prodigo di sorrisi, baci e piccoli bisticci, che non sono assai gridati, ma che paiono incrinare per un attimo i sentimenti più puri ed eterni. Talvolta Dora chiama il suo Doady “ragazzaccio”, oppure “ragazzaccio crudele”. Al che lui rimane sbigottito e le grida: “Dora, tesoro mio!”

Dice la non più troppo né abbastanza caustica zia: “Questo è il matrimonio, Trot; e il cielo vi benedica entrambi, in esso, per quel paio di piccinini nella selva che siete!”

David offre sempre la guancia a qualsivoglia nomignolo, Doady per Dora, Trotwood per la signora Strong e per tanti altri, Trot per la zia, Margheritina per Steerforth, ma dove sarà mai in questo momento questo audace e ironico lazzarone?! E io stesso lo chiamo in tutti quei modi, ma soprattutto (quando è un io narrante) Charles-David…

“Avevo una gran mole di lavoro da compiere e avevo molte preoccupazioni, ma le medesime considerazioni me le facevano tenere per me. Sono lontano dall’essere sicuro adesso che fosse esatto agire a questo modo, ma lo feci per amore della mia moglie-bambina.” La quale non è una semplice creatura umana, ma ha qualcosa di magico e di spirituale: è qua ma è come se non esistesse, è la, ma è come se fosse qui, davanti ai nostri occhi: una Dama, con le sembianze di una Madonna, non con l’ermellino, ma con un acidulo e sempre abbaiante spaniel di nome Jip. Lei chiede, alludendo ai suoi occhi che a Doady paiono “tanto luminosi a mezzanotte!”, chiede, dicevo: “Sono lo stesso luminosi?”.  Non si tratta di una “piccola Vanità!” – che non lo è: “… era soltanto innocuo compiacimento per la mia ammirazione.”

Lei desidera illuminare la scrittura che lui sta producendo sulla carta, inseguendo una storia che ancora non esiste, e lei vorrebbe essere per lui una luce, forse anche una cometa, chissà: “ragazzaccio intelligente, non mi dimenticherete allora, mentre siete pieno di silenziose fantasie. Vi spiacerebbe se dico qualcosa di molto, molto stupido?… più del solito?”

Doady vorrebbe che la zia insegnasse a Dora i primi rudimenti della vita pratica, ma lei si rifiuta. È anche lei così innamorata di quella meraviglia che “non entrava mai dal giardino senza che, non avendola notata nella stanza, si mettesse a chiamare forte ai piedi della scala, con una voce che risonava allegramente per tutta la casa: ‘Dov’è il Fiorellino!’”

Anche chi ha la cervice durissima può perdere la testa quando incontra il sacro e non riesce a interpretarlo (non sarebbe sacro sennò).

Charles Dickens
Charles Dickens

Intanto Charles-David, fra una mansione legale e l’altra, continua a scrivere, cosa ancora non si sa, e al contempo ricorda. Quando si scrive di sé, del proprio passato più o meno occorso in questo truffaldino cosmo, si perde la distinzione fra il tempo che fu, quello che è e quel che sarà.

Tutte quelle vicende: “la dolcezza del modo di fare e dello stupore del dottore, la dignità che si fondeva col supplice atteggiamento della moglie, l’amabile premura del signor Dick e la sincerità con cui la zia disse tra sé: ‘Quel matto!’ (trionfalmente espressivo dell’infelicità dalla quale ella l’aveva salvato) io le vedo e le sento, più che non le ricordi, mentre le scrivo.”

Talvolta mi chiedo quale sia il termine giusto per indicare il momento in cui uno rivela se stesso per quello che è o quando si confessa a cuore aperto: credo che sia sempre agnizione, come il riconoscimento che avviene alla fine di un dramma. Alla fine del quarantacinquesimo capitolo, dapprima il signor Dick e poi Annie Strong svelano la loro essenza esistenziale. Il signor Dick esprime la consapevolezza di sé, affermando, senz’ombra di dubbio: “… io sono un sempliciotto” e dice che la zia “finge che non lo sia. Non vuol sentirne parlare, ma lo sono. So d’esserlo. S’ella non mi fosse stata amica, signore, io sarei rinchiuso e avei avuto una tetra vita in tutti questi numerosi anni. Ma provvederò a lei. Non spendo mai il denaro che mi frutta il copiare. Lo rispondo in una scatola. Ho fatto testamento. Lascerò tutto a lei. Sarà ricca. Grandiosa!”

Dick è un uomo semplice, uno che potrebbe brevettare un rasoio ancor più comodo da usare di quello di Occam. Zia lo sa, eccome, e lo utilizza quando deve prendere una decisione importante, oppure quando vuole l’avvallo per una decisione che ha già preso. Per esempio, quando, davanti ai due perversi (forse ho esagerato a chiamarli così, ma se lo meritano) fratelli Murdstone, chiede al signor Dick cosa avrebbe dovuto fare, al che questi, serafico, le dice che dovrebbe far fare un paio di pantaloni al ragazzo. E la zia allora ammette che era vero, era proprio la cosa più urgente da fare.

Il signor Dick e Dora non sono idioti, né sciocchi, ma sono incapaci di esistere senza il sopporto di qualcuno, ma entrambi posseggono i loro carismi che, a chi li ama, paiono unici e irripetibili, preziosi più di qualsiasi altro pur inclito tesoro.

Ora tocca ad Annie a partorire la sua verità, e non è uno sgravio facile. Per me sarebbe una presuntuosa follia cercare di sintetizzare il suo discorso, così come è stato scritto (per sempre) da Charles-David.

Parlando di Maldon, ammette che “da bambini eravamo stati piccoli innamorati. Se gli eventi non si fossero svolti diversamente, sarei potuta giungere a persuadermi che l’amavo realmente e avrei potuto sposarlo ed essere più infelice. Non può esistere nessuna disparità nel matrimonio come l’incompatibilità di pensiero e di proposito.” Tale concetto colpisce, ma lentamente, senza produrre disastri improvvisi, la mente di David: “meditai su quelle parole persino mentre stavo diligentemente prestando attenzione a ciò che seguì, come se avessero qualche particolare interesse o qualche strana applicazione che non riuscivo a indovinare.”

Annie confessa al compagno di vita, che conosce sin dall’infanzia, il suo sentimento: “… con tutta questa consapevolezza ora acquisita posso alzare gli occhi su questo caro viso, riverito come quello d’un padre, amato come quello d’un marito, a me sacro nell’infanzia come quello d’un amico, e solennemente dichiaro che nemmeno nel più lieve pensiero io v’ho mai fatto un torto, ho mai tentennato nell’amore e nella fedeltà che vi devo!” Non so perché, anzi, lo so ma non riesco a spiegarlo, le parole di Annie mi fanno venire in mente la dolcezza e la sincera lealtà da sempre manifestata a David da Agnes.

“Oh, tenetemi stretta al vostro cuore, mio sposo! Non mandatemi mai via! Non pensate né parlate di disparità tra di noi, perché non ve n’è nessuna, fuorché in tutte le mie molte imperfezioni. Ogni anno che andava succedendosi l’ho capito sempre meglio, come v’ho stimato sempre di più. Oh, prendetemi sul vostro cuore, mio sposo, perché il mio amore era fondato sulla roccia, e resiste!” Chi è più tetragona, quindi, Annie o Agnes? Che domanda instabile e insignificante! è come chiedere se sia più universale Charles-David o Fedor-Myskyn!

Il discorso di Annie è risultato eroico anche perché è stato continuamente interrotto dalla sua suscettibile madre, per cui “la zia disse con grande vigore” una grande e vera verità: “Sarebbe augurabilissimo che certe madri lasciassero sole le figlie dopo il matrimonio e non provassero un affetto tanto violento. Esse sembrano credere che il solo contraccambio che può essere dato loro per il fatto di aver portato una sventurata giovane donna nel mondo… Dio mi perdoni! come se questa avesse chiesto d’esserci portata o desiderasse venirci!… sia la piena libertà di tormentarla sino a farvela tornar via, che ne pensate, Trot?” Ma Trot stava in quel momentopensando a tutto ciò ch’era stato detto” e soprattutto ad “alcune delle espressioni ch’erano state pronunciate. ‘Non può esistere nessuna disparità nel matrimonio come l’incompatibilità di pensiero e di proposito’. ‘Il mio amore era fondato sulla roccia’. Ma eravamo a casa; e le foglie calpestate giacevano sotto i piedi, e il vento autunnale soffiava.” Ormai solo un miracolo oppure un’immensa disgrazia avrebbe potuto salvare il suo sodalizio con Dora.

Nel seguente capitolo, Notizie, David, a casa della madre di Steerforth, viene informato di quel che è successo ai due fuggitivi. A raccontare tutto dal “rispettabile signor Littimer”, che li aveva serviti durante le loro peripezie “in Francia, in Svizzera, in Italia… di fatto quasi da ogni parte.”

Littimer (persona dignitosa e al contempo infida) racconta dei primi screzi fra i due amanti e della risoluzione di James di abbandonare nei “paraggi di Napoli” un’Emily non più sopportabile per le sue continue depressioni e instabilità. Littimer narra tutto quel che sa con onestà e misurando le parole, ma quel che dice ferisce tanto David che non può fare a meno di dire, a un certo punto: “Potrei desiderare di sapere da questo… essere, – non riuscii a indurmi a proferire una parola più conciliante…” Al che quell’essere non può far a meno di dire: “… per quanto io vi sia sottomesso, ho anch’io la mia posizione, sebbene sia un servitore. Il signor Copperfield e voi, signorina, siete differenti persone, se il signor Copperfield desidera sapere qaulcosa da me, mi prendo la libertà di ricordare al signor Copperfield che può rivolgere a me una domanda. Ho una personalità da difendere…”

L’irruente signor Copperfield non sa mai gestire le sue emozioni e subisce il retaggio non solo dei suoi affetti, ma anche delle convenzioni borghesi, a cui non sa ribellarsi. Si tenga presente che il signor Littimer dice di essere “senza impiego e sarei felice se mi capitasse una situazione rispettabile.” – ma le sue accorate parole non sono forse nemmeno state udite dal signor Copperfield. Chissà che fine farà?

Ora James Steerforth, probabilmente “sta costeggiando la Spagna…” – mentre Emily o è morta oppure no, poco importa anche, se la signora Dartle non può fare a meno di dire “può essere viva… perché credo che talune cose vili siamo dure a morire. Se lo è voi, voi desidererete ritrovare una perla di tanto valore e prenderne cura…”

David corre a Londra a informare il signor Peggotty, che sta a ogni ora aspettando la sua figlia adottiva. Il pensiero di entrambi è per Ham che, dice, è “sempre lo stesso, ‘consumando la vita senza minimamente darci peso, ma senza mai protestare e benvoluto da tutti.’”

Il timore vero che accomuna i due amici è:che avrebbe fatto Ham se lui e Steerforth avessero mai dovuto incontrarsi.” E David si ricorda di quella “paurosa maniera con la quale guardò lontano sul mare, e parlò della ‘fine della cosa’.” Dice il signor Piggotty: “… l’acqua è lontana dall’essere bassa nella sua mente dove si trovano i suoi pensieri. È profonda, signore, e non posso vedere il fondo.”

David scorge un uomo che sta parlando animatamente nel giardino della casa della zia. Quando questi se ne va, dopo aver ottenuto soldi da lei, David le chiede chi sia quell’uomo che visibilmente l’aveva inquietata. La cara parente gli chiede dieci minuti di tempo per riprendersi e poi, in salotto: “Trot, – disse con calma la zia – è mio marito.” Alla fine del suo racconto: “Ecco fatto, caro, – disse. – Ora conoscete l’inizio, la parte centrale e la fine, e ogni cosa a riguardo. Non toccheremo l’argomento, tra noi, mai più, né, naturalmente, lo toccherete con nessun altro. Questa è la mia irritante, squallida storia, e ce la terremo per noi, Trot!” Te lo prometto anch’io, zia.

Alla fine del capitolo cinquantesimo, Il sogno del signor Piggoty s’avvera, Emily viene ritrovata in una casetta di Londra, dove viene portata via “priva di sensi” ma viva dallo zio, dopo che aveva dovuto subire varie violenze psicologiche da parte di Rosa Dartle, a cui assistono in parte David e l’amica Martha, che l’aveva condotto lì.

Rosa Dartle, che parla come solo una donna ferita può fare, chiede alla sua vittima: “… che cosa c’è in comune tra noi, dite un po’?” – ed Emily risponde: “Nulla, fuorché il nostro sesso…” Si tratta di una verità difficile da controbattere, ma anche da difendere. Lasciamola sospesa: in comune, però, le due hanno qualcun altro.

“Un pianto sommesso da parte d’Emily la interruppe a questo punto. Ella si fermò, e l’ascoltò come se fosse musica.”

La scena fra le due antagoniste è terribile come tante altre, ma l’intera faccenda non riesce a emozionarmi granché. E mi chiedo quale possa essere il motivo. Provo a rispondermi: le varie narrazioni di questa particolare vicenda non contengono quello che mi pare sia la caratteristica principale di Charles/David, che è la capacità di far parlare uomini, cose e paesaggi nella medesima lingua: la sua. I personaggi, gli ambienti e gli oggetti parlano a ogni istante in idioma dickensiano, interagendo fra di loro, pur mantenendo la propria esclusiva voce. I vari racconti delle vicissitudini di Emily e James Steerforth mancano di immediatezza e si finisce per leggerli con beneficio d’inventario, come se fossero notizie di cronaca, essendo utili a capire, ma non essenziali a rappresentare quella commedia umana che l’autore riesce a ogni pagina a rendere palpitante con la sua immortale penna. Sempre con beneficio d’inventario, Charles/David aggiunge (e io mi limito a trasmettere) che Ham non si sente di dover perdonare Emily, “… in quanto sono io a pregarla di perdonare me d’averla oppressa col mio affetto…”

Per finire la questione, il signor Piggotty, Emily e pure la signora Gummidge decidono di partire per l’Australia in cerca di un nuovo (chissà quanto assordante) silenzio esistenziale, anche se non si sa cosa vi troveranno. La più felice di tutte è l’ormai anziana vedova, che temeva d’essere lasciata sola. Charles-David pare davvero rivivere-trasformare ogni singolo momento, sempre più o meno cruciale, della sua tormentata seppur ineffabile esistenza.

Il cinquantaduesimo si intitola: Assisto a un’esplosione. Coinvolti e intrigati da un paio di misteriose lettere spedite a David e a Traddles rispettivamente dal signor Micaweber e dalla sua gentile consorte, i due amici, unitamente ai solo solidali (la zia e il fido Dick) si dirigono “alla vecchia casa, senza dire una parola lungo il tragitto.” Micaweber “ci precedette nella sala da pranzo, – la prima stanza in cui ero entrato in quella casa – e, spalancata la porta dell’ufficio ch’era stato un tempo quello del signor Wickfield, disse con voce sonora: ‘Miss Trotwood, il signor David Copperfield, il signor Thomas Traddles e il signor Dixon!” Sembra una prima teatrale che inizia con la presentazione finale degli attori, ma il meglio deve ancora venire. Per la cronaca, Dixon è Dick (“compiaciuto del suo nuovo nome”). E che i giochi abbiano ora inizio.

“Non avevo veduto Uriah Heep sin dal tempo del colpo. La nostra visita lo stupì, evidentemente, non meno per la ragione che, direi, essa stupì noi stessi. Egli non accostò le sopracciglia, perché non ne aveva di degne di menzione, ma s’accigliò a tal punto da quasi chiudere gli occhietti, mentre l’affrettato portarsi la macabra mano al mento tradì qualche trepidazione o sbalordimento.” Questo è il puro e inimitabile idioma di Charles-David.

Uriah si contorce al solito molto umilmente ma quando comincia a sospettare che qualcosa non gira come previsto da lui, le sue guance “si scolorirono, e un pallore malsano, ancora debolmente sfumato dal suo diffuso rossore le cosparse. Egli guardò attentamente il signor Micawber, con l’intera faccia che respirava corto e rapido in ogni lineamento.” Definisce il suo non troppo fido impiegato “individuo dissoluto”, pur “facendo uno sforzo per sorridere”.

Presto Uriah intuisce la verità e se la prende con il suo antagonista storico, a cui tanto umilmente si prostrava fino a poco tempo fa: “Oho! Quest’è una cospirazione! Vi siete dati appuntamento qui! State giocando al bottino col mio impiegato, non è vero, Copperfield? Adesso, badate. Voi non farete niente. Ci comprendiamo l’un l’altro, voi e io. Non c’è il minimo affetto fra noi due. Siete stato sempre un giovane vanesio con grosse ambizioni dal primissimo momento in cui siete venuto qui; e invidiate la mia ascesa, non è vero? Non riuscirà nessuno dei vostri stratagemmi contro di me; li neutralizzerò con i miei, Micawber, andate fuori. Con voi parlerò a momenti.” Dopo di cui, Micawber inizia una lettera accusatoria lunga e prolissa, e non potrebbe essere altrimenti, stante il relatore, contenente una trentina di HEEP!, a lettere cubitali, e presumibilmente gridati. I capi d’accusa sono tre: 1) HEEP “deliberatamente imbrogliò e confuse il complesso delle transazioni ufficiali”; 2) HEEP “ha, in parecchie occasioni, al meglio della mia conoscenza, informazione e convinzione, sistematicamente contraffatto, su varie registrazioni, libri e documenti, la firma del signor W…”; 3) a causa di HEEP “… le debolezze, gli errori, le stesse virtù, gli affetti tra parenti e il senso dell’onore dell’infelice signor W. sono stati per anni sottoposti all’azione e piegati ai bassi propositi di… HEEP.”

Heep non ce la fa più a fingersi umile e la mamma è preoccupatissima e grida: “Il mio Uriah intende essere umile!” – e poi aggiunge: “Non badate a quello che dice, miei buoni signori!” Ormai per Uriah la vita è civilmente e penalmente traballante. Al termine di questa penosissima (e catartica) solfa, la zia (che tra l’altro vuole indietro da Uriah tutti i suoi soldi che lui si è indebitamente intascato: “… ora so che quest’individuo ne deve rispondere, e io li riavrò! Trot, venite a portarglieli via.”) propone al signor Micawber di aggregarsi al signor Piggotty nel suo viaggio verso l’Australia. Pare che l’estroso individuo accetterà il consiglio. Si tratta alla fine di una più che strategica fuga.

Nel mesto capitolo cinquantatreesimo, Un altro sguardo retrospettivo, succedono due fatti: Jip “s’accuccia ai miei piedi, s’allunga come per dormire e, con un grido lamentoso, muore”; “…Quel viso così pieno di pietà e di dolore, quella pioggia di lacrime, quel terribile e muto appello a me, quella mano solenne levata verso il Cielo!” Addio Jip, addio Dora… Oppure: alla prossima!

“È finita. Si fa buio davanti ai miei occhi; e, per un certo tempo, ogni cosa è cancellata dal mio ricordo.”

John Keats - particolare del ritratto da William Hilton
John Keats – particolare del ritratto da William Hilton

Charles-David non è, come spesso si è detto, lo scrittore della bontà, e non lo è neanche della grande bellezza. Lo è però della piccola. Lo è del bene, di cui la bellezza è la minuta figlia, dal latino bènus, bènulus, bènlus, e quindi bèllus. Dora non era, come dissi poco sopra, bellissima, ma estremamente graziosa (anche più di Agnes) ma, come la madre di David, come Mary, la cognata tanto amata da Charles, era (mi si permetta il termine campano che dà più di tutti l’idea) bellilla, portatrice di bei sogni d’amore. Era ed è, se il detto di Keats vale sempre (e come potrebbe essere altrimenti?): a thing of graciousness is a joy for ever!

“Quando l’Angelo della Morte si posò là, la mia moglie-bambina s’addormentò, – così mi fu detto quando potei reggere a sentirmelo dire, – sul petto di lei con un sorriso.”tutto muore bene quel che vive a modo suo.

Uriah Heep intanto scappa con la madre e si presume che andrà ad attecchire da qualche altra parte: “Egli è tale un ipocrita personificato, che, quale che sia l’obiettivo che persegue, egli deve perseguirlo tortuosamente. Quest’è l’unica sua compensazione ai freni esteriori che impone a sé. Sempre avanzando strisciante sul suolo verso questo o quel piccolo fine, egli vorrà sempre ingrandire tutti gli oggetti in cui s’imbatterà sul suo cammino; e perciò proverà odio e sospetto per chiunque si frapporrà, nella maniera più innocente, tra lui e quel fine. Così, i modi di procedere tortuosi diverranno sempre più tortuosi per la minima ragione o per nessuna. Basta soltanto considerare la sua storia qui, – disse Traddles, – per saperlo.” È come quella celebre particella che ne deve fare d’impennate impensabili se vuol arrivare alla meta! Buon viaggio, amico, e che il Diavolo ti assista!

In un romanzo la morte è un momento come un altro, ma infinitamente più significativo. Il che pare e forse è una contraddizione, ma anche la candida vita lo è, figuriamoci la sua nera compagna.

Sintesi del capitolo cinquantacinquesimo, che porta Tempesta: una nave viene dalla Spagna, Ham, a sprezzo del pericolo, tenta l’impossibile, cioè salvare un naufrago che, per caso, è Joseph Steerforth. I due, aspirante salvatore e corrispondente salvato, si elidono a vicenda, ognuno per conto proprio!

“Vidi nel mare alcuni mulinanti frammenti, come se si fosse rotto un semplice barile, che correvano verso il punto in cui stavano tirando. La costernazione era su ogni viso. Lo trassero proprio ai miei piedi… privo di sensi… morto….”  Intanto David chiedeè forse venuto a riva un corpo?” – qualcuno dice di sì, ma non risponde alla domanda: “Io lo conosco?” Egli “non rispose nulla” – non so perché.

“… vidi lui che giaceva con la testa sopra il braccio, come l’avevo spesso veduto giacere a scuola.”

David sa che, nel successivo e cinquantaseiesimo capitolo che un giorno scriverà, La nuova ferita e quella vecchia, dovrà recare la ferale notizia alla madre di Steerforth. Ovviamente s’imbatte in Rosa Dartle: “Dal primo momento in cui i suoi occhi scuri si posarono su di me, capii che ella sapeva ch’io ero apportatore di cattive notizie. La cicatrice spiccò alla vista in quell’istante” Era il marchio che James Steerforth le aveva impresso tantissimi anni prima e che lei custodiva ormai come un tesoro.

Una minuscola bruttezza Rosa stava coltivando dentro di sé, e da troppi anni. Scoppiò come capita a un vulcano: “Sono stata zitta in tutti questi anni, e non dovrò parlare ora?. Io l’ho amato più di quanto l’abbiate mai amato voi! – disse, rivolgendosi a lei, con furore. – Avrei potuto amarlo senza chiedere d’essere contraccambiata, se fossi stata sua moglie, avrei potuto essere la schiava dei suoi capricci per una parola d’amore all’anno…” Brutto deriva da brutus, tardo, grave, immoto, ciò che rallenta e tende ad annullare il movimento della vita. Amante lo fu, ma in modo intermittente, a secondo dei capricci di Joseph, che ogni colta che la coglieva, subito dopo la posava per terra. E lì rimaneva, inerte, fino alla volta successiva.

“Mi ridussi… come avrei potuto saperlo, se non fosse stato ch’egli m’affascinava col suo corteggiamento fanciullesco… a essere una bambola, una cosa di poco conto per l’occupazione di un’ora d’ozio, destinata a essere lasciata, e raccolta, e con cui baloccarsi, come glielo avesse dettato il suo incostante capriccio.” Si chiede la poverella: “Chi prova qualcosa per me?” – e poi s’accanisce di nuovo contro la vecchia: “Questa ella ha seminato. Lasciatela genere per il raccolto che miete oggi!”

L’eroe egoista e magnanimo, il suo ormai inutile corpo intendo, fu deposto “in camera della madre…”, la quale “giaceva come una statua, eccetto che di quando in quando per il debole suono.”

L’atto definitivo di James Steerforth fu compiuto: “Sollevai l’inerte mano e la tenni sul mio cuore; e tutto il mondo parve morte e silenzio, rotti soltanto dal gomito di sua madre.” – intanto io vado a letto e, dopo un nero caffè, passo a leggere il capitolo che sta sopraggiungendo, Gli emigranti.

Il signor Micawber è l’eroe del romanzo, ma solo quando è in scena o si parla di lui.  Traddles gli imprestò alcuni dei suoi pochi soldi e lui glieli ha sempre restituiti con la semplice promessa (ovviamente scritta in ogni suo dettaglio) di restituirgli un giorno che prima o poi verrà “a completa liberazione del suo debito (come tra uomo e uomo), con molti ringraziamenti.” – l’ultima volta che succede è sulla nave.

In poco tempo il signor Micawber viene arrestato varie volte sempre a seguito di denuncia da parte del signor Uriha Heep (anzi: HEEP!) e subito rilasciato, mercé il doveroso pagamento effettuato da David della relativa cauzione. La signora Micawber meglio di tutti può definire il marito per quello che è: “… so anche cos’è il signor Micawber. Conosco la forza latente del signor Micawber…” – che si manifesta, sempre vittoriosamente, solo ogni tanto, com’è capitato durante il suo duello con Uriah HEEP.  La signora Micawber è così convinta che il suo grande marito saprà conquistare nel Continente Novissimo tanta gloria da poter tornare in patria come un Signor Qualcuno: “Il signor Micawber può essere… non posso nascondermi che con tutta probabilità il signor Micawber sarà… una pagina della Storia, ed egli dovrà essere quindi rappresentato nel paese che gli diede i natali e non gli diede un impiego!” – la cosa paradossale che fu proprio solo Uriah HEEP a concedergliene uno!

Dopo l’ultimo arresto, prontamente annullato con un versamento di denaro, “per causa intentata da Heep”, la nave parte, col suo carico variegato umano “da poppanti che avevano soltanto una settimana o due di vita dietro di sé, a curvi vecchi e vecchie che sembravano avere soltanto una settimana o due di vita davanti a sé, e da contadini che corporalmente si portavano fuori suolo d’Inghilterra sugli stivali, a fabbri che si portavano via campioni della sua fuliggine e del suo fumo sulla pelle, ogni età e ogni occupazione sembravano essere stipate nello stretto spazio tra i ponti.” e forse anche qualche formica (direbbe il mirmecologo Edward O. Wilson) e magari qualche vispa e prolifica coppia di coniglietti.

David riceve una missiva da Agnes: “Lessi la sua lettera più volte”. Le risponde: “Le dissi che avevo provato un estremo bisogno del suo aiuto; che senza di lei io non ero, e non ero mai stato, ciò ch’ella mi giudicava; ma ch’ella m’ispirava a esserlo, e che avrei tentato.” Questa (apparentemente?) placida donna in realtà funge da catalizzatore, o anche da enzima per cui le reazioni possono finalmente realizzarsi e produrre i cambiamenti.

“Tre anni erano trascorsi dalla partenza della nave degli emigranti, quando, alla stessa ora del tramonto e nello stesso luogo, io stavo sul ponte della nave postale che mi riportava a casa, intento a guardare la rosea acqua dove avevo vista riflessa l’immagine di quella nave.”

Va a trovare Traddles, che è sommerso dalle sorelle della moglie, ma pare così contento della sua nuova condizione: “erano tutte graziose, e la signorina Caroline era bellissima; ma c’era nei luminosi sguardi di Sophy un che d’amorevole, d’allegro e da angolo del focolare ch’era migliore di questo e che m’assicurò che il mio amico aveva scelto bene.” – un’altra anima che ha finalmente trovato il suo pezzetto di paradiso.

David incontra e si fa riconoscere dall’ormai anziano dottor Chillip, che l’aveva visto nascere. Costui ha conosciuto anche il signor Murdstone e sorella, e prova per loro sentimenti non piacevoli. Narra a David come abbiano smontato pezzo per pezzo la mente della seconda moglie di quel tanghero, la persona più odiosa del romanzo: un misto di stupidità e d’insensibilità. Quando, come ho già riportato, a pagina 510 del capitolo ventiseiesimo, la signorina Murdstone incontra David, pur accennando a “ricordi di passate controversie o di passati oltraggi”, ha persino la malvagia furbizia di simulare un affetto inesistente.

Più schietto ma non meno ignobile, appare il signor Murdstone quando, a sua volt, a pagina 500 del trentatreesimo capitolo (secondo tomo) dice: “Non è probabile che ci si torni presto a incontrare… Questo sarà indubbiamente una fonte di soddisfazione per entrambi, poiché incontri come questi non possono mai essere piacevoli. Non m’aspetto ora da voi, che vi siete sempre ribellato alla mia giusta autorità esercitata per il vostro bene e per il vostro emendamento, una doverosa benevolenza…” – e poi c’è un penosissimo scambio di battute che vale la pena di leggere, ma non di riportare. Il signor Murdstone fonda il suo ragionamento sulla propria giustezza, contrapposta all’altrui incongruenza. Quel che lo rende così antipatico è l’apparente mancanza di spirito critico in genere e non solo di quello autocritico. La prodiga zia salvò David dalla miseria umana, a cui lui l’avevo condannato. Eppure lui giudica ingiusta la mancanza di riconoscenza da parte del giovane. L’ho definito persona odiosa e mi domando: lo vorrei uccidere, potendo? No, di certo. Mi limiterei a fortemente desiderare la sua morte. E non so se faccio per dire. Di fatto il signor Murdstone è uno sciocco batterio reso malvagio dal sagace virus rappresentato dalla virulenta sorella: insieme sono in grado di debilitare qualsiasi creatura che sia priva di anticorpi.

Contrapposta a questo duo di esseri mefitici e nauseanti, c’è la salvifica e inebriante Agnes. Così David dice di lei: “Nulla di ciò ch’è buono è difficile per voi.”

Il padre di lei dice a David: “‘Ma nessuno sa, nemmeno voi, – egli rispose, – quanto ella ha fatto, quanto ha sopportato, quanto duramente ha combattuto. Cara Agnes!’”

Il capitolo sessantunesimo, Mi vengono mostrati due interessanti penitenti, è fra i più spassosi. Il buon, ehm, signor Creakle (quell’immondo e scricchiolante aguzzino del collegio) ha fatto carriera. Ora “è magistrato nel Middlesex”. David lo comunica a Traddles, che non si mostra sorpreso del fatto. I due vanno a trovarlo: “Egli mi ricevette come chi m’avesse formato la mente negli anni che furono e m’avesse sempre amato teneramente. Quando gli presentai Traddles, il signor Creakle espresse in modo analogo, ma in grado inferiore, ch’egli era sempre stata la guida, il filosofo e l’amico di Traddles. Il nostro venerabile istruttore era invecchiato moltissimo e non migliorato nell’aspetto. Il viso era più feroce che mai, gli occhi erano non meno piccoli e alquanto più incassati…” Con una certa qual fierezza, Creakle presenta a quei suoi ragazzi “il Numero Ventisette” del carcere da lui nobilmente gestito. Era questi “il prediletto” e “un prigioniero modello”. Anche “Ventotto” non era male, ma non reggeva al suo confronto.  Chi potrà essere questo portento d’uomo in corso di resurrezione?!: “… se non Uriah Heep!” Ma che ci fa lì?! Mi pare si tratti di delitti finanziari a danni di una banca, o più o meno.

“Egli ci riconobbe subito; e disse come uscì… col vecchio contorcimento: ‘Come state, signor Copperfield? Come state, signor Traddles?  Alla domanda. fattagli dallo scricchiolante, di come stia, egli risponde da par suo: “Sono umilissimo, signore!”

Si dovrebbe inventare un termine nuovo che sostituisca l’ormai abusato e semi-esausto resilienza.

Il Ventotto? Ma è Littimer! Che osa lamentarsi di un fatto increscioso (si stava parlando della cioccolata che viene offerta ai reclusi): “Se m’è dato di prendere la libertà di dirlo, signore, non credo che il latte che vene bollito con essa sia del tutto genuino; ma m’è noto, signore, che v’è grande adulterazione del latte a Londra e ch’è difficile procurarsi il prodotto in uno stato di purezza.” – sarà anche un lestofante, però di classe, più sostenuto dal “signore con gli occhiali” che da Creakle, che visibilmente favorisce Heep, il quale ammette che sì, prima di giungere in quel luogo, “m’ero dato alle stravaganze; ma ora sono consapevole delle mie stravaganze. V’è una quantità di peccato fuori di qui. V’è una quantità di peccato in mia madre. Non v’è altro se non peccato dappertutto… fuorché qui.”

Heep, molto educatamente e umilmente, accusa impietosamente David: “Voi mi conoscete quando, a dispetto delle mie stravaganze, io ero umile tra coloro ch’erano orgogliosi e mansueto tra coloro ch’erano violenti… voi stesso foste violento con me, signor Copperfield. Una volta mi colpiste in faccia, sapete.” – lo posso confermare!

“Io perdono a tutti. Mi s’addirebbe male portare livore. Io vi perdono liberamente e spero che porrete un freno alle vostre passioni in futuro. Spero che il signor W. si pentirà, e la signorina W., e tutti gli altri di quel mucchio di peccatori…” – e invita ciascuno di loro “di venire qui”, insomma “che possiate essere arrestati e portati qui.” – Amen!

Nel capitolo successivo, Una luce splende sulla mia vita, è quasi ora di trarre i remi in barca e di pensare al futuro come a un momento di relativa quiete. David è, come capitò a Charles, uno scrittore affermato. Zia gli dice: “Non avevo mai pensato, quando solevo leggere libri, che lavoro fosse lo scriverli.” David ammette che anche leggere è un lavoro, ma “quanto allo scrivere, esso ha il suo fascino, zia.”

Leggere è smontare ogni singolo elemento che lo scrittore si era preso la briga di erigere, uno sull’alto, fino a formare una torre, o qualsivoglia costruzione. È riporre i vari mattoncini in fila, al fine, chissà quando, di ricostruire un altro monumento. Ogni scrittura lo è, e ogni lettura reca a questa logica che non è dissimile a quella che ispira l’opera misteriosamente sconvolgente e riavvolgente di Śiva e Visnù.

A proposito di misteri, dice Agnes: “Se talvolta sono stata infelice, il sentimento è scomparso. Se ma ha avuto un peso sul cuore, esso è stato alleviato per me. Se ho un segreto, esso… non è un segreto nuovo; e… non è ciò che supponete. Non posso palesarlo o condividerlo. Esso è stato da lungo tempo mio, e deve rimanere mio.” – certo, mia cara, tu devi solo orientare il tuo uomo, e dargli energia.

Dice David, parlando della sua ormai estinta e sempre adorata moglie: “Quando l’amai… anche allora il mio amore sarebbe stato incompleto senza a vostra comprensione. Io l’ebbi ed esso fu completato. E quando perdetti lei, Agnes, che cosa sarebbe ancora stato di me senza di voi!” Se non avesse amato Agnes, cosa ne sarebbe stato del suo amore per Dora?

Quale potrebbe essere il passo più bello di quest’assurdamente immenso romanzo? Non posso dirlo, né se lo potessi vorrei farlo. Significherebbe definire secondo o terzo qualsiasi altro brano. Si tratta di un libro monolitico e come un dolmen infinito si staglierà per sempre nella mia memoria.

Quale potrebbe essere quello più lieve? Non ha senso nemmeno questa domanda, per cui mi va di rispondere, trasgredendo il mio soltanto apparente buon senso (Inizio del quindicesimo capitolo, intitolato Ricomincio daccapo):

“Il signor Dick ed io diventammo presto i migliori amici, e molto spesso, quando il suo lavoro giornalmente era compiuto, uscivamo insieme per far volare il grande aquilone.”

Scopro, a pagina 542 (a quattro dalla fine che forse Charles-David mi ha sentito e voluto emulare (ironizzo sulla celebre frase di Borges: Ogni scrittore crea i suoi predecessori): “Tra i miei maschietti, in questo periodo di vacanze estive, vedo un vecchio che fa giganteschi aquiloni e che li guarda in aria con un diletto per il quale non vi sono parole…” – e quindi poniamo qui fine al nostro sempre più stremato dire.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Charles Dickens, David Copperfield, Club del Libro, De Agostini, 1969

 

Info

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Un pensiero su ““David Copperfield” di Charles Dickens – Tomo II: leggere è smontare pezzo per pezzo l’anima altrui

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