“La città di vapore” di Carlos Ruiz Zafón: il destino che forgia l’essenza di un uomo

Al turista compulsivo io consiglio di andare a Palermo e di cercare, nel suo centro più centro, Piazza dei Quattro Canti, stupenda come poche altre che mi è capitato di ammirare nella mia vita. Era tutto così splendido! Eppure non mi sentivo ancora soddisfatto.

La città di vapore di Carlos Ruiz Zafón
La città di vapore di Carlos Ruiz Zafón

Poco prima che partissi, un caro amico (di cui eterno ora il nome: Francesco) m’aveva avvisato: quando sarai in quella celebre piazza non accontentarti, quattro canti sono tanti, ma non sono abbastanza! Per questo ne hanno aggiunto un altro, più piccolo, meno maestoso, ma essenziale per comprendere meglio gli altri quattro. Perché, gli chiesi? Non mi rispose.

Mi sedetti quel giorno presso un tavolino di un bar e ordinai una granita al gelso. Mentre la stavo sorbendo, notai il nome dell’esercizio: Quinto Canto. Accanto c’era la chiesa dei Teatini, a ridosso del quale fu realizzato quell’ultimo Canto.

Mi auguro che lo stessi capiti con questo libretto di raccontiLa città di vapore”, che l’autore Carlos Ruiz Zafón approntò quando sentiva che la sua parabola umana stava per giungere al culmine.

Il primo narra di David Martín, il futuro grande scrittore, la cui storia è descritta in un paio di libri della tetralogia. È un ragazzino che per caso incontra Blanca, una sua coetanea e se ne innamora. E lei diventa la sua musa ispiratrice, inizia a immaginare racconti per poterla sorprendere e per continuare a comunicare con lei, che appartiene a Sarriá, un quartiere sfarzoso della città, di cui “perfino un sempliciotto come me aveva sentito parlare.”

Inizia a narrarle una favola. Ma lei lo avverte che odia le principesse. Al che lui inizia: “Be’, c’è una principessa… però è molto cattiva…” Per cui, “il viso le si illuminò” e gli chi chiese: “Cattiva quando?Lei se ne va, ma poi si rivedono, si riperdono, si ritrovano, si riperdono.

Ogni tanto però i due si ritroveranno, anche se soltanto in sogno.

Bianca e l’addio che non ci fu mai è la prova che l’amore è eterno, come tutte le cose, finché non sparisce per un attimo, per poi trasformarsi subito dopo in qualcos’altro.

Nel secondo racconto, David ricorda la donna Senza nome che lo partorì, pur senza averla mai conosciuta, se non nei racconti di un altro. E quello che non ha mai saputo da nessuno, lui lo narra guardando dentro di sé. E lo fa accadere per sempre: a thing of sadness is a joy for ever!

Il terzo racconto parla di Una signorina a Barcellona. Il primo rigo è terribile: “Laia aveva cinque anni la prima volta che suo padre la vendette.” Il padre, un fotografo fallito, si chiama Eduardo Sentís, che per tanti motivi è diventato povero e senza mezzi per sfamare sé e la propria bambina. La povertà diventa poi miseria umana e allora non c’è più speranza.

“Ogni mese Laia riceveva la visita di un uomo maturo e dall’aria vinta, che suo padre chiamava il dottor Sentís”, un omonimo, a quanto pare. Il mestiere di Laia pare a prima vista assurdo: cercare, a pagamento, di imitare la vita di una persona che è scomparsa, causando a qualcuno il dolore più lancinante. Il padre di Laia “aveva sentito che il dottore aveva perso una figlia, di nome Laia, di soli quattordici anni…” – un’altra omonima. E il fotografo “tentò di prestargli, senza farsi pagare, i talenti di sua figlia.”

La storia non si può capire, si può però circondare e ammirare senza tentare di comprenderla.

“Passarono così tre anni durante i quali il vecchio dottor Sentís si spegneva settimana dopo settimana, fino a quel giorno di pioggia in cui io la seguii fino a casa del dottore e Laia ricevette la notizia che suo padre, l’unico che avesse avuto, era morto quella notte con il suo nome sulle labbra.”

Io sono dentro a quell’io, tu, amico mio sconosciuto?

Giunge al porto della città una nave misteriosa con un solo passeggero, un tale di nome Edmond De Luna, che era quasi cadavere e che fu “trovato al timone e quasi bruciato dal sole.”

Il suo misterioso quadernovenne consegnato al grande inquisitore Jorge de Léon, brillante e ambizioso paladino della Chiesa, il quale confidava che il proprio impegno per la purificazione del mondo gli avrebbe procurato presto la condizione di beato, santo e viva luce della fede.”

Anche per questo mandò a cercare un certo “Raimundo de Sempere, che aveva una modesta bottega accanto alla porta di Santa Ana e che, avendo viaggiato in gioventù, conosceva più lingue di quante fossero consigliabili per un cristiano per bene.” – e quindi quasi colpevole già in partenza.

Il quaderno narrava la vita errabonda di Edmond sempre “in cerca di prodigi e avventura”.

L’imperatore Costantino gli aveva chiesto di progettare “il più grande labirinto mai creato, una biblioteca segreta, una città di libri nascosta sotto le catacombe della cattedrale di Santa Sofia, dove i libri proibiti e i prodigi di secoli di pensiero potessero essere preservati per sempre.” – che è il desiderio di ogni pazzo o sognatore che si rispetti.

“Quando Sempere finì di tradurre il quaderno, la prima luce dell’alba spuntava tra le nubi. Poco dopo l’inquisitore, senza dire una parola, lasciò la stanza e due sentinelle entrarono a prenderlo per condurlo in una cella da cui ebbe la certezza che non sarebbe mai uscito vivo.”

Poi accade un orrido miracolo che conduce il rio inquisitore dapprima “a ridere” e poi a trasformarsi in un essere malefico che seminò il panico nella città intera.

“Quella notte Raimundo de Sempere riuscì a fuggire dalla cella e a tornare a casa per scoprire che la sua famiglia e la bottega erano sopravvissuti alla catastrofe.”

Morale della favola: Una rosa di fuoco può bruciare, oppure soltanto scaldare i cuori.

“Un sole ferito di scarlatto si immergeva nella linea dell’orizzonte quando il gentiluomo Antoni de Sempere, che tutti chiamavano l’artefice dei libri, si arrampicò in cima alla muraglia che sigillava la città e avvistò da lontano il corteo che si avvicinava. Correva l’anno di grazia 1616…”

Il nuovo racconto narra di un aspirante scrittore di nome “Miguel de Cervantes Saavedra”.

Miguel era “un giovane hidalgo di quella di penna e spada” che montava “un famelico ronzino che ormai riusciva a stento a reggersi sulle zampe dopo aver galoppato per vari giorni.” Era con lui “Francesca di Parma”,una ragazza il cui viso si sarebbe detto rubato dalla tela di uno dei grandi maestri.” Un certo “Sancho Fermín de la Torre” aveva avvisato del loro arrivo l’artefice dei libri e “si era offerto di buona volontà di guidarli in cambio di qualche moneta.”

Cervantes “raccontò, poiché nelle sue vene scorreva il vino della narrazione e il cielo aveva voluto che fosse una sua pratica raccontare prima a se stesso le cose del mondo per poterle comprendere e poi raccontarle agli altri, vestite con la musica e la luce della letteratura, perché intuiva che se la vita  non era un sogno era almeno una pantomima, dove la crudele assurdità del racconto fluiva sempre dietro le quinte, e none esisteva tra cielo e terra vendetta più grande e più efficace che scolpire la bellezza e l’ingegno a colpi di parole per scoprire il senso nel non-senso delle cose.”

Il quale è un lungo discorso che più sconnesso e più che connesso all’essenza delle cose, qualunque cosa sia, non vi potrà mai essere.

Cervantes spiega al consapevole ed ignorante Sancho: “La commedia ci insegna a che la vita non bisogna prenderla sul serio e la tragedia ci insegna cosa succede quando non diamo retta a ciò che la commedia ci insegna”.

Sancho poche cose conosce, ma le sa gestire molto bene. Quando il povero e ricco aspirante letterato gli mostra i suoi denari, gli dice: “Per Dio, maestro, non metta in mostra qui queste raffinate carni, perché da queste parti abbondano ruffiani e macellai che taglierebbero la gola a lei e a noi soltanto per annusare il profumo di questi dobloni.”

Sancho è così illetterato che, quando parla, lo ammetto, non lo capisco sempre. Dice: “L’amore è l’unica pietra che inciampa sempre nello stesso uomo”.

In fondo è vero, perché ogni volta che mi è capitato mi sono sempre detto: perché sempre a me, dio bonino. Che non è una bestemmia, né un’invocazione, ma una necessità psicologica.

Grazie a un bicchiere di vino di troppo, che “rende sinceri gli uomini quando meno ne hanno bisogno e infonde loro coraggio quando dovrebbero rimanere codardi”, Cervantes iniziò “a raccontare la storia nella storia, ciò che gli assassini e i pazzi chiamano la verità.

Non esiste storia che non ne racchiuda un’altra un po’ più piccola, racchiusa da un’altra un po’ più grande, dipende da quale lato lo vedi, tanto qualsiasi frattale è un’illusione che sa affascinarti.

La narrazione è miracolosa, ma non ne voglio parlare, tanto è lì, nel quinto canto di Carlos Ruiz Zafón. Da essa traggo soltanto una perla: “I genitori, due anziani prematuri che affermavano di averla concepita nell’autunno delle loro disgrazie, non erano altro che una coppia di meschini commedianti che avevano trovato la piccola Francesca piangente nel grembo ancora tiepido della sua vera madre, una ragazza senza nome morta dando alla luce una creatura sotto gli archi dell’antico pone di Castel Sant’Angelo.”

Carlos Ruiz, è l’ennesima volta che nei tuoi racconti una creatura sortisce da un cadavere. Che sia un destino degli umani in genere? Quando una donna partorisce, finisce di vivere come prima e per lei, e si spera anche per il papà, inizia una nuova esistenza di mamma. E forse ora capisco pienamente le parole che disse la signora Angelina quando vide mio figlio di pochi mesi: da nu poco ‘e schifezza nasce a criatura.”

Cervantes per gran parte della vita nutrì invidia per il celebratissimoLope de Vega, al quale la fortuna e la gloria non cessavano di arridere e che raccoglieva successi senza precedenti fin dalla prima giovinezza, mentre lui non riusciva quasi ad abbozzare un verso che non facesse vergognare la carta su cui era scritto.” Chi non ha mai patito simili umiliazioni esistenziali getti il primo boccetto d’inchiostro!

Ma ora c’era Francesca insieme a lui e… arrivò a intuire che “Dio aveva abbandonato la bellezza di Francesca di Parma nelle mani degli uomini per ricordare loro la bruttezza delle loro anime, la meschinità dei loro sforzi e la ripugnanza dei loro desideri.” Il pensiero è troppo malefico per non essere parzialmente vero…

“Passava le notti sveglio frustando l’immaginazione e tendendo le corde dell’ingegno fino allo stremo, e tuttavia, all’alba, rileggeva i suoi fogli e li consegnava al fuoco, perché sapeva che non meritavano di condividere la luce del giorno con la creatura che li aveva ispirati e che si consumava lentamente”

In quell’Eterna città Francesca conduceva la sua mesta vita con un certo Giordano, pittore ugualmente innamorato di lei e che non era mai riuscito a ritrarla come meritava.

Intanto un certo Leonello riconosce in Cervantes una promessa della letteratura (difficile da mantenere, però). E lo manda da un certo Andreas Corelli, di cui mi pare che Carlos Ruiz abbia già detto qualcosa.

Appena Andrea lo incontra gli fa una sorprendente profezia. “Un giorno lei scriverà un capolavoro…” e poi piglia il suo manoscritto e lo getta nel fuoco.

Per consolarlo gli dice:A volte uno scrittore deve bruciare mille pagine prima di scriverne una che meriti di recare la sua firma. Lei è appena agli inizi. La sua opera la attende alle soglie della maturità.”

Finché si scrive c’è sempre un residuo di speranza di gloria! Gli offre la possibilitàdi scrivere un’opera alla sua altezza, e alla mia.”

L’argomento dovrà essere quello che il lettore (io, fra i tanti, ma non certo l’ultimo) ha intuito.

Perché l’uomo scrive della donna? Forse intende in questo modo tentare di avvicinarsi alla sua anima che tanto pare difforme, senza esserlo davvero, dalla propria.

Se gli anni passano, i manoscritti restano, pur celati. Anche dentro un sarcofago, se questo serve a eternare la bellezza.

“Anni dopo, nel suo letto di morte, il vecchio Sampere avrebbe raccontato come in quell’istante avesse creduto di vedere Andreas Corelli spargere una lacrima che, colpendo la tomba di Cervantes, si era trasformata in pietra. Aveva allora saputo che sopra quella roccia avrebbe cominciato a costruire un santuario, un cimitero di idee e invenzioni, di parole e prodigi che sarebbe cresciuto sulle ceneri del Principe del Parnaso, e che un giorno avrebbe ospitato la più grande delle biblioteche, quella in cui sarebbe finita ogni opera perseguitata o disprezzata dall’ignoranza o dalla malignità degli uomini, in attesa di incontrare il lettore che ogni libro si porta dentro.” Eccomi!

“‘Amico Cervantes’ aveva detto accomiatandosi da lui. ‘Benvenuto nel Cimitero dei Libri Dimenticati.’” – e come disse il saggio, nella fine è il tuo inizio.

“Chi fu un tempo in cui le strade di Barcellona si tingevano di luce a gas al tramonto e la città si svegliava all’alba circondata da un bosco di ciminiere che avvelenava il cielo di scarlatto.” Una città come tante altre, piene di virtù, vizi, misteri e dolori.

“Escrutx non aveva amici né confidenti, Viveva in cima alla torre senza altra compagnia che quella di Candela, una domestica cieca della quale le malelingue insinuavano che fosse una mezza strega e vagasse per le vie della Città Vecchia tentando con dei dolcetti bambini poveri che non venivano mai più rivisti.”

Carlos Ruiz Zafón - Photo by Corriere della Sera
Carlos Ruiz Zafón – Photo by Corriere della Sera

Questa Leggenda di natale prevede che Candela andò il giorno di Natale “alla ricerca di una nuova vittima”. E la trovò: “La sagoma emerse dalla nebbia, fusa nel bianco della neve col suo lungo velo da sposa e portando in mano un mazzo di rose rosse.” Se la portò al castello e “raccontano che quando l’avvocato Escrutx la vide, ammutolì e ordinò a Candela di ritirarsi.”

Quando quell’essere si svelò, “l’avvocato Escrutx, animo saggio e sguardo offuscato dall’amarezza, credette di riconoscere il viso della sua sposa perduta.” Candela impazzì “per la gelosia” e accese “il fuoco che avrebbe consumato la torre portando l’alba in piena notte nei cieli purpurei di Barcellona.” Perché tutto ha fine, “una cospirazione di silenzio e oblio cancellò per sempre il nome dell’avvocato Escrutx dalle cronache della città.” La ragazza “si accovacciò accanto a me, lo sguardo perso nel fuoco. Mi disse che si chiamava Alicia.”

Quando si trova un tesoro lo si seppellisce in attesa di tempi migliori: “Me ne andai poco prima dell’alba.” Poi tornasti a cercarla, non si sa perché, dopo che l’avevi lasciata a se stessa.

“La porta era aperta e una luce perlacea sgocciolava dalle crepe del soffitto. La trovai distesa sul pavimento, con il libro ancora tra le mani, le labbra avvelenate di brina e lo sguardo aperto sul viso bianco di ghiaccio, una lacrima rossa ferma sulla guancia e il vento che soffiava da quella finestra spalancata che la seppelliva nella neve fresca.”

Alicia, all’alba, non è meno vera della tua vergogna: “Le lasciai la collana sul petto e scappai di nuovo in strada, a confondermi con i muri della città e a nascondermi nei suoi silenzi, fuggendo dal mio riflesso nelle vetrine per timore di trovarmi davanti a un estraneo.”

Questa storia di Uomini in grigio mi ricorda qualcosa, anzi qualcuno, una bimbetta di nome Momo.

Dopo alterne vicende, in gran parte dettate da un insano egoismo, tu giungi a considerare che “chiunque mi avrebbe per un altro uomo grigio tra la legione di uomini grigi sospesi a fili invisibili che aleggiavano sullo scenario di un presente rubato.”

Quando si dice che è il destino che forgia l’essenza di un uomo.

“Noi uomini in grigio saremmo diventati sempre di più. Ben presto saremmo stati seduti accanto a voi, in un caffè o in un autobus, leggendo un giornale o una rivista. La lunga notte della storia era soltanto iniziata.” Non si tratta di una festa e per questo forse non finirà mai.

La donna di vapore, Laura, “portava i suoi diciannove anni avvolti in seta bianca e mi lasciava fare come se fosse l’ultima volta. La amavo fino all’alba, saziandomi nel suo corpo di quanto la vota mi aveva rubato. Poi sognavo in bianco e nero, come i cani e i maledetti. Perfino alle vittime della vita come me viene concesso un accenno di felicità in questo mondo.”

Solo un accenno, però, se è vero che ti viene da dire “dev’esserci un errore” e che “tutti i capitoli della mia vita iniziano con questa frase.

Gaudì a Manhattan scopre che il suo talento non ha prezzo, pur arrivando a dire che “un grattacielo non è altro che una cattedrale per gente che, invece di credere in Dio, crede nel denaro.” – come diciamo a Rèş, tra córer e scapêr, la differenza è nella velocità di fuga, e nulla più.

Gaudì è “un omino dai capelli bianchi con gli occhi più azzurri che abbia mai visto in vita mia e lo sgiuardo di chi scorge ciò che gli altri possono soltanto sognare.”

Due proverbi catalani di Gaudì:Déu non té pressa, però io no viuré per sempre…”  –  neanch’io vivrò per sempre, ma il mio tempo m’è bastato per ascoltarti.

Déu non té pressa i jo no puc pagar el preu que s’em demana.” – ognuno paga quel prezzo, o qualcosa di poco meno, l’esistenza non è affatto gratis.

“Seppi allora che avrei dedicato la mia vita a continuare l’opera del mio maestro, cosciente che, prima o poi, avrei dovuto consegnare le redini ad altri, i quali, a loro volta, avrebbero fatto la stessa cosa. Perché, anche se Dio non ha fretta, Gaudì, dovunque sia, sta ancora aspettando.”

Un’Apocalisse in due minuti combina un sacco di guai. Nel frattempo si riesce però a considerare che, anch’io, come te: “Voglio conoscere il senso della vita, voglio sapere dove trovare il miglior gelato al cioccolato del mondo e voglio innamorarmi.”

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Carlos Ruiz Zafón, La città di vapore, Mondadori

 

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