Intervista di Alessandro Cortese a Giulio Rincione: il cielo sopra i tetti e la città sotto
Sapete cosa ha reso Guttuso tanto famoso? I tetti.
I tetti di Guttuso sono i tetti di Palermo, di Bagheria, della Sicilia. Sono tetti labirintici, che s’intrecciano e paiono sovrapporsi uno sull’altro, come tutt’insieme servissero a costruire un ponte. Guardando i tetti di Guttuso, sembra possibile camminarci sopra fin su. Fino al cielo.
Ho sempre inteso i tetti di Guttuso come un ponte per raggiungere il cielo di Sicilia. Un cielo azzurro e profondo, a volte tempestoso ma sempre cielo vero, abbastanza da non voler più staccare gli occhi da lui. Un cielo che ti cattura e ti fa credere di guardare, dalla Sicilia, fin dentro lo spazio e in tutto l’Universo. Il cielo di Guttuso è il cielo che noi siciliani guardiamo ogni giorno intanto che ci muoviamo sotto, sotto il cielo e i tetti, nelle nostre città tentacolari e trafficate, in vicoli asfissianti pieni di gente ma soprattutto pieni di odori.
Qualche anno fa mi capitò di vedere, sui social, un’immagine di tetti che erano gli stessi che conoscevo anch’io. Tetti di Sicilia, seppure meno labirintici e meno intrecciati. Non solo: tetti trasfigurati, che scendevano diventando altro. Tetti d’improvviso cartooneschi e colorati, rielaborati e trasformati dall’opera di un artista che conoscevo di nome ma con il quale ho avuto un primo contatto grazie a quei suoi terrazzini tutti fatti di pieni e di vuoti, che mi capitò di definire “incredibili”.
Tetti pazzeschi perché, nonostante non avessero nulla a che vedere con quelli di Guttuso, avevano di Guttuso la stessa identica forza espressiva, la stessa meravigliosa creatività artistica che solo a certi grandi pittori è concessa in dono.
Quel pittore che mi capitò di vedere per puro caso su un social è Giulio Rincione, un figlio di Sicilia come me e, come me, uno che la Sicilia se la porta addosso.
A.C.: Sai Giulio, ho sempre creduto che noi siciliani si abbia nel cuore una Sicilia per ciascuno diversa. Mi vuoi raccontare la tua?
Giulio Rincione: Ciao Alessandro! La mia Sicilia è sempre abbastanza bugiarda, mi ammalia con i suoi colori e i profumi, la semplicità delle cose, e spesso e volentieri mi fa dimenticare quanti problemi ci siano. Per entrare nello specifico, nella mia Sicilia fa caldo, c’è sempre il mare (cosa non scontata), ma soprattutto un odore di frittura che ti circonda lasciandoti senza scampo. È un luogo dove il tempo scorre lentamente, dove non bisogna correre da un punto all’altro con frenesia, dove si esce per fare la passeggiata, a volte addirittura in macchina (!), dove hai sempre un posto dove andare quando ti annoi e qualcuno con cui parlare quando sei solo. Ovviamente, nella mia Sicilia c’è sempre qualcosa da mangiare!
A.C.: A proposito di cibo… una curiosità che ho sempre avuto da quando ti conosco: perché vivere da artista in Sicilia? È la granita e gli arancini a bomba di Palermo che t’hanno convinto a restare?
Giulio Rincione: A parte che a Palermo sono arancinE (fimmine)!
A.C.: Di’ la verità: stai provando a far ripartire la diatriba, se si dica arancinI o arancinE, per far diventare quest’intervista virale?
Giulio Rincione: (ride) No, in realtà ho sempre odiato ‘sta questione! Innanzitutto perché l’arancino catanese o messinese è diverso dall’arancina palermitana, e poi perché parliamo comunque di palle di riso fritte, che possono essere di tutti i sessi possibili e immaginabili, ma tanto rimangono sempre bone! Tra l’altro io sono un grande fan del supplì romano, perché a Roma ho vissuto due anni essendo mia moglie di lì… abbiamo poi deciso insieme di tornare in Sicilia (più scelta sua che mia).
A.C.: E a questo volevo arrivare: in molti, raggiunto un livello di popolarità come il tuo, scelgono di vivere altrove, magari in posti esotici, catturati dal fascino di Milano, Londra o New York. Tu sei rimasto in Sicilia…
Giulio Rincione: Ti ripeto, amo la caratteristica lentezza siciliana: mi definisco una persona che “corre maledettamente” ogni giorno nel suo lavoro… per questo ho quindi bisogno di bilanciare con ciò che mi circonda all’esterno. In questo modo posso avere la certezza che, quando poso la matita e vado a guardare il mare, (per esempio) il tempo si fermi e io possa tornare a respirare: se uscendo di casa mi trovassi in una strada affollata di una metropoli, probabilmente non supererei i quarant’anni. Diciamo che la Sicilia è il mio antidoto contro la fretta di fare.
A.C.: Tua è l’incredibile capacità di prendere cose note e già viste e riplasmarle, dando loro non solo un altro aspetto ma nuove collocazioni e prospettive. Te l’ho visto fare coi Paperi di Shockdom, un lavoro personale e per molti versi struggente, ma anche su Dylan Dog ad esempio, che nei tuoi lavori diventa un bel burattino tra tanti burattini terrificanti. Soprattutto, ti ho visto prendere un’intera città e cambiarla, trasformarla, animarla e farla diventare tanto rabbiosa quanto malinconica, ne “Il cuore della città”. A me rimane davanti agli occhi, però, quella tua immagine postata sui social, quei “tetti” che tanto mi hanno ricordato Guttuso e i terrazzini di Palermo. Come lavori? Come immagini? Come nasce la trasformazione delle cose che spesso ci mostri?
Giulio Rincione: Purtroppo devo precisare che quei tetti di cui parli tu non sono di Palermo, ma di Cosenza. Per spezzare una lancia in tuo favore devo però ammettere che ho dipinto quei tetti a Cosenza proprio perché mi ricordavano tantissimo alcuni scorci del centro storico palermitano. Il mio disegno passa sempre attraverso la geometria, prima con un approccio preciso, poi cominciando a disgregare. All’inizio dovevo chiedermi come smembrare geometricamente la cosa da rappresentare. Nel corso degli anni ho come sviluppato un “filtro” che mi permette di rivedere qualsiasi cosa in questa mia ottica. È un gioco di pieni e di vuoti, di luci e di ombre, di tridimensionalità e bidimensionalità, come se Caravaggio e Basquiat facessero a pugni nel mio cervello. È qualcosa che mi fa sentire vivo e che mi uccide, in qualche modo. Ovviamente quando mi approccio a soggetti già noti, il risultato è molto più forte rispetto a qualcosa che invento io di sana pianta.
A.C.: Mi piace molto l’espressione che hai usato: “in qualche modo, la mia arte mi uccide“, perché mi ricorda che la tua è arte oscura, non solo per i soggetti e le tematiche tue abituali, ma perché anche come tratto prediligi i neri e i grigi. Per quel che ti conosco, posso testimoniare che sei una persona gioiosa e divertente… come convivono allora questi due aspetti tanto distanti di te, come persona e come artista?
Giulio Rincione: Sarebbe bello se ti dessi corda, dicendoti che la mia arte mi uccide con le sue tematiche scure, elevandomi a poeta che trasporta un carico enorme di emotività. Ma ho promesso di dire solo la verità, e la verità è che ad uccidermi non è il contenuto, ma proprio la forma: sono ossessionato dal disegno, dalla ricerca di una geometria nuova, di una miscela di colori diversa. Sono ossessionato dal mio lavoro, che ho desiderato più di ogni altra cosa nella vita, e per me un giorno senza aver lavorato è un giorno un po’ sprecato. Sono uno che non ci dorme la notte, se ha una linea che non lo convince, e che cerca di fare sempre meglio ma anche sempre più velocemente. Perché non sarò mai Leonardo, che (non) ha concluso la Gioconda in 16 anni. Mi sento invece come se stessi sopra un carro armato che deve andare a duemila e distruggere tutto ciò che incontra. Non sono il pilota, però, e sono ostaggio di questo mezzo, quindi mi conviene fare il bravo e tenermi saldo. Sì, mi uccide.
A.C.: Hai lavorato con tuo fratello Marco, gemello di carne e di arte mi vien da dire. Non è di certo un’esperienza comune. Com’è stato coniugare le vostre visioni? Da un po’ non lavorate insieme… tornerete a far squadra, magari per raccontare una storia tutta siciliana, o per adesso è una separazione che manterrete?
Giulio Rincione: Lavorare con Marco è come lavorare con una ramificazione di me. Da un lato, ho la certezza che non scriverà mai qualcosa fuori dalle mie corde. Dall’altro, so anche che non riceverò mai una gratificazione o un complimento da parte sua. Del resto in trent’anni ci saremo abbracciati quattro volte e detto “ti voglio bene” forse mezza. Non so se torneremo a lavorare insieme nel prossimo futuro, abbiamo nel cassetto un progetto gigante che coltiviamo già da almeno quindici anni, ma non è questo il momento. Abbiamo poi una serie di altre storie che ancora non hanno visto la luce.
A.C.: Una domanda che immagino possa metterti in imbarazzo… tu non volermene! Disney, Bonelli, Shockdom: dove hai lavorato meglio, quale esperienza è stata più soddisfacente e perché?
Giulio Rincione: Mettiamola così: c’è sempre un prezzo da pagare per la gloria che ti ricopre. Più il nome per cui lavori è grande, più la tua libertà si riduce ma di conseguenza aumenta anche l’introito. Nel mezzo metterei la Bonelli, dove mi è sempre stata data massima libertà stilistica, pur dovendomi adattare ad un personaggio non mio (anche se ci son cresciuto, con quel personaggio). Poi c’è Disney, o Marvel, che rappresentano un po’ il sogno del me quindicenne che voleva diventare un disegnatore, dove la libertà stilistica viene limitata per ovvi motivi commerciali. Solo col tempo ho capito quanto è diverso amare e progettare una propria opera, lavorando con Shockdom, dove la libertà e l’espressione di sé arrivano al massimo concepibile. Mi auguro in futuro di poter avere sempre la libertà di scegliere quando prestare la mia matita alle major, e quando usarla solo per me. L’affetto costante del pubblico e il suo supporto sempre maggiore mi fanno sperare che un giorno potrò vivere soltanto delle mie storie.
A.C.: Come molti autori italiani, dal tratto particolare e molto personale, il mercato francese rappresenta spesso un’isola felice. Perché c’è tanta differenza, secondo te, sul modo che abbiamo di intendere l’arte di qua e aldilà delle Alpi? Mi spiego meglio e faccio anche un po’ di polemica: è come se solo altrove si riconoscesse il talento e il lavoro fatto su se stessi per affinare quel talento, mentre in Italia si continua a trattare l’arte come l’hobby di chi nella propria vita non ha voluto studiare né lavorare.
Giulio Rincione: La mia risposta non sarà meno polemica della tua domanda! Ammetto di aver fatto fatica negli anni a “settare” il mio pubblico, mantenendolo magari più contenuto ma di sicuro più interessato, perché in Italia (non sempre, ma ultimamente sempre più spesso) non si fa più “il disegnatore di fumetti” ma si fa la “star dei social”: un libro non si vende perché è bello, ma solo perché si ha un numero così alto di follower che si garantisce in qualche modo una vendita minima all’editore. La mia ancora giovane esperienza francese mi mostra un pubblico variegato, di tutte le età, che non guardano l’autore ma l’opera, che concepiscono il fumetto come reale forma di letteratura, e che sceglie di comprare un libro solo in base ai propri gusti. Sarebbe troppo facile puntare il dito contro gli editori che pubblicano le star del web e basta, la verità è che molto spesso la colpa è anche nostra che svendiamo il nostro lavoro per una manciata di clic, e che non diamo a noi stessi il tempo di migliorare, di affinare una tecnica, perché “oddio non posto nulla da due giorni, ho già perso quattro follower”.
A.C.: Mizzica, ti stanno proprio sulle scatole ‘sti social… è per questo che, in qualche modo, te ne sei allontanato chiudendo il profilo personale?
Giulio Rincione: Forse questo è davvero un argomento gigante che preferirei non ampliare troppo. La faccio molto breve: se vuoi ottenere qualcosa nella vita, qualsiasi cosa, allora hai bisogno di dedicare del tempo a questa cosa. Concederti il tempo per apprendere ed errare. I social hanno viziato totalmente la nostra percezione del tempo. Non c’è tempo di imparare, bisogna solo mostrare. E alla lunga ne vedi gli effetti. I messaggi, le opere, si fanno sempre più brevi e superficiali, messe online a prova di clic deficiente, senza chiedere allo spettatore un minimo, un minimo di attenzione in più. E quell’infinito scrollare la home ti fotte intere ore. Ore potenzialmente produttive che hai passato a farti ingolfare il cervello da vite lontane di cui non ti fregherebbe di meno. Ho lasciato il profilo fb personale e ridotto anche l’uso di instagram quando ho scoperto che ci passavo anche 4 ore al giorno complessive. E che quelle ore mi rendevano comunque più nervoso, non mi giovavano mai. Ora lavoro 16 ore al giorno di fila, e so che quando avrò qualcosa da dire la dirò in un fumetto. Per rispondere a quelle mie affermazioni, avrai per lo meno dovuto leggerlo.
A.C.: Messo da parte il mondo virtuale, allora, parliamo di mondo vero: credo che ogni mago abbia il suo modo di creare la magia. Avere un “laboratorio” significa prendere il mondo vero, quello logico e cinico e razionale, e trasformarlo in un altro, fatto di cose, persone e posti che un attimo prima non esistono e poco dopo sono su un foglio, una tela o una pagina. Raccontami del tuo laboratorio.
Giulio Rincione: È sicuramente la stanza più disordinata della mia casa, dove libri, spartiti, strumenti di lavoro e giocattoli si accatastano in un ordine assolutamente non comprensibile agli occhi esterni. Ho bisogno di circondarmi di oggetti inutili mentre lavoro, ma soprattutto ho bisogno di diversi fogli e calendari che mi mostrino sempre il punto a cui sono arrivato. Non possiedo grosse attrezzature all’avanguardia, perché penso che la carta e la matita daranno sempre qualcosa in più al mio lavoro. È un caos confortevole, fatto di silenzi e di poca luce naturale, per evitare che i colori cambino durante la giornata.
A.C.: Fumetto, illustrazione, pittura: somiglianze, differenze, preferenze? Ricordo una chiacchierata che abbiamo fatto telefonicamente, qualche tempo fa, in cui mi confessavi che tu, come artista, ti senti prima un pittore e soltanto dopo tutto il resto.
Giulio Rincione: Ultimamente ho cambiato un po’ idea, o meglio, nell’ultimo periodo sono un fumettista e poi un illustratore. Di sicuro la differenza è una: la storia. Se hai una storia da raccontare, a cui veramente tieni e che ti ossessiona, allora sei un fumettista, perché la singola immagine smette di avere importanza a discapito di una sequenza narrativa che deve essere quanto più funzionale possibile. Al contrario il lavoro di illustratore, o di pittore, mi permette di alienarmi completamente da tutto, e di perdermi in singole forme, colori e composizioni, anche se non sto raccontando qualcosa a cui sono legato.
La verità è che amo entrambe le facce di questa medaglia, amo e mi ossessiona qualsiasi cosa sia legata al disegno, da una sequenza per un fumetto ad una regolazione digitale per un’illustrazione, fino a capire quanto giallo andava messo in quel blu per trovare il mio verde.
A.C.: Voglio farti una domanda a cui rispondere potrebbe non essere semplice, la introduco quindi con una considerazione: ho sempre creduto che noi siciliani non possiamo non dirci mafiosi; l’ho sempre creduto perché un certo modo di fare e di pensare io me lo son portato d’appresso, e forse lo porto ancora con me, e ho cominciato a rendermi conto di come quel modo di fare e di pensare sia normale fintanto che vivi in Sicilia, ma fuori dall’isola è come se ti risvegliassi e capissi tante cose. Io vorrei che tu mi raccontassi cosa hai imparato ogni volta che sei andato via dall’isola. E come vedi cambiare l’isola ogni volta che ci ritorni.
Giulio Rincione: Io rilancio, dicendoti che noi italiani non possiamo non dirci mafiosi: l’atteggiamento mafioso è quello in cui ci si sente sempre più furbi e meglio degli altri, in cui si tenta sempre di fregare il prossimo o di avere qualche piccolo vantaggio extra. Non è un atteggiamento che non ho trovato a Milano, a Roma, a Torino, a Napoli e ovunque nella penisola. È la maledizione che ci portiamo noi come popolo: un popolo che ha sempre avuto meno di ciò di cui aveva bisogno, e che col tempo ha trasformato quella capacità di arrangiarsi in qualcosa di tossico. Non voglio fare l’esterofilo, dicendo che in Germania è tutto perfetto ad esempio. Semplicemente, in Germania è molto più palese come ci siano dei servizi e vengano garantiti dei comfort per l’individuo, che di conseguenza ha meno bisogno di sentirsi preda o predatore in una giungla.
La Sicilia, ogni volta che la lascio e la ritrovo, mi dà la sensazione di essere ferma, di percepire soltanto ciò che accade nel mondo ma di non comprenderlo mai realmente, perché alla fine molte cose che impari fuori o di cui hai bisogno, in Sicilia, o non ci sono o sono inutili.
A.C.: Questa sensazione di tempo fermo, o quantomeno di tempo che scorre in Sicilia molto più lentamente che altrove, l’ho sempre avuta anch’io… parlarne mi aiuta a ricordarmi perché sono andato via e, al tempo stesso, perché a volte ho nostalgia di tornarci. Tu mi dicevi, poco fa, che questa lentezza della nostra isola ti ristora dalla frenesia del lavoro… come immagineresti la Sicilia, se il tempo scorresse da noi come altrove?
Giulio Rincione: Come il posto più bello del mondo. Con un mare stupendo, ma anche delle montagne innevate dove ci sono grandi impianti sciistici. Con città enormi e palazzi giganti che a Dubai se li sognano. In Sicilia, i mezzi di trasporto elettrici percorrono l’intera isola in 50 minuti scarsi. Le persone sono sempre sorridenti e calorose e hanno avuto l’intelligenza di mischiare l’economia contemporanea e la tecnologia con la tradizione. Hanno capito davvero su che tesoro camminano e hanno smesso di considerare “casa” solo quello che c’è oltre la porta del proprio appartamento. Ci sono app di delivery multiculturali, dove puoi ordinare spezie orientali, cibo indiano e pane con la frittola. Però la gente le usa poco, cioè, ordina dall’app ma poi va sempre a piedi a prendere il cibo, perché ormai il problema del parcheggio e del traffico sono spariti. Non c’è più neanche il rischio di annegare quando piove perché sono stati rivisti tutti i progetti stradali del territorio. La Sicilia è un paese ricco, ricchissimo di materie prime ma anche di maestranze, di industrie e i settori economici sono tutti e tre al massimo dello splendore. La gente ha capito che non ci si deve fregare mai a vicenda, e che anche un singolo mozzicone di sigaretta gettato a terra potrebbe finire a mare. E il mare noi lo vogliamo e lo abbiamo sempre pulito. Vieni a trovarmi, vivo in Sicilia.
A.C.: Bellissimo… per un attimo ci sono stato anch’io, in questa Sicilia meravigliosa! Restiamo in Sicilia, allora, e per concludere ti faccio una domanda ancora più complicata: granita, arancinA a bomba o cannolo alla ricotta? E non rispondere “i stigghiola a vucciaria” che la gente non ci capisce e non sa neanche di che stiamo parlando.
Giulio Rincione: Pur essendo nato il 13 Dicembre, che a Palermo è il giorno delle arancine, non sono mai stato un fan sfegatato della palla di riso. Amo la frittura e amo la ricotta, soprattutto quando è a km 0, artigianale, e non sa di plastica come quella che trovi al supermercato. Dovendo quindi scegliere, ti dico “Iris fritta” oppure la famosa “Cassatella” di Castellamare del Golfo, un fagottino di pasta fritta ripieno di fragrante ricotta bollente. La prossima volta che scendi te ne offro una.
A.C.: Torno presto e ti vengo a trovare!
Scrivere quest’intervista mi ha permesso, come di tanto in tanto mi concedo, di tornare a casa mia nonostante io ormai non lo faccia più troppo spesso. Come molti siciliani andati via, tornare non mi ha più permesso di riconoscere gli stessi luoghi come se fossero ancora quella casa lasciata anni prima.
Ma l’arte di Giulio Rincione tocca quelle corde dell’anima che chi fruisce di un quadro spera di sentir vibrare: sono le corde della malinconia di chi, andato via da casa, la ritrova nella creatività di un artista incredibile che continuerà a darci modo di godere dei suoi lavori per ancora molto tempo!
Grazie Giulio!
Written by Alessandro Cortese