Editoria 2021: i libri per l’inverno consigliati da Oubliette Magazine
“I filosofi hanno già dichiarato che il giusto non si discerne se non con l’errore, e che nulla genera maggior dolore al cuore dell’errore in quest’Arte, quando chi crede quasi di possedere il mondo, si ritrova con nulla in mano. […] Dunque bastando una sola cottura e una sola triturazione, non sarebbe stato necessario dire tante parole. Lo hanno fatto per ammonirvi di non stancarvi nel triturare e cuocere senza interruzione il composto. Con quelle parole vi hanno confuso le idee, ed io potrei parlare nello stesso modo.” – Bacsen ne “La Turba dei filosofi”, XXXIX discorso

“Turba philosophorum” (“La Turba dei filosofi”, Edizioni Mediterranee, 1997) risale al XII secolo su traduzione latina di un’opera araba del X secolo, attribuita ad Arisleo-Archelao ma giunta in Spagna del tutto anonima.
La scrittura è il sistema che ha soppiantato l’oralità, e con la scrittura noi lasciamo frammenti di ciò che siamo stati, di ciò che abbiamo pensato, di ciò che abbiamo provato. Così la lettura diventa un modo per partecipare del pensiero di secoli e millenni. E Bacsen, nella citazione iniziale, invita il lettore alla continua operazione di cottura e triturazione, di continua ricerca, perché “chi capisce vi trova la vita e le parole si liberano dalla loro ambiguità”.
Per celebrare il solstizio d’inverno vi presentiamo una selezione di 21 libri, editi nel 2021, consigliati dalla redazione e da alcuni stimati lettori di Oubliette Magazine.
Se avete il piacere di unirvi a noi per raccomandare un libro che ritenete valido, potete inserire il vostro consiglio a fine articolo nella sezione Commenti indicando il titolo, l’autore, la casa editrice e qualche riga di esplicazione.
“[…] La lettura sia una chiara lampa nelle tenebre,/ Perché ti guardi dagli ammassi di parole e cose.” – Epigramma del quarantaduesimo Emblema dell’“Atalanta fugiens” di Michael Maier
I libri del 2021 consigliati da Oubliette Magazine
“Leggermente distopico” di Paolo Pajer

Immaginate un uomo italiano comune che da una vita lavora e che alla soglia dei sessant’anni si rende conto dei tanti anni che ancora gli mancano per approdare alla tanto agognata pensione.
Immaginate che sempre lui decida di chiedere di poter andare subito in pensione e tornare al lavoro dopo dieci anni. E se la risposta da parte dell’istituto della previdenza sociale fosse positiva facendo avverare il suo sogno? E se ancora questo sogno si trasformasse in un incubo inimmaginabile?
In “Leggermente distopico” (La Torre dei Venti Edizioni, 2021) è un romanzo l’autore Paolo Pajer si è lasciato andare ad un paradossale che ha tutto delle nostre realtà, ha utilizzato un sarcasmo che nasconde verità fin troppo note ed è riuscito a creare immagini (e nomi, con i quali Pajer si è divertito in modo particolare) che divertono e commuovono profondamente.
Il titolo non poteva essere più azzeccato e a mano a mano che si va avanti nella lettura si ha quasi paura di cosa potrebbe accadere, di scoprire le sorti del povero Giuseppe Rossi. Dal distopico ci si sposta senza troppi sforzi verso l’horror, un orrore così vicino a noi da lasciare attoniti.
Un nome come tanti, il cognome più diffuso in Italia, Rossi, un nipote di nome Gieson, un funzionario, Clarisso Feroci, che detta legge e ripartisce scosse elettriche ma che a sua volta sottostà agli ordini dei piani più alti.
Nessuno regala nulla ma tutti sono pronti ad illudere in ogni momento e il burocratese al quale siamo abituati diventa ancora più assurdo e paradossale creando un mondo che possiamo definire distopico.
Un romanzo per tutti coloro che amano i libri belli e ben scritti, quelli che dell’ironia fanno il loro punto forte e che riescono a scavare nel profondo delle storie, dei personaggi e dei lettori stessi.
(Consigliato da Rebecca Mais)
“Sylvie e Bruno” di Lewis Carroll

Il classico Sylvie e Bruno, ultimo romanzo di Lewis Carroll – pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson (1832 –1898) – è di nuovo in libreria dopo ben 25 anni e non con una sola riedizione, bensì con due uscite quasi in contemporanea: per Einaudi con curatela di Chiara Lagani e per Bordeaux Edizioni con la traduzione di Franco Cordelli, datata 1978, prima versione italiana.
La casa editrice Bordeaux ha scelto, inoltre, di conservare nelle sue 492 pagine la riproduzione delle illustrazioni dell’edizione originale, opera di Harry Furniss.
Lewis Carroll è divenuto celebre per essere il creatore di Alice nel paese delle meraviglie, opera che vide un seguito con Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, ma scrisse anche l’opera Sylvie and Bruno, in due volumi, pubblicata nel 1889, con il secondo volume Sylvie and Bruno Concluded che uscì quattro anni dopo. L’opera non ebbe un grande successo, ma circa un secolo dopo una rilettura più articolata e sui diversi piani contenutistici e formali, ha portato a una rivalutazione di Sylvie e Bruno, oltre l’intento edificante, moraleggiante e didattico dell’autore.
“Non ho scritto né per soldi né per fama, ma nella speranza di dare ai bambini, che amo, pensieri adatti alle ore di innocente allegria che sono l’essenza dell’Infanzia, e anche nella speranza di suggerire, a loro e ad altri, pensieri che non risultino – così almeno spero – in totale disarmonia con le gravi cadenze della Vita.” – Lewis Carroll
In realtà si tratta di un’opera complessa per piani e struttura – foss’anche solo nell’impianto ideologico del suo autore – un’ingegnosa creazione letteraria, composta da due storie che in parte s’incrociano (pur in sé definite e precedute, ognuna, da una chiarificatrice prefazione di Carroll) formando un quadro d’insieme unitario, ma pure dissonante, legato, ma discontinuo, affetto da note volutamente contrastanti nell’ambientazione, nei ritmi e nei personaggi, nelle atmosfere e nei valori. È il Narratore, presente agli stessi fatti narrati e protagonista egli stesso, a fare da collante tra le differenti avventure, che sono solo frutto, forse, di un suo sogno. Ci si trova spostati quasi magicamente tra i due differenti piani narrativi reale-fantastico che ruotano attorno alle vicende sentimentali di Lady Muriel Orme nell’Inghilterra vittoriana, regno di moralismo e puritanesimo, e le avventure dei fanciulli Sylvie e Bruno in un’ambientazione immaginaria in quel di Fairyland, con atmosfere oniriche, fiabesche e sorprendenti più vicine a quelle di Alice’s Adventures in Wonderland.
“La nostra vita, allora, è solo un sogno,
balenante appena in una luce d’oro
contro l’oscuro fluire del tempo?”
Laddove domina il non-sense, dove è impossibile comprendere, ci vengono in soccorso l’ironia e la meraviglia nelle quali, lo sappiamo, Lewis Carroll e la sua Alice hanno saputo eccellere. Un motivo in più per leggere o rileggere Sylvie e Bruno.
(Consigliato da Katia Debora Melis)
“Heaven” di Mieko Kawakami

L’impatto che l’ijme, il bullismo giapponese, ha sulla società nipponica è devastante.
Ne parla la scrittrice Mieko Kawakami, definita dallo stesso Murakami “astro nascente della letteratura giapponese”, nel suo nuovo romanzo “Heaven” edito in Italia da Edizioni e/o.
“Heaven” racchiude la storia di un quattordicenne che, affetto da una grave forma di strabismo, viene crudelmente e ferocemente bullizzato a scuola.
Non è una vita facile per “Occhi storti” andare ogni giorno a scuola sapendo di dover essere umiliato, picchiato, costretto a fare le cose più tremende e disgustose e subire le più atroci angherie.
Con un linguaggio diretto e disadorno la scrittrice rende partecipe il lettore delle sofferenze, dell’impotenza, dello strazio e dell’inferno in cui versa la vita del giovane protagonista.
Ma un giorno un’inaspettata lettera nel suo banco. Un altro terribile scherzo?
Qualcosa lo spinge a fidarsi ed ad attenderlo una mano tesa, quella di Kojima una compagna di classe che subisce un trattamento simile per mano degli stessi bulli.
Kojima, a differenza però del protagonista, decide di essere vittima e costringe “Occhi storti” a riflettere sulla su passività difronte alle violenze subite, attribuendo una sorta di superiorità morale alla loro condizione di prede. Insieme decidono che la sottomissione a questi attacchi è il loro unico modo per resistere.
Un romanzo dalla forte componente introspettiva, parole drammatiche ma intrise di una forte sensibilità.
Non è una lettura facile, l’empatia che nasce con i due ragazzi è tale che mi son spesso trovata a dovermi prendere una pausa ed allontanarmi dalle scene di cruento bullismo descritte, come se fossi io stessa a subire tali violenze, sia fisiche che mentali.
Lo consiglio? Certamente, è un bellissimo racconto non solo di violenza ma anche di resilienza e forte amicizia.
Non credo però sia una lettura adatta a tutti.
(Consigliato da Alessandra Dalla Gassa)
“Il cambiamento che ci meritiamo” di Rula Jebreal

“Io non accetterò più le cose che non posso cambiare, io cambierò le cose che non posso accettare” – Angela Davis
Presente in libreria dal marzo 2021 e pubblicato da Longanesi editore, Il cambiamento che ci meritiamo di Rula Jebreal è testo dal contenuto importante, che affronta questioni di assoluta attualità.
L’evento pandemico che ha colpito l’intero pianeta, per esempio, insieme ad altrettanti di rilievo sociale ed economico. Che è filo conduttore di una narrazione, che dalla questione di genere si apre a diverse e numerose sollecitazioni.
Ma è proprio la condizione della donna, in un contesto globale, il tema su cui l’autrice si sofferma principalmente, al fine di farne il punto e tracciare uno spartiacque fra il prima e il dopo pandemia. È una questione ancora non risolta, quella femminile, se ancora oggi una donna su 3 è vittima di violenza che spesso ha conclusioni terribili e ultime.
Da parte di compagni di vita, mariti o fidanzati, pronti a esercitare il loro presunto ‘potere’ sui corpi delle ‘loro’ donne senza interrogarsi, almeno apparentemente, sul perché dei loro gesti. Anche se più probabile che abbiano consapevolezza del male compiuto, che li spinge a esprimersi con il solo mezzo loro conosciuto: la brutalità, declinata in molte delle sue forme, per soffocare ogni anelito di legittima libertà.
Per affrontare tale problematica l’autrice prende in prestito una sua vicenda strettamente personale: l’abuso subito dalla propria madre in giovane età che ne ha segnato il resto dell’esistenza confinandola entro un perimetro di devastazione fisica e psicologica, che ne ha devastato il resto dell’esistenza. Che si è conclusa con un estremo atto di autolesionismo.
Ed è proprio perché certi fatti non si debbano più raccontare che l’autrice ha dato alle stampe un testo da leggere e da apprezzare anche perché sviluppato in modo ben articolato. Frutto del pensiero di una donna che con la sola forza della volontà è diventata modello di non sopraffazione.
“In un mondo che si trasforma più in fretta di come abbia mai fatto nell’intero corso della storia dell’umanità, il divario che separa le nuove generazioni dalle vecchie si allarga a dismisura…”
(Consigliato da Carolina Colombi)
“La lista delle cose semplici” di Lucia Renati

Ci sono dei libri che sono particolarmente belli e che meritano di essere letti perché ci avvolgono di emozioni come una calda coperta. Hanno il potere di trasportarci in altre dimensioni facendoci sentire parte delle storie raccontate. Come è capitato a me leggendo il libro di Lucia Renati “La lista delle cose semplici” edito da Sperling & Kupfer. La storia è autobiografica, e come tutte le storie vere, ha in sé la dolcezza della poetica della vita stessa e la dolorosità degli eventi. Camilla ha perso la sorella gemella Sara morta tragicamente appena undicenne. Camilla sopravvivere, ma l’assenza di Sara le fa condurre una vita dolorosa di mancanze. I soli ricordi le provocano un enorme dolore. Emma era la sua metà, e ora deve trovare un modo per continuare a vivere. La tragedia le ha strappato l’innocenza bambina. Malgrado siano trascorsi venti anni, Camilla non riesce ad affrontare il distacco della sorella gemella. Una domanda l’assilla a cui non riesce a dare risposta: “Perché io sono viva e lei no?”. La vita cambia tutte le risposte, le certezze, ma a una bimba di undici anni non si può spiegare come combattere il dolore, non si può spiegare che indietro non si può tornare, perché i fatti non si possono riavvolgere come si fa con un nastro. Come si fa ad amare nuovamente, ad affezionarsi a una persona che potresti perdere nuovamente? Sono domande che Emma si pone. Inizia a reagire grazie al ritrovamento di una lista che avevano stilato con la sorella quando avevano nove anni. Cerca di mantenere fede alle dieci cose che insieme avevano scritto nella lista: arrivare a cento salti, dire la verità, baciare solo per amore…
Camilla è ora una giovane donna, lavora come giornalista in una TV locale. Ha un’amica speciale Tea, una di quelle amiche che tutte desideriamo avere al nostro fianco. Emma grazie alla lista ritrovata, alla vicinanza dei suoi genitori Walter e Teresa, che vivono in silenzio un dolore inimmaginabile, e all’amica Tea riesce ad affrontare il dolore causato dalla perdita della sorella. C’è voluto tempo per capire che le cose semplici come l’amore e l’amicizia, aiutano ad affrontare la vita e le problematiche. Lucia Renati ci ha donato una storia stupenda ricca di dolore, malinconia, rinascita e voglia di vivere malgrado tutto. Ci insegna a riconciliarci con un dolore grande: è con consapevolezza che si deve continuare ad amare ancora la vita.
Vi consiglio di leggere “La lista delle cose semplici” perché in ognuno di noi troverà in questa storia qualcosa di sé: cicatrici, gioie, dolori, momenti bui che cercano finestre di luce, attimi che sono storia e senza questi non saremo quello che siamo.
(Consigliato da Giuseppina Carta)
“Gli ultimi giorni dei nostri padri” di Joël Dicker

“Gli ultimi giorni dei nostri padri” di Joël Dicker è uscito la prima volta nel 2010 quale libro d’esordio di Dicker, diventato famoso per “La verità sul caso Herry Quebert”, ristampato nel 2021 da Bompiani.
Troviamo fatti storici, quali la creazione del SOE e le vere relazioni tra la Resistenza e l’Inghilterra di Churchill. Protagonista è Paul-Emile, un giovane che lascia il padre a Parigi, per andare a unirsi alla Resistenza. Là, alla scuola durissima che lo preparerà per affrontare la guerra e i tedeschi, incontrerà altri giovani come lui, tutti pronti per essere preparati ad azioni di sabotaggio e intelligence tra le linee nemiche.
I personaggi presentati sono tanti, eppure il lettore riesce a non confonderli, a tenerli ben presente, ognuno con la propria particolarità. Tutti loro sanno che non dovranno avere più contatti con la famiglia d’origine, destinati a vivere nell’ombra per una causa più grande.
Dicker narra delle loro vicissitudini, intessendo abilmente quanto quello che vivono insieme li unisca, li faccia diventare sempre più amici. Le azioni di guerra li portano l’uno lontano dagli altri, ma quando si rincontrano dalle pagine emerge tutto l’affetto che provano.
Pal è colui al quale manca terribilmente il padre, lasciato a Parigi, ignaro di quanto lui sia andato a fare. Nel tempo escogita uno stratagemma per fargli avere delle cartoline, così che il genitore sappia che lui c’è e sta bene. Il loro legame è descritto in modo così forte, così incisivo che non può fare a meno di pungere anche il cuore di chi legge. “Strinse la sacca nel modo in cui avrebbe voluto essere stretto dal padre”.
All’interno ci sono scene strazianti, come il suicidio di uno di loro: “Nel fango giaceva Grenouille, circondato dai suoi fiori e schiantato dalla sua stessa vita”. Oppure l’uccisione di Georges, una povera volpe “Non è giusto uccidere gli animali. Uccidere gli animali è come uccidere i bambini”.
La scrittura dell’autore è onesta, sincera: vengono descritte situazioni dove si nota come la guerra trasformi gli uomini, tanto che anche i buoni a volte diventano cattivi e viceversa.
Il personaggio che più ho amato è Gros, un bonaccione sensibile e sfortunato che, ubriaco, dichiara: “La amo d’amore”. Lui che riesce anche a innamorarsi delle prostitute, degli animali, dei figli non suoi. La guerra c’è e la si sente, ma, in realtà, non viene citato nulla di quanto stia accadendo, se non le azioni dei nostri sabotatori che fanno di tutto per fermare Hitler e il suo esercito. Qui si parla soprattutto di Uomini, proprio con la U maiuscola, così come ne scrive sempre l’autore, rimarcando le loro azioni, i loro sentimenti, i loro destini. Più volte ho pianto, leggendo.
Vorrei chiudere con questa frase, perché ancora sia da monito ai nostri giorni: “I demoni sarebbero tornati, lo sapevano. Perché gli uomini dimenticano facilmente. Per ricordare avrebbero innalzato monumenti e statue: avrebbero affidato la propria memoria a mille pietre. Le pietre non dimenticano mai, ma nessuno le ascolta. Sì, i demoni sarebbero tornati. Ma, da qualche parte, sarebbero sempre rimasti degli Uomini”.
(Consigliato da Miriam Ballerini)
“Corrispondenze” di Tim Ingold

Cos’è un antropologo? Cosa fa un antropologo? Chi è un antropologo? Domande che sembrano se non identiche almeno simili, e invece risultano profondamente diverse poiché differenti sono le risposte che, in poche parole, esse provocano.
Il primo quesito, andando al nocciolo, non può che avere un’unica risposta: «l’antropologo è un essere umano». Certo, non tutti gli esseri umani sono antropologi, ma non c’è dubbio che ogni antropologo sia un essere umano, almeno qui sulla Terra.
Il pianeta che noi tutti abitiamo assieme a un’infinità di altri fenomeni naturali ed esseri viventi dei quali, ci fa capire nelle pagine di questo suo libro Tim Ingold, troppo poco, sino ad ora, salvo rare e virtuose eccezioni, ci siamo occupati (poiché non siamo soli – anche se per tracotanza ci illudiamo di esserlo – sulla Terra).
Alla seconda domanda risponde in modo diretto l’autore di Corrispondenze (Raffaello Cortina Editore, 2021): «rimanere attaccato alla grana delle cose» (p. 15). Ovviamente non tutti gli antropologi hanno dato prova di questa virtù della “tellina” auspicata da Ingold, preferendo perdersi dietro alle loro teorie e astrazioni (strutturalistiche o interpretative, o altro ancora), ma forse, lascia intendere con un sorriso sornione il «nostro» autore, costoro non si sono dimostrati degli antropologi del tutto fedeli alla loro fondamentale, doverosa occupazione.
Infine alla terza domanda persino l’autore di Corrispondenze (che è professore emerito di Antropologia sociale all’Università di Aberdeen, in Scozia) non saprebbe dare una precisa risposta.
Egli, infatti, in questo suo libro recente e sfuggente, scritto in forma di suggestiva raccolta epistolare, l’ultimo di una vasta produzione di testi di antropologia che recano la sua firma, rassomiglia più che altro al greco Proteo: l’inafferrabile, metamorfico custode delle greggi di Nettuno.
(Consigliato da Giancorrado Barozzi)
“Io, Tina Modotti felice perché libera” di Gérard Roero di Cortanze

L’autore di “Io, Tina Modotti, felice perché libera” è Gérard Roero di Cortanze (Parigi, 1948). Discende per parte di madre dal bandito napoletano Fra Diavolo e per parte di padre dai Roero marchesi di Cortanze (Asti). Intellettuale poliedrico è poeta, saggista, romanziere traduttore e critico letterario, ha lavorato come direttore editoriale e direttore di collana per i maggiori editori francesi ed è autore di sessanta libri fra saggi, poesia, libri per ragazzi, romanzi (tradotti all’estero in 25 lingue). Per la sua feconda attività culturale ha ricevuto numerosi premi letterari e onorificenze, tra cui la Legion d’Onore della repubblica francese. Ha vinto il Prix Renaudot nel 2002 con il romanzo storico Assam. Ha scritto le biografie di numerose donne che hanno fatto la storia come Frida Kahlo. La beauté terrible (2011) e Femme qui court. Violette Morris la scandaleuse (2019).
Quest’anno è uscito questo suo nuovo libro dedicato a Tina Modotti, per la casa editrice Ellint.
Tina Modotti, fotografa tra le più importanti del Novecento, figura importante e controversa del comunismo, scelse sempre la libertà come premessa indispensabile alla felicità sin da quando, diciassettenne, attraversò l’Atlantico e gli Stati Uniti da sola per raggiungere suo padre in California. Lì divenne attrice di teatro e stella del cinema muto fino all’impegno militante, tra Berlino, Mosca e la Spagna in piena guerra civile, una vita di avventure che le avrebbe valso il soprannome di “Mata Hari del Komintern”.
Nel libro l’autore ripercorre le tappe della vita di questa donna e artista fuori dalle righe, originalissima e passionale, e il suo impegno artistico e politico, mettendo in luce i suoi drammi personali, i dubbi, i dilemmi che la travagliarono ma anche gli slanci appassionati con cui immortalò nelle sue fotografie le vicende politiche e sociali di cui fu testimone e alle quali partecipò attivamente. Ne risulta una lettura avvincente ed emozionante che ci porta in viaggio attraverso le capitali europee, la profonda Russia, gli Stati Uniti il Messico.
“Sento che deve esistere un qualcosa per me, ma non so ancora cosa sia”.
“L’amore è la più grande necessità della vita”.
(Consigliato da Giovanna Fracassi)
“Una sirena a settembre” di Maurizio de Giovanni

Protagonista del nuovo romanzo di Maurizio de Giovanni Una sirena a settembre (pubblicato a Luglio 2021 per la casa editrice Einaudi) è Mina Settembre, l’affascinante assistente sociale del Consultorio Quartieri Spagnoli Ovest.
Il romanzo presenta tutti i crismi caratterizzanti il genere giallo, ed è effettivamente in questa categoria che l’opera si colloca. Due sono i nuclei tematici attorno i quali si snoda la vicenda: un’anziana signora vittima di uno scippo che per le ferite riportate finisce in coma ed una scena di degrado e povertà sociale che vede protagonista un bambino a contendersi il cibo con un cane. Ma Mina Settembre, con la collaborazione del seducente ginecologo Mimmo e del magistrato Claudio, non si lascerà incantare dall’ingannevole banalità degli avvenimenti e protenderà ad una analisi molto più approfondita dei fatti che lascerà emergere la loro ambiguità. Ad affiorare sarà un evidente portato sociale ed etico.
«Una delle croci che la dottoressa Settembre Gelsomina doveva trasportare in cima al monte era senz’altro il tragitto per arrivare al Consultorio Quartieri Spagnoli Ovest, dove impavida e sprezzante del pericolo prestava il proprio servizio in qualità di assistente sociale. Il motivo principale era che non aveva le physique du rôle. La realtà era che Mina aveva un’anima e una mente rinchiuse, per un qualche errore di fabbrica o per la divertita perfidia del Celeste Architetto, nell’involucro sbagliato. Passione civile, istanze sociali, un senso della giustizia che rasentava l’ossessione, una determinazione feroce a osteggiare qualsiasi sopruso; e un corpo e un viso di fronte ai quali si scatenavano i più bassi istinti, e che non accennavano, nonostante il passare degli anni, a sottostare alla legge di gravità.»
La drammaticità degli eventi narrati viene stemperata dalla frequente intrusione dell’ironia che supportata da uno stile di scrittura chiaro, rende l’esperienza di lettura di Una sirena a settembre scorrevolmente piacevole.
Fil rouge di tutte le trame è la figura della Signora, che governa e scandisce l’intelaiatura narrativa esemplificando quasi una Parca mitologica. Ulteriore allusione alla mitologia risiede nel rimando del titolo ad una sirena da identificarsi con la sirena Partenope che la leggenda vuole abbia fondato Napoli, teatro d’azione della vicenda.
Con una minuziosa caratterizzazione dei dettagli Maurizio De Giovanni delinea ogni storia, caricandola di un portato notevole: ciascun avvenimento, infatti, trascende la mera individualità e si erge portavoce del popolo, interpretando un disagio esemplificativo di una condizione universale. La narrazione confluisce in un perfetto spettacolo umano, in cui tutto si accavalla, si sovrappone e si intreccia: ogni storia, ogni personaggio, concorre alla definizione di un’unica esperienza la cui evidente coralità sublima Una sirena a Settembre a romanzo rappresentativo dell’umanità.
(Consigliato da Manuela Muscetta)
“Caravaggio e Vermeer. L’ombra e la luce” di Claudio Strinati

“La luce del Caravaggio e la luce di Vermeer sono due veri e propri simboli dell’intera storia dell’arte universale”, così esordisce Claudio Strinati, storico dell’arte, saggista e curatore di eventi espositivi, nell’interessante saggio “Caravaggio e Vermeer. L’ombra e la luce”, edito da Einaudi; un saggio di ampio respiro e, al contempo di agile lettura, nel quale cammineremo su due sentieri artisticamente non così lontani, quello di Caravaggio e di Vermeer, entrambi celebri pittori del Seicento, ma umanamente molto distanti. Il titolo del saggio, infatti, può avere differenti chiavi di lettura, una delle quali riguarda l’aspetto umano e caratteriale dei due artisti, che si è inevitabilmente riflettuto nelle loro vite e nella loro arte.
Il burrascoso Caravaggio si forma, sostanzialmente, come emulo di Leonardo da Vinci e la connessione tra i due artisti si ebbe attraverso il maestro Simone Peterzano, da cui Caravaggio fu mandato a studiare dalla madre. A Milano, dove il maestro teneva la sua scuola, Michelangelo Merisi ebbe modo di ammirare il refettorio di Santa Maria delle Grazie, dove troviamo la celeberrima Ultima Cena di Leonardo da Vinci.
Giorgione fu un’altra fonte di ispirazione per Caravaggio, quando si trasferì a Roma, dove si fece la fama di artista anomalo e trasgressivo, ma restò sempre affascinato da Leonardo, tanto che egli, a detta dell’autore, dipinge “opere che, metaforicamente, è come fossero fuori dal tempo. Sono i quadri di Leonardo da Vinci quelli che il Merisi dipinge, ma sono immaginati perché gli originali di Leonardo non esistono più se non nel racconto di un libro”.
Vermeer, dal canto suo, dipinge esaltando il decoro e la dignità della casa e in questo “si contrappone ai valori caravaggeschi, se è vero, come testimoniano precise fonti documentarie, che il Caravaggio cadde in disgrazia in maniera irreversibile proprio quando fu chiaro a tutti come avesse voluto espungere la dimensione del decoro e dei rispetto gerarchico dalle sue opere più mature”.
Vermeer vive ed opera a Delft, una città dei Paesi Bassi, alla fine del XVII secolo e in lui il giornalista e appassionato d’arte Théophile Thoré-Bürger (vissuto nel XIX secolo) vide “un artista di profondo e nobile realismo che nel contempo descrive la realtà avendo negli occhi un’idea di pacificazione, concordia, condivisione di nobili pensieri e oneste aspirazioni rivolte a un generale miglioramento della vita sociale e dell’etica pubblica e privata”. Tutto questo, però, si trova ad un livello più evidente, che tutti possono cogliere. Ad un livello più profondo, prosegue l’autore del saggio, la pittura di Vermeer riguarda in maniera filosofica e quasi mistica la percezione mentale: le immagini dipinte dal pittore olandese sono “letteralmente nell’atmosfera luminosa che Vermeer ha creato e che è paragonabile all’aureola della pittura cristiana o al karma buddista”.
Felicità, benessere interiore, serenità, tranquillità: queste sono le sensazioni diffuse dai dipinti di Vermeer. Un’atmosfera rassicurante viene emanata dalle sue opere, una luminosa serenità che può curare i turbamenti di un’anima burrascosa come quella di Caravaggio.
Un libro che consiglio vivamente non soltanto agli appassionati di arte.
(Consigliato da Alberto Rossignoli)
“In movimento” di Massimiliano Perlato

La Sardegna è un’isola. La Sardegna, come terra, è un continente senza confini. La Sardegna al femminile è un continente in espansione che non invade mai, ma che conquista, affascina, contamina di energia e bellezza e importa tutto ciò che si può sognare.
E allora rovesciamo i canoni della storia scritta al maschile, e accettiamo che la storia della Sardegna è donna. È donna, perché è ricca di carattere, ma sensibile e capace di emozionarsi, forte come il mare in tempesta eppure delicata e preziosa come la filigrana d’oro.
Il libro di Massimiliano Perlato In Movimento (Amicolibro, 2021) ti proietta dentro questa Sardegna in continua esplosione culturale femminile. L’autore, già molto noto per i suoi venticinque anni di attività giornalistica alla guida del magazine “Tottus in pari”, compone un grande mosaico di cento ottantaquattro tessere. Cento ottantaquattro ritratti di donne nate nell’isola, e spesso espatriate, comunque legate alla Sardegna. Legame indissolubile perché la Sardegna rimane dentro di te, e ti dà forza vitale con le sue rocce, il suo vento, e quel sole serafico dall’aria sempre salmastra.
È un libro corposo ma snello nel racconto, impreziosito dalle prefazioni di Claudia Desogus, Federica Cabras e Paolo Pulina. Troviamo anche molti nomi a noi ben noti, come Bianca Atzei (cantante, Milano), Belinda Boeddu (insegnante, Ghilarza), Emma Fenu (scrittrice, Danimarca), Valentina Sulas (attrice, Quartu), Caterina Murino (attrice, Parigi), Valeria Pecora Schirru (scrittrice, Arbus), e tantissime altre. Sono tutte donne che ce l’hanno fatta, in Sardegna e nel resto del mondo, con la voce dell’isola, che hanno affrontato la loro salita arrivando in cima. Donne sarde, che nel loro piccolo, o più spesso nel loro grande, hanno scritto la storia. La storia culturale femminile, appunto.
A Massimiliano Perlato il merito di farci capire che la Sardegna è un continente, senza confini, e al femminile. Che l’altra metà del cielo è determinate, o forse trainante, nel portare voci e contributi a livello internazionale. Donne sarde ambasciatrici nel mondo, ambasciatrici del femminile. E Perlato ci fa capire subito che femminile vuol dire, più alto, più forte, certo più vero. Quindi non femminile come alternativo, o peggio subalterno al maschile, ma come autorevole al di sopra del genere. Un libro rivoluzionario in questo senso, che ti fa capire che potresti sentirti in colpa se non te ne eri accorto. Che le donne ci sono, hanno voce piena e sanno fare, e fanno.
Con più fatica, perché ormai lo sappiamo bene che per una donna è sempre più difficile. E questo l’autore ce lo racconta con tutta la bellezza della sua penna. Ce lo racconta per cento ottantaquattro volte disegnando con profonda sensibilità altrettanti fantastici ritratti.
Sono tutte lì, tra le pagine, e vengono meravigliosamente avanti una alla volta: sono direttrici, cantanti, sarte, avvocate, volontarie, dirigenti, scrittrici, manager o atlete. Vengono da Cagliari, da Ozieri, da Ghilarza o da Alghero, e sono nel mondo, a Genova, a Montreal, a Lanusei, a Buenos Aries, a Siviglia, Mosca, a Nuoro o a New York.
L’autore riesce a fare un mini romanzo di ognuna delle loro vite, travalicando confini e mestieri, attraversando difficoltà e soddisfazioni. Ma loro sono lì, fiere come la Sardegna, che ti entrano sotto la pelle e che non puoi più ignorare.
Grazie Massimiliano Perlato di averci fatto innamorare di cento ottantaquattro donne così.
(Consigliato da Pier Bruno Cosso)
“Viva il greco. Alla scoperta della lingua madre” Nicola Gardini

Un libro che vorrei segnalare in queste ore di fine anno è Viva il greco di Nicola Gardini, edito da Garzanti. Ne ho parlato già diffusamente, sempre per Oubliette.
In queste poche righe vorrei suggerirne ulteriormente la lettura ricordando alcuni concetti portanti di questo saggio.
In sedici capitoli tematici, caratterizzati da un andamento circolare, l’autore spiega che il greco è la lingua del confronto, del dialogo, della parola e dell’ascolto; la lingua dell’inclusione che accoglie sempre il pensiero altrui, anche solo per produrre una dialettica di opinioni, oppure per abbracciare, senza scandalo, tutte le contraddizioni possibili del reale.
Tutto questo il greco può farlo in virtù della sua ricchezza di particelle, in primis il μέν e il δέ, proprie della comparazione; su un fronte più conciliante quest’ultima è affidata anche alle similitudini e alle metafore, figure retoriche ampiamente attestate nei poemi omerici; nell’ampiezza del paragone trovano luogo le riflessioni sulla giustizia, sulla storia, sulla guerra, sulla filosofia, sugli dèi, sulla politica, ovvero su tutto quanto è proprio dell’umanità.
Inclusivo è anche questo libro perché, nel finale, Gardini afferma di augurarsi tre cose: “che l’anima comparativa del greci sia un’ispirazione per tutti voi, e che, dunque, sentiate il desiderio e l’utilità di leggere il mondo attuale per confronto con i temi che questo libro ha presentato […]; che almeno a qualcuno di voi venga presto la voglia di mettersi a studiare il greco antico […]; e che Viva il greco rimanga con voi non solo come una riflessione sul greco, ma anche come un’introduzione alla letteratura latina e […] a tutta la letteratura occidentale, che dalle invenzioni del greco è discesa e ancora continua a discendere, traendo idee e questioni”.
Le quasi trecento pagine di cui consta questo volume sono dense, fitte, ma al tempo stesso scorrevoli e piacevoli; permettono di entrare dentro l’anima di una cultura a noi nota eppure al contempo profondamente misteriosa, di poterla sempre amare e onorare, con sempre rinnovato interesse.
(Consigliato da Filomena Gagliardi)
“Pensieri” di Teresa Stringa

Le liriche della raccolta “Pensieri” di Teresa Stringa (Tomarchio Editore, 2021) restituiscono al lettore il contatto con una poesia primordiale che assorbe il suo compito di silenzio. I suoi versi ci accompagnano nel lungo cammino della vita soprattutto se questa passa per la stretta via del dolore e della malattia.
“Tu, muto/ come la più temuta/ assenza./ Cedi il passo a lei,/ nebulosa compagna/ tanto impetuosa/ con la sua generosa/ pioggia di dolore/ […]”
La poesia diventa un’intima amica che sorprende nel guardare una novità che, per un attimo, entra nella vita della scrittrice o di noi tutti lettori, ma ancor più nel fermarsi ad ascoltare i battiti del cuore quando fa memoria del dolore per la perdita della persona tanto cara: la mamma.
“[…] Ti ho amata, mi hai amata./ Te ne sei andata…/ E mentre mi manchi/ sgorgano lacrime/ come figlie ribelli/”
Le liriche, che di parola in parola vanno a forma-re questa nobile opera, raccontano di un luogo in cui la poetessa ha potuto trovare riparo e riposo, luogo nel quale tutto ciò che la circonda odora di passato o, meglio ancora, profuma di memoria co-me le tele che suo padre dipingeva.
La gentile scrittrice ci lascia delle perle come degli insegnamenti sul ruolo della poesia e del poeta artista fuori dal tempo. Il suo punto di critica non riguarda solo il poeta ma anche i talenti e con la poesia ne spiega il loro ruolo nella vita e per un ricordo immortale.
Le liriche tornano ad essere compagne di una vita per condividere i colori del dolore e per trovare speranza e pace nella misericordia del creatore.
“[…] L’imbrunire di oggi/ ti regala il ricordo/ dell’ignara freschezza/ che adesso saluti/ con un po’ di tristezza/”
Le liriche di Teresa Stringa ci aiutano ad allenare l’occhio nel guardare la sofferenza e ci insegnano a perderci ed a ritrovarci nei ricordi delle persone amate.
“Piccino mio/ dolce soldatino del mondo/ scopri ogni giorno/ le sue meraviglie/ donando allegria/ col tuo esser folletto,/ […]”.
(Consigliato da Rosario Tomarchio)
“Oceano nero” di Martin Quenehen e Bastien Vives

Lo spirito avventuriero di Corto Maltese, il personaggio ideato da Hugo Pratt nel 1967, ritorna in questo volume dei due autori francesi con uno stile più moderno. Bastien Vives ha uno stile essenziale, spesso nelle vignette non è presente nessun tratto di colore, solo campiture nei toni di grigio.
Contrariamente alle vecchie storie del personaggio, non ci sono acquerelli dai toni tenui e il tratto del maestro, non c’è la competizione sul piano stilistico, ma una reinterpretazione. Una scelta molto personale e coraggiosa che si accompagna al nuovo volto di Corto Maltese in “Oceano nero” (Cong editore, 2021).
Nonostante i colori siano grigio bianco e nero, si percepisce la fluidità degli elementi come il mare e la leggerezza di Corto sta in quei tratti accennati e veloci.
Martin Quenehen è un documentarista che ama il personaggio ed è riuscito a scrivere una storia coinvolgente mantenendo lo spirito di Pratt, la poesia e l’avventura uniti insieme. La vicenda è ambientata nel 2001 proprio nei giorni della caduta delle Torri gemelle e le barche a vela sono spesso sostituite da yacht ultraveloci e canotti a motore.
Corto Maltese è più giovane e dovrà vedersela con una segreta comunità in Perù che nasconde un tesoro. Tutto comincia a bordo di una nave, si cerca un uomo anziano che Corto riesce a salvare. Dal Giappone fino in America del Sud si viaggia a bordo di navi con il vento e il mare come compagni di viaggio. Ci sarà anche un amore passeggero per Corto Maltese, ma il suo spirito libero non riesce a fare prevalere i sentimenti sulla sua indipendenza. Il mistero di fondo riesce a dipanarsi man mano tra un viaggio e l’altro.
Ho trovato molta più azione rispetto alle precedenti storie di Corto Maltese, con la giusta dose di filosofia, le frasi sulla vita e piccole perle di saggezza catturano durante la lettura. Una lettura con un giusto mix di pensiero e di avventura che saprà trasportare, solo con il pensiero, lontano dalla quotidianità verso la libertà del sole e del mare. Buon vento!
(Consigliato da Gloria Rubino)
“C’era una volta a Hollywood” di Quentin Tarantino

Quentin Tarantino mi piace. Difficile dire perché dato che non sono un’amante di quel genere di film, ma i suoi non li ho mai trovati banali o ripetitivi e una descrizione dei personaggi, degli stati d’animo, dei luoghi in cui i fatti avvenivano, l’ho sempre trovata.
Geniale la sua regia, attori sempre molto bravi.
Con questa premessa non potevo rimanere indifferente di fronte al suo primo libro “C’era una volta ad Hollywood” edito da La nave di Teseo nel 2021. Premetto che il film non l’ho visto e quindi ho letto un libro di cui non sapevo praticamente nulla.
Non sono rimasta delusa né dalla scrittura scorrevole ed avvincente, né dalla trama perché Tarantino con maestria ci riporta ad una Hollywood anni ‘60 dove girano attori di tutti i tipi e tantissimi divi. Chi meglio di lui poteva raccontare questa storia? Ci parla di divismo, paura, riscatto attraverso un personaggio che sembra reale, Rick Dalton e che crea dopo aver studiato e ricordato molti attori noti o meno noti realmente esistiti come Steve McQueen o Bruce Lee per citarne un paio.
Rick non sa cosa fare, alle spalle ha una promettente carriera nel cinema ma è consapevole che a Hollywood si invecchia in fretta, un giorno si è sulla cresta dell’onda osannato da tutti, un attimo dopo si è nell’oblio e per questo deve fare delle scelte che siano giuste per la sua carriera: un western fra Italia e Spagna? Una commedia italiana con la Lollo o una nuovissima serie per una TV commerciale? Dalton, in difficoltà, può fare affidamento solo su Cliff Booth, un veterano di guerra dai molti segreti, che, oltre ad essere il suo confidente, gli fa da controfigura nei film e nel privato condivide la sua vita compresi gli esclusivi party a casa Polanski, il regista del momento.
La vita e le frequentazioni di Dalton si intrecciano con il desiderio di vendetta di un giovane aspirante cantautore arrabbiato con Hollywood per non essere riuscito a veder realizzati i suoi sogni.
Questo primo romanzo di Tarantino parla molto di paura perché l’idea di perdere notorietà, di venire dimenticato o relegato a ruoli minori fa veramente stare male il protagonista, ma parla anche di riscatto in un mondo, quello hollywoodiano, che sta cambiando, spinto dagli eventi del mondo reale, quello al di fuori del baraccone di cartapesta, dove i giovani protestano contro la guerra del Việt Nam, bruciano le bandiere, creano le comunità hippie all’insegna del “peace and love” e ricercano valori a cui fare riferimento.
Ma ad Hollywood rimane ancora la forza dell’immaginazione a cui è difficile resistere.
(Consigliato da Beatrice Benet)
“Celeste” di Martina Nicelli

Esordio letterario di Martina Nicelli, che più originale non potrebbe essere. “Celeste” è un romanzo epistolare a quattro voci, appartenenti a quattro compagni di studio della protagonista, Maria Celeste, a cui si può anche attribuire un cognome, Ferrante, la quale è scomparsa improvvisamente dalla quotidianità dei suoi amici, ma che appare in tutte le pagine del libro, in ogni capoverso, sotto forma di figura invocata a cui i quattro giovani si rivolgono continuamente come si fa con una figura che è al di là della realtà ma anche, ossessivamente, presente nella mente di chi, pur senza vederla, le sta parlando.
Il motivo della sua assenza è semplice. Grazie ai suoi ottimi voti, ha guadagnato la possibilità di svolgere altrove un anno di studi, in un paese così remoto che pare quasi irraggiungibile.
Qualcuno si chiederà il perché questi giovani tecnologici spediscano lettere cartacee (che dovranno attraversare alcuni oceani prima di arrivare) e non messaggi col cellulare. La risposta è semplice. La scaltra Celeste non ha fornito il suo nuovo numero a nessuno.
Ho compreso, leggendo queste lettere amorose che la protagonista svolge, involontariamente, un’azione da psico-analista, dove psico è sinonimo di anima, facendo emergere in quei giovani nuove consapevolezze, semplicemente ascoltando se stessi.
La storia di Celeste finisce bene, con l’atterraggio dell’aereo proveniente dagli antipodi.
Santa Maria Celeste Ferrante, inafferrabile come l’omonima scrittrice, appare a tutti e quattro i suoi pastorelli, facendo a tutti una grazia, a ognuno secondo il suo merito.
Per ultimo tocca a G., “A quello che prova per lui non saprebbe dare un nome, se non anima.”
La quale è una frase micidiale, e incomprensibile, se non le si conferisce un senso.
“Sì, lei lo anima. Non è amore, non è passione, non è affinità, non è amicizia. Lei lo anima così come le stesse animano il cielo e così come i pagliacci animano un circo per i bambini.” Celeste “sa che tutto in G. è suo, persino le belle dita lunghe e curate.”
Quello che questi ragazzi credono è che l’amore sia un fenomeno simile a un miracolo, in grado di sprigionare un’enorme energia. E che infine si quieta, a volte dissolvendosi nel Nulla, trasformandosi poi in qualcos’altro.
Lo dice l’Ecclesiaste: tutto è vanità, e non v’è nulla di nuovo sotto il sole, nemmeno il sole, nemmeno la stella più luminosa. L’amore prima o poi finirà il suo carburante e diventerà una nana, bianca o rossa che sia, oppure, peggio, un disastroso buco nero.
Nel frattempo però non deve mai cessare quella che in sanscrito di chiama kam’a, la passione che ci costringe a scrivere, quello che la giovane Martina Nicelli possiede in abbondanza: il che è poco ma sicuro.
Non solo la sua scrittura sa emozionare, facendo ricordare antichi amori ormai passati in giudicato o, peggio, caduti in prescrizione, ma rinforza la speranza, che non deve mai cessare, del suo valore eterno. E se pure è certo quello che decreta l’antico libro sacro, nulla ci vieta di sperarci almeno un po’.
(Consigliato da Stefano Pioli)
“Eco dal fosso” di Federica Caponi

“Eco dal fosso” è una grafic novel di Federica Caponi edita da Officina Milena nel 2021.
Virginia. In lei la Woolf e Alice nel Paese delle Meraviglie. In lei ogni donna che ingoia lo stereotipo della madre, moglie e casalinga perfetta come nelle indicazioni della Enciclopedia della donna del 1964. In lei il tempo di oggi, del Novecento trascorso, dei secoli di Tacita Muta e delle signore per bene.
Ma basta una spinta. E un abisso, un abbandono, una apparente perdita.
E non sai più chi sei, chi eri. Imparerai chi sei, attraverso l’inferno delle verità che ti hanno taciuto sotto terra, sotto i vermi, sotto le storie negate, le parole sgozzate.
Virginia viene buttata in fosso e fosso diventa, in un viaggio all’ingiù che porta in altro in su, e poi dentro. Dentro la mente e più dentro, nella pancia, nella terra e nel sangue dell’utero e del cosmo primigenio, nella mela di Eva, nel succo proibito del sapere, nel sangue proibito del piacere di Lilith e del generare figli, mondi, idee.
Indietro e dentro, fino a sentire solo l’eco degli stereotipi e dei modelli fasulli che si infrangono in cocci taglienti. Fino a sentire nel fosso la voce sempre più nitida della libertà di essere Donna e dea.
Virginia ascolta e realizza: è la sua voce, poiché il suo corpo si è fatto mantice, vento di fuoco e parole.
Io ne sento l’eco, ancora. E ne vedo il corpo, la carne, il sangue, il cervello. Nel ventre di Virginia è il parto primordiale.
“E così mi ha gettata nel fosso, e io, io l’ho scavato, rigirato, mi ci sono avvolta con le mani nella terra, ho sentito l’umido, il bagnato, nella mia carne. Ora parlava con la sua pancia, Virginia, come se le sue stesse viscere potessero parlare.”
(Consigliato da Emma Fenu)
“Il diavolo ai Giardini Cavour” di Massimo Tallone

Che Torino sia il calderone perfetto per cucinare un ottimo noir non è una novità, soprattutto per gli appassionati del genere, perché l’esoterismo è il pane della città sabauda.
Fa comunque un certo effetto gustare la propria consapevolezza di come il contrasto eterno tra la Luce e la Tenebra trovi volentieri casa in riva al Po.
È faccenda da brivido, la presenza del demoniaco tra uno stucco sulla parete di un antico palazzo e una bella piazzetta del centro.
Scrittore e saggista torinese, Massimo Tallone ha pubblicato tante storie color rosso sangue con intarsi d’Ombra intensa. Gli piace scavare nel mistero, cucire trame che raccontano il buio. È socio fondatore di Torinoir, collabora con La Repubblica, conduce corsi di scrittura creativa. Non trema mai di fronte agli occhi dei demoni; ne è praticamente il cronista, così come avviene nel racconto delle avventure di Vienna e Anna, due agenti immobiliari che collaborano con il Gufo, tra i capitoli che si fanno leggere con un brivido di piacere, pagine che profumano di zolfo e intrighi da svelare.
L’ironia non gli manca; se c’è un’arma perfetta contro il terrore, questa è di certo il sorriso del trickster, il briccone che ogni grande scrittore sa dosare con maestria.
“Ha in mente una zona particolare?” domanda il Gufo all’anziano cliente decisamente “fuori tempo massimo”, agghindato con un farfallino rosso papavero, vestito con un abito turchese che dà nell’occhio.
L’acquirente desidera un appuntamento che sia perfetto, cerca la casa in possesso del dettaglio fondamentale, del requisito imprescindibile. Al Signor Azalea occorrono “muri che abbiano sentito le urla, pavimenti impregnati di quell’odore ferroso che lascia il sangue”. Il Signor Azalea brama la scena del delitto.
Tra distinti personaggi in cerca di dimore che conservano la memoria dei morti ammazzati e nere dame che compaiono e scompaiono come incubi notturni, tra bizzarre torture medioevali e riti satanici, “Il diavolo ai Giardini Cavour” (Golem Edizioni, ristampa 2021) ci seduce tutti, entrando nelle nostre menti per indurci a vendere l’anima. Leggere per credere.
(Consigliato da Valeria Bianchi Mian)
“Appunti” di Elias Canetti

Dopo averli pubblicati separatamente, tra il 1978 e il 2003, Adelphi ha mandato in stampa l’intero corpo degli Appunti di Elias Canetti. La prima domanda che ci si pone è: a che serve ripubblicarli tutti insieme? E perché suggerirne la lettura? Qual è il loro denominatore comune? Se si volesse ricondurre tutto ad unità, si potrebbe provare ad affiancare il primo appunto del 1942, all’ultimo del 1993:
“Sarebbe una bella cosa se, a partire da una certa età, si diventasse di anno in anno più piccoli e si ripercorressero all’indietro gli stessi gradini su per i quali ci si è arrampicati una volta con orgoglio.”
“Un uomo, il cui ricordo consiste del personaggio che, di volta in volta, sta rappresentando. Il ricordo compie balzi come la metamorfosi, e si limita a quest’ultima. Preso dall’entusiasmo, enumera le mute di cui, a fasi alterne, ha fatto parte. Ora questa, ora quella, sempre una.”
Come si può notare, passano oltre cinquant’anni tra il primo e l’ultimo appunto citati, separati da circa novecento fitte pagine. Cinquant’anni che non inficiano la parentela tra i due passaggi, che potrebbero considerarsi addirittura come consecutivi. È un caso? Probabilmente sì, anche perché le pagine di questo poderoso volume non pretendono di essere lette una dopo l’altra, né che in esse si cerchi un nesso tra l’uno e l’altro appunto, un’impresa che si sconsiglia di tentare. Si suggerisce semmai di aprire a caso queste dense pagine e tuffarsi nel torrente di osservazioni, aforismi, citazioni, di immagini balenanti, di riflessioni acutissime su autori amati o avversati, di considerazioni brevi, fulminanti, di descrizioni inattese, di stati d’animo inimmaginabili… E ogni pagina riserva più d’una sorpresa. La dissomiglianza da qualsiasi altro testo o maniera letteraria è la caratteristica precipua di questa sterminata raccolta di notazioni. Possono apparire talora come una sfida aperta al senso comune delle cose, talaltra come provocazione all’intelligenza del lettore. Quando inizia a scriverli, nel 1942, Canetti è un uomo di trentasette anni; è ancora lontano dalla pubblicazione di Massa e potere e dell’immane Autobiografia, da molti ritenuti i suoi due lavori più importanti. Ha però già dato alle stampe, nel 1935, Auto da fé, un eccezionale romanzo che resterà nondimeno inosservato fino alla sua riedizione del 1960, allorché si comincerà a considerarlo per quello che è: una delle maggiori opere letterarie del Novecento.
Secondo quanto suggerito dall’Autore, il senso di questi flash di parole va inteso come valvola di sfogo, come divagazione, come distrazione per allentare le tensioni, per scongiurare il rischio d’irrigidimento cui lo espone l’impegno totalizzante di Massa e potere, l’opera della sua vita, come egli stesso la considera. Pur se suddivise per annate, nessuna annotazione reca una data precisa. Tanto più può sorprendere allora quella che si legge a pagina 600: “Scrivere appunti sotto una vecchia data, come se ciò che è passato ci lasciasse indifferenti.”
Un testo, quello suggerito, che per quanto “erratico in ogni frase” del suo smisurato insieme contiene comunque (è ancora Canetti a suggerirlo), “la verità di un uomo”.
(Consigliato da Riccardo Garbetta)
“Il silenzio delle ragazze” di Pat Barker

“Il silenzio delle ragazze” è un libro di Pat Barker, edito per Einaudi nella sua prima edizione nel 2019 e poi ristampato nel 2021.
Cosa sarebbe il mondo dell’epica e della letteratura senza l’ira di Achille?
Un giorno di qualche millennio or sono, quell’uomo dall’aspetto di un dio, dalla furia e dalla passione travolgente, decise di soccombere al suo destino. Insieme a lui e tutti gli altri comandanti dei due eserciti che si confrontavano davanti alle mura di Troia, esistevano degli altri esseri umani.
Negli ultimi anni, varie scrittrici si sono cimentate con la rivisitazione del mito omerico, molte con un successo che ha abbagliato il mondo della letteratura, quindi cosa ha di speciale “Il silenzio delle ragazze”?
La narrazione è incentrata su Briseide. Lei, in prima persona, narra della sua vita e di quella di tutti coloro che hanno vissuto vicino a lei durante gli anni del conflitto più famoso della letteratura. In realtà, nonostante il titolo sia specificatamente dedicato al silenzio delle donne dell’epica omerica, queste sono pagine che parlano di tutto quello che è taciuto.
Non solo di coloro che subiscono la guerra: donne, anziani, bambini, civili ma di quello che, a volte, viene rifiutato dalla mente di chi è abituato a pensare ad un conflitto come una situazione incresciosa che separa i buoni e i cattivi, il bianco dal nero.
Quando qualcuno nomina la città di Ilio, tutto quello che si ascolta è nei piedi di Achille che solca la piana furente, nelle invettive di Agamennone, negli ordini declamati da Ettore e dai suoi. Tutti abbiamo pensato che uno dei due schieramenti fosse nel giusto o nel torto.
Ma cosa accade negli acquartieramenti quando la furia della battaglia cessa? Cosa pensano coloro che non combattono? Smettono di esistere mentre i guerrieri fanno la parte degli attori principali? Smettono di essere esseri viventi?
Briseide narra di quanto, nonostante odi tutto quello che questa guerra le ha portato via, nonostante lei sia piena della stessa furia che Achille prova nel momento in cui uccide Ettore nei confronti dell’uomo che la trattiene come suo premio di guerra, lei non possa fare a meno di osservarlo e conoscerlo come la persona che egli è. Ha imparato a conoscerlo durante la prigionia e ha imparato persino ad apprezzarlo.
Tutto questo sembrerebbe un controsenso, chi sarebbe in grado di vedere l’uomo e il suo riflesso e di accettarlo?
Il libro ha una narrazione asciutta, prima di fronzoli e le parole sono cariche di una crudezza che è atta a distruggere ogni preconcetto su ogni aspetto di quello che ci si aspetterebbe in un conflitto armato. Non aspettatevi che qualcosa sia come sembra. Nessuno sta tentando di farvi cambiare idea sui personaggi che popolano la piana di Troia o le sue mura, anzi.
Lo scopo è costringervi a guardarli in faccia, ognuno di loro è ben più di quanto sia invisibile agli occhi.
(Consigliato da Altea Gardini)
“Le storie che curano” di James Hillman

“Le storie che curano” (titolo inglese “Healing Fiction”) è stato pubblicato in Italia nel 1984 ed ora si trova in commercio con una nuova versione del 2021 edita da Raffaello Cortina Editore e curata da Luigi Zoja. Ad incipit del libro la prefazione del curatore, seguono tre capitoli: “Le storie cliniche come narrativa” (paragrafi: Il Freud narrativo, Teoria e trama, La narrativa empirica, Archetipo e genere letterario, Storia dell’anima e storica clinica, Jung: figlio di Ermes?, Sogno dramma Dioniso, Il bisogno di storicizzare, Il dono della storia clinica), “Il pandemonio delle immagini” (paragrafi: I daimones di Jung, Introspezione, L’attacco di Jaspers alla demonologia, Imagismo e iconoclastia, Dèmoni e demòni, Immaginazione attiva: l’arte che cura, Un’eco), “Cosa l’anima vuole” (paragrafi: Scrivere all’anima, La poetica della terapia adleriana, Il senso della finzione in psicologia archetipica, Il senso comunitario).
“L’analisi è una narrazione. Ma il paziente non racconta la sua vita all’analista partendo da un certo momento per arrivare all’oggi, e qui fermarsi sperando di trarre delle conclusioni. Racconta la sua vita perché la vita è il mezzo per arrivare al racconto. Non viceversa: proprio come Itaca, nella citatissima poesia di Konstantinos Kavafis, non era tanto la meta del viaggio, quanto lo strumento che ha permesso di viaggiare.” – dalla prefazione di Luigi Zoja
Arrivare al racconto. La mente è fondata sull’attività narrativa, cucire assieme ricordi assemblandoli alla capacità di creare fantasie, inserire in questa narrazione continua le ambizioni di vita ed i sogni, fare un racconto (dal greco: ποίησις, con il significato di “fare”), ascoltare l’immaginazione con l’attenzione poetica necessaria per imbastire una storia.
Ma arrivare al racconto è finzione?
“La psiche consiste essenzialmente in immagini, diceva Jung, e noi dobbiamo sognare il mito insieme a essa. Siamo guidati da finzioni, diceva Adler; anche i nostri scopi sono finzioni, anche lo scopo della guarigione. Analisi interminabili, diceva Freud. La cura durerà finché potrà essere mantenuto il senso romanzesco, perché la morte è l’unica vera guarigione, diceva Socrate.” – James Hillman nell’introduzione del 12 aprile 1982
Ne “Le storie che curano”, James Hillman (12 aprile 1926 – 27 ottobre 2011) porta avanti una revisione della psicologia attraverso la comparazione di tre grandi psicoanalisti che hanno completamente rivoluzionato il modo di intendere (e di provare a curare) quelle che erano (e che sono) chiamate malattie mentali: Sigmund Freud (6 maggio 1856 – 23 settembre 1939), Carl Gustav Jung (26 luglio 1875 – 6 giugno 1961) ed il meno celebre Alfred Adler (7 febbraio 1870 – 28 maggio 1937).
(Consigliato da Alessia Mocci)
“Fa una scelta di buoni autori e contentati di essi per nutrirti del loro genio se vuoi ricavarne insegnamenti che ti rimangano. Voler essere dappertutto e come essere in nessun luogo. Non potendo quindi leggere tutti i libri che puoi avere, contentati di avere quelli che puoi leggere.”
Lucio Anneo Seneca ‒ “Lettere morali a Lucilio”
“Datta, dayadhvam, damyata/ Shantih shantih shantih” [Dai, compatisci, domina/ Pace]
Thomas Stearns Eliot in “The Waste Land”
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