“Aniello Ambrosio – Il profumo della toga” di Luigi Iroso: vita honesti et illustris viri
Mi dicevo: ecco finalmente un libro di cui non riuscirò mai a scrivere una reazione. Non perché non sia scritto bene, ma essendo così esaustivo, o almeno tale pare a prima lettura, e di uno studioso che ha fatto della ricerca storica mirabilmente analitica il suo principale modus operandi. Eppure, a volte io ho la sensazione che ogni libro necessiti alla fine di una pur minima aggiunta e con tale idea mi è solidale Jorge (Borges).
Come già scrissi, anche leggendo l’opera più deprecabile, si può, da un punto di vista probabilistico, anzi, si deve necessariamente giungere a una reazione. Ognuno ha la sua missione nella vita, questa è forse la mia. Chissà…
Comincio dalla copertina, che riporta in primo piano un uomo togato, dallo sguardo che pare diffidente e un po’ truce, sicuramente autorevole, che forse caratterizza colui che non molla quando ha fede in qualcosa, o che invece stacca, se s’induce a pensare che non ne valga più la pena. Uno che decide, o che volontariamente, anche a rischio di perdere la propria qualifica, recede per principio etico dalla stessa.
Nella fascetta si indica un’antica verità: che non può esistere alcuna verità “senza far ricorso, attraverso lo scavo della memoria, agli eventi e alle figure che meglio la rappresentano nel nostro tempo.” – quel pronome, la, riguarda l’identità sangiuseppese, di San Giuseppe Vesuviano, che diede i natali all’autore meno Iroso che conosco, ma che è uno che non te la manda a dire, se per lui è cogente farlo.
La prosa del Nostro (è il Maestro che condivido con il mio pard solidale, lo scrittore Silverio Scognamiglio) è non solo sublime, è di più, o di meno, poiché, per quel che mi concerne, è soltanto sua: dotata di una scrittura forte ed energetica come poche.
Parlando del giudice della cui vita sta tessendo questa sua opera, scrive: “Finora la sua presenza, priva di un’adeguata biografia scritta, è stata avvertita per via indiretta con accenni sussurrati a fior di labbra. Anzi abbiamo corso il rischio di perdere definitivamente una interessante testimonianza della propria storia.”
Volendo tendere il discorso al parossismo, ogni uomo ha una storia che meriterebbe d’essere ricordata, foss’anche quella di un pargolo che nasce morendo, o quella di un disgraziato che non ha (quasi) per nulla influito in quella che, esagerando con la maiuscolità, chiamiamo Storia.
La sensazione, già indicata da vari autori, è che la memoria abbia il compito di mantener in vita chi, spiritualmente più che fisicamente, è Altrove. Discorso difficile che può sbandare da tutte le parti e coinvolgere anche esseri inferiori, come un virus, per esempio, oppure le impalpabili particelle subatomiche che costituiscono la maceria e qui si sconfina nell’immaginario.
Torniamo ora a quest’uomo che si dimostrò tanto mirabilmente illustre: “Aniello Ambrosio, quinto di nove fratelli, di cui due sorelle gemelle, Rosa Francesca, nasce il 19 maggio 1864 a San Giuseppe Vesuviano, all’epoca frazione di Ottaiano, alla via Mastanielli, da don Pasquale e da donna Lucia Ambrosio.”
Aniello proviene da una buona famiglia, che gli garantisce la frequentazione degli “ultimi tre anni presso il Regio Liceo ginnasiale napoletano ‘A. Genovesi’”.
Già da giovanissimo discente, brilla per il profitto negli studi, e il dato persiste anche quando accede “alla facoltà di giurisprudenza presso l’Università di Napoli…”, per cui egli consegue “la laurea la laurea nei tempi canonici…”.
Lo scopo paterno era di fargli assumere il ruolo di “avvocato-amministratore del suo patrimonio e della sua attività imprenditoriale.” Diversamente da tali aspettative, “il giovane si accorge che la sua indole, riservata e tranquilla, è incompatibile con le esigenze della dinamica professione legale.”
Egli, nel 1889, “partecipa al concorso per cento posti di uditore giudiziario”, che vince e che “è propedeutica al tirocinio che lo vede destinato, dapprima, alla Corte di Appello di Napoli…”
Il Presidente del Tribunale avellinese, così del Nostro Aniello definisce per iscritto le doti: “Di sufficiente capacità e coltura giuridica. Molto operoso e di ottima condotta. Celibe e di valida costituzione. Appartiene a famiglia agiata e può reggere Pretura di speciale importanza” e tutto questo dovrà servire a favorire una sua “promozione a Pretore”.
En passant mi viene da chiedermi per quale motivo nella lingua moderna si usi differenziare fra coltura agricola e cultura scientifica. A me pare una discriminante priva di senso. entrambe richiedono interesse, dedizione e sacrificio esistenziali.
Anche se non è affatto necessario, preciso che, per ogni sua affermazione, Iroso puntualmente indica la fonte a essa pertinente.
Aniello viene nominato “Pretore di Arce, in provincia di Frosinone”, con decreto del 3 marzo 1898.
Il nuovo ambiente non risulta dei migliori, in quanto certuni, scontenti di diverse sentenze terminate “in modo opposto ai loro desiderata” lo attaccano “in maniera velenosa a varie riprese”. Di queste maldicenze, nessuna resta in piedi, sgretolandosi completamente qualsiasi accusa di clientelismo, anche perché lo stesso Pretore Ambrosio ha condannato in processo civile coloro che, a parere dei maligni, erano indicati come suoi protettori.
Tali vili manfrine sono spesso organizzate da chi intende delegittimare con menzogne create ad arte chi opera con onestà e senso del dovere, ponendo a rischio i suoi luridi interessi. Sono strategie che sono talvolta utilizzate anche dalle organizzazioni malavitose di tipo mafioso, il cui nome più noto è la fabbrica del fango. In questo mondo eticamente sbandato, anche chi è al di là di ogni dubbio colpevole usa sovente tale espressione per giustificare la condanna giuridica in cui incorre.
Da questa e da altre vicende maligne, il Pretore Ambrosio esce sempre innocente e a testa alta, risultando “insussistenti tutte le accuse mosse a suo carico.”
Nel 1903 si concretizza “il suo trasferimento nella sede di Benevento”, dove l’attende “una questione molto intricata e delicata” in quanto “coinvolge uno stuolo notevole di cittadini”, tra cui un senatore. Alla fine dell’accertamento, “il Procuratore Generale riconosce al giudice Ambrosio tutto il merito della svolta e lo estrinseca chiaramente nel giudizio finale”, in cui sottolinea le sue doti umane e professionali: “magistrato distinto, operoso, di buoni studi, a corrente della giurisprudenza, dignitoso, prudente, di condotta esemplarissima, da ritenere degno di stare in un importante Tribunale.”
Ambrosio verrà poi trasferito al Tribunale di Napoli, a far tempo dal 1905, presso cui verrà notato per il senso di sacrificio dimostrato e per l’affezione per il proprio mestiere. Le sue sentenze sono definite dal Primo Presidente “veramente pregevoli” poiché “in esse ‘il ragionamento mai divaga e si rivela sempre ferrato, robusto e convincente’”. Di fatto, “il suo segreto sta nella sua totale dedizione deontologica che lo porta a lavorare senza sosta persino nel periodo feriale.” Egli “redige da solo 110 sentenze civili. Per ponderarne con esattezza l’entità del lavoro individuale effettuato basta ricordare che, nello stesso periodo, l’intera sezione, composta dal Presidente, da tre giudici e da un giudice aggiunto, pronuncia 456 sentenze…”
Ambrosio si iscrive al “concorso per merito a posti di Consigliere di Appello o di grado equiparato.” Nel compilare la domanda “si accorge di essere in possesso di numerosi titoli, più di quanti ne preveda il bando, per cui è costretto ad operarne un doloroso taglio…”
Dopo variegate vicende della sua fulgida carriera, il suo coronamento avviene nel 1922, con la sua elezione quale “Consigliere della Corte di Cassazione di Napoli.”
Col “regio decreto 24 marzo 1923 n. 601” si determina la soppressione delle “Corti di Cassazione di Firenze, Napoli, Palermo e Torino”: per cui da allora soltanto quella “di Roma eserciterà tute le attribuzioni ora spettanti alle altre Corti soppresse e prenderà il nome di Corte di Cassazione del Regno…”
Iroso ammette di non conoscere “il pensiero del Consigliere Ambrosio sulla questione in atto, anche se in sua vece appare eloquente il pensionamento volontario dell’interessato, avvenuto proprio dl 1° ottobre di quell’anno…” – esso ormai riposa per l’eternità insieme a chi l’espresse.
Non si può far a meno di giudicare che “la decisione di abbandonare il servizio attivo risulta un’ulteriore prova di coraggio e di coerenza da parte di chi è abituato a non fare compromessi con nessuno e a proclamare sempre la libertà in ogni circostanza.”
Egli “si commuove intensamente allorché gli viene comunicato ufficialmente che il Re, su proposta del Ministro della giustizia e degli affari di culto, Aldo Oviglio, lo nomina Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia, il 24 settembre 1923.”
Un nuovo incarico ora gli è proposto (“la carica di podestà di San Giuseppe Vesuviano”), ma “l’interessato non si scompone più di tanto né attende ulteriormente per dare risposta: con il garbo abituale declina l’incarico e ne attribuisce la causa ostativa alle sue malferme condizioni di salute.”
La sua attività sociale però non cessa e della sua elencazione il saggio di Iroso di certo non difetta. E si concluderà soltanto al termine di un’esistenza informata dall’onestà e della dedizione alle istituzioni sociali: “Vivendo in maniera serena lungo la scia dei valori forti, i Consigliere Ambrosio si addormenta nel sonno della morte il 10 settembre 1935.”
Otto anni dopo, “il Comitato di Liberazione di San Giuseppe Vesuviano” propone di dedicare ad Ambrosio “la via Ambruosi”, perché la di lui “fede non piegò alla ingiustizia fascista.” – il giusto riconoscimento per vir tanto illustris (latino mio maccheronico).
Il saggio di Iroso dimostra il significato salvifico della scrittura. Pochi, fra i suoi concittadini, conoscevano nella giusta misura la sorte di quest’uomo mirabile. Ora egli mi appartiene, mi è parente, amico, solidale. Per me ha acquisito l’importanza di una persona cara, di cui non mi sarà consentito dimenticarmi. L’opera di Iroso però continua con la Appendice I, in cui viene riportato in toto Del protesto cambiario secondo la legislazione vigente in Italia scritto dal medesimo Aniello Ambrosio, edito a Napoli nel 1898, e diviso in sette sezioni.
Non dico di aver compreso tutto, né la maggior parte delle questioni, ma ormai poco mi è ignoto dell’esistenza delle mille e più problematiche connesse all’argomento.
Nel leggere ho raccolto n. 4 refusi: uno, il più notevole, spicca a pagina 104, quarta riga: “… dalle legge…” anziché “dalle leggi”; gli altri 3, più trascurabili, riguardano una spaziatura indebita, come per esempio a pagina 9: “… con cura , perché…”. Dico questo a mo’ di celia, in quanto non si potrà mai affermare che io non abbia letto con sufficientemente mirata attenzione lo studio dell’Ambrosio.
Sarei stato forse più idoneo a recepire l’insegnamento ricavandolo in un saggio di meccanica quantistica (con le sue amene teorie sulle masse immaginarie e dei numeri complessi, così essenziali nella quantificazione dei dati corpuscolari), o di analisi di somme infinite, ma quello che più amo in questo bailamme giuridico non è tanto la citazione di autori a me finora sconosciuti, quale il Calamandrei, il Gallavresi, il Marghieri e il Cattaneo (giureconsulti citati a sua volta ne La Cambiale); né i continui riferimenti agli articoli del Codice di Commercio, non so se Napoleonico o successivo; ma principalmente per i frequenti confronti con le usanze giuridiche belghe, francesi, tedesche e mi pare britanniche.
Un esempio: “La legge tedesca lo dispone testualmente ‘le lettere di cambio domiciliate devono presentarsi pel pagamento al domiciliatario, e se questo non è indicato, al trattario nel luogo per quale la cambiale è domiciliata, ove in caso di non pagamento dovrà farsi il protesto.”
Un concetto preme sottolineare ad Ambrosio: in genere, “la legge, al riguardo, è troppo chiara e non ammette interpretazioni di sorta.” – in genere lo è, e non purtroppo sempre.
L’Appendice II mi è parsa più essoterica e riguarda la “Sentenza redatta dal Consigliere di Cassazione Aniello Ambrosio il 16 Gennaio 1923, riprodotta integralmente e fedelmente dall’originale”.
Un altro concetto merita la necessaria attenzione: “Manca il magistrato all’obbligo della motivazione, quante volte non tiene presenti tutti i documenti legalmente comunicati e sui quali le parti hanno fondato le loro ragioni e le loro eccezioni.”
Nel caso, però, che non ne valga la pena, “non ha il dovere di soffermarsi su tali documenti”.
Se ho ben capito, egli è tenuto a tener presente ogni aspetto della questione, ma non di conferirgli un peso qualora non lo possieda. Deve leggere ogni atto notificato, ma non necessariamente se ne dovrà scrivere alcunché.
La prosa di Ambrosio è così autorevole che lascia sospeso il mio giudizio su una sua arcana frase: “cominciarono le trattive per la conclusione del contratto di 250 ettanidridi di cognac”. Non sono riuscito a rinvenire il significato dell’accezione di trattive: trattasi di refuso del Magistrato, del suo biografo oppure della forma arcaica e ridotta di trattative? In tutti i casi ho acquisito un termine (ettanidridi) che peccava per la sua assenza nel mio dizionario.
Il busillis riguarda la fornitura di un liquore dotato di “una leggera aggiunta di colore caramello”, quando non si ignora “se il campione pure ne conteneva”. O si tratta, come apparve a taluni palese, “che il Benedetti andava in cerca di un pretesto per indurre il venditore a prorogare il termine per la consegna…”? Per una serie di “suesposte considerazioni il ricorso” fu infine rigettato.
L’appendice III, non meno inquietamente intrigante, riguarda l’utilizzo di una latrina da parte dei “figli di Catello Mellone”, probabilmente, a causa del nome, di supposta origine di Castellamare (mia ipotesi non suffragata da prove).
“… essendo stato costruito su suolo assegnato esclusivamente ad Antonio Mellone, il quale lo aveva venduto alla Servillo, non poteva parlarsi di comodo comune, espressione impropriamente adoperata all’atto di divisione, ma di semplice servitù, e poiché l’uso della stessa con opere fatte dalla Gargiulo non era stato diminuito, come il perito esaurientemente aveva dimostrato, la Mellone non aveva di che dolersi.”
Essa pare alla Corte “una latrina sulla quale gli altri condividenti e proprietari delle altre quote avessero soltanto un diritto di servitù.” – spettando la proprietà soltanto unicamente a una famiglia. Però: “data la comunione della latrina, uno dei partecipanti non poteva farvi innovazione senza il consenso degli altri.”
La sentenza accoglie per metà la richiesta della ricorrente, e per l’altra metà “la causa va rinviata d’altra sezione della Corte di Appello di Napoli per novello esame, alla quale si stima demandarsi di provvedere anche sulle spese di giudizio.” – chi vivrà e ricorrerà o resisterà vedrà.
Questo è un esempio di quel che fu l’acuto autore di trattati giuridici nonché di sentenze di giustizia civile: Aniello Ambrosio, Magistrato.
Nella Breve nota sulla fondazione ‘Premio Aniello Ambrosio’, la relatrice Lilia Giuliano Ambrosio riporta il ricordo di un parente che rammenta: “la fila di gente che si formava ogni giorno al suo studio per chiedergli dei ‘consigli’ riguardo alle liti in corso. Lui non si risparmiava ed elargiva il suo sapere, sempre disponibile con tutti.”
I “figli dei contadini che lavoravano nei suoi fondi (ereditati dal padre medico)” unanimi “concordano sulla sua umiltà. ‘Signora, salutava tutti’, mi dicono. Questa risposta mi lascia perplessa: perché dare tanta importanza ad un semplice saluto? Mi spiegano che allora i signori, in quanto tali, non erano tenuti a ricambiare il saluto.”
Dovendo evidenziare il suo più che alto esempio di rettitudine, il nipote del Magistrato, “l’avvocato Pasquale Ambrosio”, spiega “che la motivazione alla base del “gran rifiuto”, ovvero il ritiro anticipato dalla professione, fu proprio l’accorpamento delle sedi della Corte di Cassazione a Roma,” poiché comprese come il fascismo intendesse con questa decisione “intaccare l’indipendenza della Magistratura”.
Pertanto, quest’uomo onesto “preferì ritirarsi a vita privata, chiedendo il pensionamento anticipato, nel suo stile, senza fare polemiche”, rinunciando in tal modo, con eroismo sotteso e impalpabile, a esercitare quella che era stata il suo mestiere, che con tanta passione e dedizione aveva esercitato per così lunghi anni.
La sua rinuncia ha acquisito in tal modo un carattere che è diventato universale: non gli interessava solo l’onore, ma anche l’onere di servire la comunità, coincidendo i due aspetti della questione in quell’uomo così virtuoso e raro, e questo in una società dove già imperava l’ambizione di dominare il prossimo e di conseguire successi che potessero soddisfare le brame del proprio ipertrofico Io, piuttosto che le più comuni esigenze dell’Altro.
Pare che l’intitolazione della suddetta via, dapprima annunciata, non fu poi eseguita, rimanendo burocraticamente quella di prima. Mi riservo di andare a controllare in loco, ma… a prescindere da queste miserie, il profumo a cui accenna il sottotitolo del saggio di Iroso appartiene a quell’ormai rara essenza aromatica il cui nome inclito non può essere che Onore.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Luigi Iroso, Aniello Ambrosio – Il profumo della toga, 2021