“Dall’inferno – Due reportage letterari”: “Bestïn” di Orso Tosco; Genova, una città sospesa su infiniti Nulla
Non so se riuscirò a commentare questo racconto, che mi pare fuggevole come pochi. L’unica è provarci, iniziando il cammino, insieme a lui, con na giarlèina in bòca e poi s’andrà dove s’andrà.
Cominciamo dall’inizio, Orso Tosco, se sei d’accordo: “Il re del porto vuol sempre l’ultima parola”. Non si sa chi sia, ma la sua descrizione ne fa un fenomeno umano di cui se ne farebbe volentieri a meno: “… sessant’anni di eroina, tabacco e generalità recitate in caserma, non gli permettono altro che un suono rauco e corto, più simile allo schianto di una carrozzeria contro un…”
I pazzi, si dice, o i malati di mente, o gli alienati, o i sofferenti, i disturbati… si può scegliere fra una gamma di appellativi che si possono sintetizzare con la frase di origine napoletana: quelli che la capa non li aiuta, patiscono un’ingiustizia umana, da cui è però difficile dissociarsi: considerato che è quasi impossibile farsi capire da loro, è legittimo non ascoltarli, perché non significa solo perdere del tempo generico, ma soprattutto guastare quello (normale) che si sta vivendo.
So cosa questo significhi perché da anni ho a che fare (non ho scritto frequento, ma ho voluto dare l’idea che colui di cui parlo mi dà da spesso fare) con un affine bipolare. Affine in che senso?
Con lui talvolta riesco a convivere, talvolta no. Telefonicamente lo sento (e lo ascolto, lo vivo) una decina di volte al giorno. Io e lui siamo, come si dice di due particelle che sono venute a contatto una volta, siamo, dicevo, entangled, in eterna relazione fra noi.
Della pazzia vi è una varietà che, forse esagero?, comprende sette od otto miliardi di casi, contando anche i morti recenti. I sani di mente sono così rari che quando li si incontra non paiono nemmeno loro a posto.
E non sempre gli instabili (altra ottima definizione dei pazzi) vanno d’accordo fra loro. Anche il mio citato solidale, parlando di un suo vecchio amico, non esita a dire che chillo nun sta bbono co’ a câpa…
Orazio, chi è? Innanzi tutto è il protagonista relativo di questo racconto. Non lo è in modo assoluto perché, pur puntando alla solitudine esistenziale, non riesce mai a tenerla accanto a sé: c’è sempre qualcuno che gli sta addosso e gli dice cosa deve fare e come farlo.
Quando scorge il re del porto, Orazio: “si ferma, lungo, magro, con i suoi settanta battiti cardiaci al minuto e i denti gialli, le labbra carnose e la fronte alta, gli occhi tristi o cattivi a seconda della digestione.”
Fra i due si stabilisce un legame che dura all’in circa un attimo e poi si spezza. Il re indica “il porto come fosse un incendio orribile, come si indica uno scandalo grave. Difficile capire quel che il re farfugli subito dopo. Per riuscirvi Orazio dovrebbe avvicinarsi. Ma lui, dopo troppe brutte sorprese, se può evitarlo, le persone non le avvicina mai.” Egli “conosce cose che a tutti gli altri sfuggono: le ha imparate nell’anno in cui è stato in coma. Una scuola speciale e intensiva, che non ammette distrazioni.”
Anch’io ho la fisima di pensare, anzi, di credere che quell’incidente che mi procurai a sette anni
(mentre stavo andando a catechismo, rischiando sul serio la santità, ma un angelo custode mi agevolò all’ultimo istante e mo’ non so dove diamine sarò destinato, dopo quell’estremo passo) e che quella piccola lesione occipitale abbia contribuito a rendermi diverso e forse migliore.
“Eri più morto che vivo.” – dicono un po’ tutti a Orazio. No, Orazio, digli pure che non è affatto vero: eri diversamente morto, o diversamente vivo, il che non cambia assai.
“Loro non possono nemmeno immaginare come il periodo trascorso in coma sia stato in realtà il più attivo, il più proficuo della sua esistenza.”
Non ricordo molto del mio periodo di degenza, se non che godevo le attenzioni di una simpatica infermiera e che gioivo per l’assenza dell’obbligo scolastico. Una goduria, insomma.
“L’incidente stradale non gli ha rubato la memoria, come pensano tutti, no, l’incidente ha barattato la sua memoria fornendogli in cambio memorie altrui.”
Dickens diceva di sé di avere una grande memoria che gli consentiva di immagazzinare infinite situazioni che poi avrebbe utilizzato nella sua scrittura. Ora, né io, né Orazio siamo paragonabili a Charles, però siamo fraternamente correlati.
“Questo è Orazio Lobo, un restauratore. Un restauratore di mondi.”
Egli è un appassionato raccoglitore di oggetti verbali, enormi ammassi di cellulosa in cui “annota tutto, nuovamente, ancora una volta. A casa lo attende una pila di taccuini rosi che valgono quanto un calendario. Un calendario lungo vent’anni.”
Intrigante la sua disamina: “Ogni parola e ogni nome è composta da lettere, ogni lettera ha un peso, un peso specifico.”
Le parole sono pietre, diceva Carlo Levi, e ogni pietra è costituita da frammenti casualmente uniti fra loro e che possono spezzarsi a ogni momento.
“Quelle appese per aria pesano di più. Quelle incollate o dipinte sui muri pesano più o meno come la legna di castagno dopo le prime piogge d’autunno. Quelle scritte o abbandonate in terra pesano poco, come la…”
Per questo le parole fanno pensare, perché indicano gli oggetti che ci circondano e che ameremmo portare per sempre con noi.
“Genova è un’imbarcazione precaria.” – …trovatemi un’imbarcazione che non lo sia e che non ondeggi…
Le persone per bene e sane di mente (solo un po’ depresse) sono a volte le più pericolose. Che dire di Maria Giovanna, che aveva comprato “la nuda proprietà del suo appartamento lasciandogli l’usufrutto…” – contando su un probabilmente prossimo decesso di Orazio, e questo ormai da “ventidue lunghissimi, infiniti anni. E Orazio non muore.”
Per cui la buona massaia “porta il pranzo della domenica a Orazio Lobo.” – aggiungendo “del veleno alle pietanze…” – per accelerarne la dipartita, ma di fatto recandogli un salvifico effetto Mitridate.
Orazio conferisce a ogni lettera una sua prerogativa. Ne cito una a caso: “La lettera I pesa quanto un uovo poggiato sopra il sedile di un aereo a due posti.”
Ne aggiungo un’altra e poi basta: “La lettera V, la lettera Q e la lettera U sono strisce di lava e il loro peso varia a seconda della temperatura.”
Un’altra definizione di questa città verticale: “Vista dall’alto, dal punto scelto dai gabbiani per studiare le strategie di caccia, Genova somiglia al guscio di una enorme tartaruga incagliato dentro una insenatura.” – chissà se su di essa si sia mai posato un elefante?
Orazio sta ora spiegando a una ragazza un aspetto della città: “Ecco, le colonne che lei vede, signorina, ci raccontano il grado di stabilità in cui versa la nostra Genova. Se lei un giorno dovesse trovarle inclinate, o peggio, crollate, allora sappia che entro poco, pochissimo tempo, con tutta probabilità le montagne si avvicinerebbero al mare schiacciando tutto quello che c’è nel mezzo.” – infatti, un senso di ansia mi prese quando il pullman scese, apparentemente sereno, verso la città. Troppe montagne, troppi palazzi alti, troppo mare e troppe curve.
“‘Naturalmente le colonne dicono anche molto altro’, altro fiato, altra apnea. ‘Ma io queste ulteriori informazioni non posso proprio condividerle, mi creda, vorrei, ma non posso. Soltanto a quelli come me spetta questa condanna. No, non condanna, privilegio…’” – io ho sempre diffidato dei profeti e degli aspiranti messia, ti terrò dunque d’occhio, caro il mio Orazio Lobo.
“Genova è una imbarcazione che sfrutta ogni tipo di materiale per non naufragare.” – la quale è una condizione universale, per cui perché dovremmo preoccuparci più del dovuto?
“Bestïn, la vita è una bagascia senza cuore. Non complicare le cose.”
La vita è una bagascia…: che dà in cambio se stessa e vuole in cambio una mercede: è giusto, no?;
… senza cuore: non ci credo, per me la vita è un insieme di cuori che pulsano ognuno per conto suo, ma in un destino comune. Il difficile è rinvenire quello che ho detto prima, la correlazione. Io muto te, tu muti me e, insieme ma, al contempo, ognuno per conto suo, mutiamo l’Altro; e anche la bagascia, così graziosa, e anche lei muta tutti noi. Non sono quindi d’accordo con l’interlocutore di Bestïn.
Dalle nostre bande si dice che ogni coglione ha la sua passione. Quella di Orazio è la scrittura (la propria e l’altrui, e in questo siamo correlati) e poi l’alcol che fa svanire i brutti pensieri. E poi in verità li gonfiano e li deformano, ma belli non diventano mai, né svaniscono.
“… quegli ultimi pensieri vuole allontanarli. Prova a resistere all’influsso negativo dell’alcol. Prova con tutta la forza di cui è capace, ma i pensieri deragliano, si agitano come vermi estratti dalla terra a colpi di vanga…” – uno si fa il mazzo per rigirare la terra e chi trova se non dei parassiti che stanno dissodando per conto loro, ma che poi vogliano per sé il giusto compenso per il loro lavoro non occasionale ma autonomo.
“… Le infinite parole di cui casa è ricoperta lo assalgono, Orazio ne è interamente ricoperto e fatica a respirare…”
Esse sono come vermi, davvero, che si attorcigliano come serpi e che a volte s’introducono nel tuo corpo animale e alloggiano come tenie, incartapecorite ma sempre affamate di quel che un giorno era all’anima tua e che ora loro ne rivendicano la proprietà esclusiva, come quella specie di Lucrezia Borgia di cui dissi poc’anzi.
“… nei suoi sogni Orazio si sente libero, anche quando cade, anche quando precipita e si schianta, Orazio si sente più felice che nella vita da sveglio, perché nei sogni non deve preoccuparsi del peso delle parole. Nei sogni di Orazio non ci sono parole, e senza parole non ci sono bugie e non esistono inesattezze, e tutte le storie convivono nello stesso identico silenzio e nessuno viene legato e a nessuno viene proibito di essere ciò che è.”
Finalmente (tragica antifrasi) arrivano le “Ore 11,36”, quando “una sezione lunga duecentocinquanta metri del Viadotto del Polcevera dell’A10 collassa assieme al pilone di sostegno numero nove, trascinando con sé quarantatré vite umane e i vicoli sui quali stavano viaggiando.”
A volte capita nella vita che una pagliuzza (e tale è il ponte crollato, la stessa Genova, la Terra, la Via Lattea a confronto dell’immensità del cosmo intero), svolazzando, causa un fenomeno che pare a chi vi assiste come la prova generale della prossima fine del mondo.
“Il fragore è disumano. L’enorme nube che si alza a seguito del crollo vela brevemente la scena del disastro, rendendo, una volta che la foschia si è dissipata, ancora più dolorosa e assurda la vista del ponte mancante.”
Orazio, normalmente in equilibrio precario ma quasi immoto, “spalanca la bocca, con la speranza che i denti e il cuore gli crollino in terra. E invece, l’unica cosa crollata resta il Ponte Morandi. Scomparso insieme alla gente che lo…”
Il senso dell’irrimediabilità scuote l’anima di Orazio. “Irrimediabile è l’orrore. Irrimediabile è lo scempio. Irrimediabile è anche la colpa. La colpa di tutti, ma specialmente la sua. Visto che proprio a lui toccava quella zona di Genova, a lui spettava il compito di sorvegliarla, di valutarne la stabilità. Ed ecco cosa è successo. Una catastrofe.”
La colpa non appartiene a chi ce l’ha, ma a chi la sente come sua.
Un pensiero, che già rimescola da tempo nel calderone della sua psiche, lo turba: “… che il peso e la pressione maggiori possano non essere quelle esercitate dalle parole scritte, la sua giornaliera materia di studio, bensì dalle parole mancanti.” – il crollo, che ti fa rimanere senza parole, ne parrebbe una tremenda conferma.
“Non dal silenzio, che è pacifico e accogliente, ma dallo spazio che andrebbe riempito da determinate parole – le più rare, quelle giuste – e che invece resta vuoto. Se così fosse, sarebbe lo spazio stesso, offeso da questo ammanco, a dotarsi di un peso eccessivo in grado di farlo crollare.”
Il ponte era lì, e ora lì c’è l’illusorio nulla. Il ponte non è cessato di essere, ma si è semplicemente spostato verso il centro del pianeta in cui viviamo, seppellendo tutto quello che prima si ergeva verso l’alto. Ogni cosa ora è precipitata verso il basso. Ma il vuoto è apparente. Là dov’era il ponte, ora è l’aria, e dentro l’aria non esiste il vuoto, ma un turbinio indefesso di particelle virtuali che hanno determinato e stanno determinando la caduca realtà altrui.
“Orazio Lobo fa una doccia ogni due settimane, sia d’estate che d’inverno, ed è questo il motivo per cui alcuni lo chiamano Bestïn” – animalescamente aulente (così traduco la definizione del termine indicata dall’autore).
Orazio ora prende nota di tutto, “sono la sua penna e il suo taccuino a dettare ruoli e tempi, non le risa, non gli scherni. Quelli sono soltanto attrezzature di scena. E Orazio li accetta. Si impone di farsi andare bene qualsiasi cosa.”
Sono immaginazioni che coinvolgono i cinque sensi, ma è Orazio che dà loro il corrispettivo nome.
Intanto “i gabbiani volano in cerca come avvoltoi.” – anch’io li ho sempre visti come esseri che volteggiano e attendono la fine di qualcuno che stentatamente si sta affannando quaggiù.
“Le case (quella di Orazio inclusa) sono al momento condannate a vita, ma non si sa se vi sarà prima o poi un indulto per buona condotta e potranno tornare ad alloggiare i più o meno bravi cristiani…”
Il caso, secondo Orazio, è in realtà una sintesi di tutte le azioni compiute dal mondo in un preciso momento… – e io concordo con lui al 99,99 (periodico)%
“Meglio quindi allontanarsi, senza nemmeno gettare un ultimo sguardo indietro, meglio convincersi di abbandonare la propria vita quasi si trattasse del guscio di un insetto costretto a una muta stagionale.” – una nuova forma di esistenza, forse nemmeno più precaria della precedente.
“… tutto quello a cui viene affidato un nome diventa un elemento del mondo, e tutti gli altri elementi prima o dopo faranno a gara per contenderselo…” – ed è il motivo per cui, al momento, Orazio “non vuole sentire i nome delle vittime della strage...” – in tal modo riuscirà a preservare la loro vera memoria, non quella irreale e che pare al momento svanita nel nulla.
“E Genova è una città in discesa, o in salita, a seconda dei punti di vista, ed è normale che tutto rotoli da una parte o dall’altra.” – panta rei, tutto scorre di qua e di là.
“‘Non sta forse tutta qui, la vita’, si domanda Orazio ‘in questa specie di disintegrazione, a cui partecipiamo pensando di fare altro?’”
Non lo so, amico mio. Anche perché, mentre sto scrivendo queste sciocchezze, sono assiso su un divano, col computer posato su una seggiola di legno, e tutto mi pare stabile. Sopra di me c’è il soffitto, e più su ancora c’è il solaio, che in arşân si dice tasèll: il tassello che ospita tutte le nostre lettere che un giorno spunteranno dal passato e tenderanno al futuro, quando le nuove generazioni, dopo averle accuratamente (speriamo!) esaminate, decideranno cosa tenere e cosa gettare. Confido in loro, come adesso tu, Orazio Lobo, devi confidare in me.
Tenterò di salvare non solo il tuo nome e cognome, ma anche quel groviglio di carta che ti stai trascinando per questa stramba città, che mi è parsa dissimile da tutte quelle che ho visitato, forse perché è racchiusa, come hai detto, fra monti e mari, tanto che pare sospesa tra due pesantissimi Nulla.
Eppure, nonostante le sue disgrazie, essa cerca ancora di svettare ardita verso l’alto. E io confido che riuscirà nel suo intento ma, se così non fosse, lodevole è quel suo perenne tendere verso la propria, immaginaria Libertà.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Orso Tosco, Dall’inferno – Due reportage letterari, Bestïn, Minimum Fax, 2021