“David Copperfield” di Charles Dickens – Tomo I: scrivere è sbloccare la propria anima
Vorrei iniziare col commentare l’introduzione di Silvio Locatelli, così profonda e acuta, nonché un po’ bizzarra, tanto che l’avrei voluta scrivere io. Il ritratto che egli fa di Charles Dickens, uomo e scrittore, è talmente ricca di effetti speciali che il lettore difficilmente potrà dimenticarla.
“Dickens è un ottimista inguaribile. Il male non paga, e la bontà viene sempre a galla. La bontà è la vera salvezza dell’uomo, perché essa è in ogni cuore, è dentro, magari nascosta in fondo in fondo, ma se qualcuno riesce a toccarla, eccola venire subito in superficie e far luce intorno a sé. Del resto Dickens non crede nella nequizia. La descrive, è vero, ma non ci crede. La cattiveria per lui ha dei limiti molto modesti.”
Il cuore di una persona vaga per i fatti suoi, ma qualora venga toccato, esso sarà correlato a quello di un suo prossimo, chiunque egli sia, restando, d’allora in poi, entangled.
“Come sempre, il miglior biografo di Dickens è stato egli stesso.”
Egli si descrive come uno scrittore ovunque e comunque, mai sazio né esausto (se non per un po’, dopo la morte della sua adorata cognata Mary): “Scrivevo le parole esatte che avevo udito, scrivevo dentro una diligenza traballante che correva su strade selvagge, scrivevo in ogni luogo e in ogni tempo.”
Il suo segreto: “Dickens aveva una memoria eccellente. Ricordava frasi e discorsi, parola per parola, a distanza d’anni. Ricordava volti visti una sola volta, circostanze e cose cui aveva partecipato o che aveva visto di sfuggita, e questa memoria fu per lui di stupendo aiuto nel ricreare quella realtà cui tanto ambiva, ma che, purtroppo, nelle sue linee forti, vere, rivelatrici d’una verità profonda, gli sfuggiva.”
Si dice che mancasse di acume psicologico, e anche di cultura, quando basta leggere un singolo passo della sua opera per accorgersi di come l’anima lui la vede camminare e inerpicarsi dappertutto, semplicemente descrivendo il suo modo di mutare la sua posizione all’interno del cosmo.
“In considerazione del giorno e dell’ora della mia nascita, la balia e alcune sagge donne del vicinato, che s’erano vivamente interessate di me parecchi mesi prima che vi fosse qualsiasi possibilità di conoscerci personalmente, dichiararono che, in primo luogo, io ero destinato a essere infelice nella vita e, in secondo luogo, che avrei avuto il privilegio di vedere fantasmi e spiriti i quanto entrambi questi doni erano inevitabilmente legati, come esse credevano, a tutti i bambini infelici d’ambo i sessi nati intorno alle ore piccole di un venerdì notte.” Essendo anch’io nato di venerdì, ma solo dopo che i dottori erano tornati dal pranzo, come mi disse mia madre, spero di essere almeno libero di continuare a leggere questo straordinario romanzo.
David Copperfield nacque con una cuffia, che si dice anche camicia, come mia figlia: secondo talune tribù aborigene australiane a questi neonati spetta di diritto (e di dovere) svolgere l’attività di pittore rupestre. Per numerose culture è indice di vita fortunata.
John, il padre di Dickens era uno che, secondo Silvio, “spendeva più di quanto non guadagnasse”. Elizabeth Barrow, la madre, “che gli sembrava così allegra, così briosa, tanto piena di tenerezza per lui, gli si presentò in realtà come una donna pochissimo sensibile, che non ebbe alcuna compassione di lui nel mandarlo, lui così bimbo ancora, in fabbrica…” Pertanto, della madre, “Dickens non dimenticò mai che fu lei a spingerlo nell’orribile fabbrica di lucido”, da cui invece lo trasse il più sensibile padre, permettendogli di studiare regolarmente.
Quando il genitore morì, Charles “lo pianse sinceramente, perché nonostante la sua inettitudine il cuore di quell’uomo era buono e generoso.” – e riuscì a perdonarlo anche della galera per debiti a cui egli fu costretto insieme alla sua disgraziata famiglia.
Più di sua madre, la governante Mary Weller (lo stesso nome della cognata tanto amata) ebbe non poco influsso sul piccolo Charles. “Gli raccontava storie terribili di sangue con immagini di animali giganti che avevano il compito di giustizieri.” – gli amici-nemici ideali per un piccolo i cui genitori erano intenti ad altro che alla sua educazione.
Charles amò la piccola Mary “quieta, dolce, riflessiva”, ma sposò sua sorella Kate, che era “chiacchierina e soprattutto rifuggente da ogni impegno”. La terza sorella, Georgina, “che tanto gli ricordò l’amatissima Mary”, gli fu vicino fino al giorno della sua morte. Un destino speculare capitò, un secolo dopo, al nostro Antonio Gramsci.
Passando ora al romanzo, il padre di David Copperfield ebbe il buon senso di morire sei mesi prima della nascita del figlio. Sua madre era una donna debole e facile alle lacrime e allo svenimento: “dopo aver tentato invano di trattenersi, cominciò a piangere”, “non poteva trattenersi, perciò continuò a piangere finché ebbe esaurito il suo pianto”, “crollò nuovamente e non poté proseguire”, “crollando nuovamente”.
Considerazione di Charles, riportata da Silvio, che non può che essere condivisibile in tutto e per tutto: “io credo che il potere di osservazione di numerosi piccolissimi bambini sia veramente meraviglioso per la sua precisione e accuratezza. Infatti, penso che della maggior parte di adulti che sono rimarchevoli per questo aspetto si possa dire con maggior proprietà ch’essi non abbiano perduto tale facoltà, e non che l’abbiano acquisita” e che la loro “freschezza, gentilezza e capacità di piacere” sono “un’eredità ch’essi hanno conservato della loro infanzia.”
Il narratore di fatti, emozioni e ricordi è come un eterno fanciullo: “perché mi dici: poeta, io non sono un poeta. Io non sono che un piccolo fanciullo che piange”, cantava, gemendo, Corazzini. Oppure che sorride, che si guarda intorno, che cerca di capire, che geme, che si meraviglia. O che esagera nei suoi entusiasmi, che vede Dio dove gli altri non vedono che dell’erba e delle lapidi: “Non v’è nulla altrove, ch’io sappia, che sia lontanamente verde come l’erba di quel cimitero”, e anche: “Ora mi trovo nella parte posteriore del giardino, oltre il cortile dove sono la piccionaia e il canale vuoto: una vera riserva di farfalle, come lo ricordo, con un’alta staccionata e un cancello con lucchetto; dove i frutti s’ammucchiano sugli alberi, più maturi e più saporiti di quanto frutto sia mai stato in qualsiasi altro giardino, e dove mia madre ne raccoglie alcuni in cesto, mentre io le sto accanto ingoiando furtivamente l’uvaspina e cercando di apparire immobile.”
Qualcuno la chiama mitopoiesi, ma occorre saper praticare il mestiere di poeta per poter esercitare questa funzione: per inventar favole, occorre essere favolosi.
David osserva la mamma, che quando “è senza fiato e si riposa su una sedia a bracciuoli, io la contemplo mentre s’attorciglia i riccioli splendenti attorno alle dita e si stringe i fianchi, e nessuno sa meglio di me che a lei piace d’avere un così bell’aspetto e che è orgogliosa d’essere così leggiadra.”
Difficile è immaginare la propria madre bambina. Ancor più arduo è vederla come tale.
In casa, una figura, pur servendo ognuno, governa su tutto, Peggotty (che per caso di chiama Clara, come la madre). Questo mi induce a pensare che qualcosa in lei vi sia della cognata di Charles, che aveva lo stesso nome della sua governante.
Peggotty “mise da parte il suo lavoro (che era una calza sua) e spalancando le braccia mi prese la testa riccioluta fra di esse e le diede una buona stretta.” Ella leggeva al piccolo David un libro che un po’ faceva pensare alle storie che Mary narrava a Charles, e poi gli chiedeva, come fa un’alunna al maestro: “Ora fatemi sentire ancora qualche cosa sui crorkindilli…: in questa finzione è il bimbo che le aveva letto “qualcosa sui coccodrilli”: era David il savio docente, mentre la governante era in difficoltà con la dizione della lingua inglese.
Lo scrittore o, meglio, l’io narrante che ora scrive, si domanda, pensando al viso della madre, che “mutato come ho motivo di ricordarlo, distrutto come so che lo è, – se n’è andato, quando m’è davanti in questo istante, distinto come qualsiasi volto ch’io guardi a caso in una strada affollata?”
Peggotty, però… è un salvavita: “… se, ove ella avesse avuto l’incarico di perdermi come il fanciullo della fiaba, io sarei stato in grado di ripercorrere la via di casa grazie ai bottoni ch’ella avrebbe sparso.” Peggotty chiede a David se vuole andare con lei per “una quindicina di giorni in casa di mio fratello a Yarmoutt” – ed ovviamente “Yarmouth era, tutto sommato, il più bel posto dell’universo.” Lì incontrerà vari generi di anime, fra cui la più oscura è senz’altro “la signora Gummidge”, che “era la vedova” di un marinaio “c’era morto molto povero”.
La quale dice: “Sono una creatura solitaria e derelitta”, “e ogni cosa è cattiva in me”, “e che non solo ogni cosa è cattiva con me, ma io divento cattiva con tutti. Sì, sì, io sento più di quanto sentono gli altri e lo mostro di più. È la mia disgrazia.”, “Io non sono ciò che potrei desiderare di essere”, “Sono lontana dall’esserlo. So quel che sono. I miei guai m’hanno resa cattiva. Vorrei non sentirli, ma li sento. Vorrei essere temprata contro di essi, ma non lo sono. Metto il disagio in casa. Non me ne meraviglio. Ho messo a disagio vostra sorella per tutto il giorno, e anche il signorino David!”, “Se le cose devono diventar cattive con me e io stessa debbo diventare cattiva, lasciatemi andare cattiva alla mia parrocchia. Dan, farei meglio ad andare nella casa di ricovero e morire ed essere una liberazione!” – e frequentarla non recava un’iniezione di ottimismo. Eppure, David (con l’aiuto silente di Charles) se la ricorda con affetto per la sua ineffabile negatività.
L’altro incontro importante è “la piccola Emily”, che “s’era fermata e guardava su in cielo durante la sua enumerazione di questi oggetti, quasi fosse una stupenda visione.” – quegli oggetti erano, sempre ovviamente, “una giacca celeste con bottoni di diamanti, dei calzoni di Nanchino, un panciotto di velluto rosso, un cappello a tre punte, un grande orologio d’oro, una pipa d’argento e una cassetta di denaro.” Ora i due ragazzini sono coinvolti, forse per sempre (io ne sono certo): “Ella disse che mi amava e io non ho alcun dubbio che così fosse.”
A distanza di non so quanti anni, Charles-David scrive: “Io non sento o leggo il nome di Yarmouth, senza riandare una certa domenica mattina sulla spiaggia, mentre le campane sonavano per andare in chiesa, la piccola Emily s’appoggiava alla mia spalla…”
Locatelli afferma che è opinione comune che Charles non abbia profondità psicologica, ma sappia solo descrivere l’umanità. Non sono d’accordo, ma soprattutto non capisco cosa possa significare. Charles-David dà vita alle cose come pochissimi altri (Proust, forse?).
“Se la camera nella quale il mio letto era stato trasferito fosse una cosa sensibile in grado di deporre, potrei appellarmi a essa in questo giorno, – chi vi dorme ora, mi domando” – perché testimoniasse in mio favore quale greve cuore vi portai.
Lei non può parlare, ma sentirti sì, piccolo grande o anziano uomo che sei.
“… guardando la stanza nello stesso modo vacuo e strano con cui la stanza guardava me, sedetti con le manine incrociate, e pensai.”
Sentiva la mancanza di colei che gli aveva detto di amarlo, “strappato via da lei per venire qui, dove nessuno sembrava volermi o badare a me nemmeno per metà di quanto ella faceva.”
Intanto la mammina sua s’era risposata con un uomo trucemente per bene.
“Lasciate ch’io ricordi come avvenivano le cose e ch’io torni indietro a una di quelle mattine.” Ti ringrazio della narrazione, ma sono contento che, al momento, sia finita.
Jane è la nuova direttrice della casa: la casa di chi?
“È davvero duro, – disse mia madre – che nella mia propria casa…” La frase è così infelice, che il signor Murdstone chiede, allibito: “La mia propria casa?” Clara di corregge: “La nostra propria casa, intendo…” – ma forse non è ancora sufficiente, e la poveretta si ri-corregge: “… è davvero duro che nella vostra propria casa io non abbia una parola da dire riguardo alle faccende domestiche, che ora sono governate da Jane”, l’odiosa e simmetrica sorella del signor Murdstone (cognome significa Delitto-Pietra, della serie Occhio che son qui pronto a lapidarti!). La pur timida richiesta di Clara scatena l’ira dei due fratelli e la minaccia di dimissione della cara Jane, subito rientrata, anche grazie al rapido dietrofront della poco ardita Clara.
Dopo una serie di strazi violenti (come David ricorda): “Solo per un istante lo fermai, perché egli mi sferzò con gran forza un momento dopo, e nel medesimo istante io afferrai con la bocca e tra i denti la mano con la quale mi teneva e la morsi a fondo. Il solo pensarci mi fa allegare i denti.” Come premio per quest’azzannata, egli viene spedito a Londra in un collegio a studiare, dal nome tenebrosamente ambiguo: la “Casa di Salem”. E la mamma? “Essi l’avevano persuasa che ero un ragazzo malvagio, ed ella era più addolorata di questo che non per la mia partenza. Lo sentivo con amarezza.” – ma in cuor suo l’aveva perdonato per sempre.
Nel capitolo successivo si narra del suo viaggio e di uno spassosissimo sketch con un cameriere truffaldino, che, da solo, vale un romanzo di mille pagine. Non lo narro, per pudore e per rispetto al vecchio Charles-David.
Una volta giunto in quell’Ade, “fissai lo sguardo sull’aula scolastica nella quale egli m’aveva condotto, ch’era il posto più squallido e desolato che avessi mai visto. Lo vedo ancora.” – e lo descrive con minuzia, come se lo avesse a ogni istante davanti agli occhi.
“Io mi figuro…” – è la frase con cui comincia tre descrizioni, a cui rimando il lettore (mio e di Charles-David): non ho nemmeno in questo caso alcun diritto di trascrivere alcunché.
Il patrigno di David è un genitore violento che cerca di tranquillizzare la pur amata (a modo molto suo) mamma del ragazzino: “Sappiate, Clara – disse il signor Murdstone, – che io stesso sono stato più volte frustato.” Jane conferma quel fatto. Al che la mamma di David, pur balbettando, chiede: “Ma… pensate che ciò abbia fatto bene a Edward?”
Ora David studia in un collegio governato da un sadico: il signor Creakle (cognome questo che significa scricchiolante, crick crock). “Dovrei pensare che non vi può mai essere stato un uomo che abbia goduto della sua professione più di quanto la godesse il signor Creackle. Egli provava una gioia nel fustigare i ragazzi c’era come il soddisfacimento di un appetito insaziabile. Sono certo ch’egli non poteva trattenersi soprattutto davanti a un ragazzo paffuto; che esisteva un fascino in un tale soggetto che lo rendeva mentalmente irrequieto finché non lo avesse segnato e marchiato per la giornata. Io stesso ero paffuto, e dovrei saperlo.”
Thomas Traddles era “il più sfortunato ragazzo del mondo” – ma “era molto retto, Traddles, e considerava un dovere solenne per i ragazzi lo spalleggiarsi vicendevolmente. Per questo ebbe a soffrire in diverse occasioni; e particolarmente una volta una volta, quando Steerforth rise in chiesa e lo scaccino pensò che fosse stato Traddles e lo portò fuori. Lo vedo ora andarsene vai sotto custodia, disprezzato dalla congregazione. Egli non disse mai chi era stato il vero colpevole…”
Steerforth si autoelegge quale protettore di David, che lo ammira, pur non potendo fare a meno di accorgersi delle sue azioni e delle sue parole truffaldine: “Lo ammiravo e l’amavo, e la sua ammirazione era ricompensa sufficiente. Ciò mi era così prezioso, che ora guardo indietro a quelle inezie con cuore dolorante.”
Charles-David considera che “in una scuola retta con assoluta crudeltà, sia essa o no presieduta da un somaro, non è probabile imparare molto.” David si sentiva una specie di “eccezione nell’intero corpo, tanto che raccolsi diligentemente alcune briciole di sapere. In questo fui molto assistito dal signor Mell, che aveva per me una simpatia che m’è grato ricordare.”
L’apprendista stregone, Steerforth raramente perdeva “l’occasione di ferirlo nei sentimenti o di indurre altri a farlo.”
Il signor Mell era timido, impacciato, conscio di essere lì, come si dice, per opera e virtù dello Spirito Santo, e nulla più. Per una sciocchezza come tante altre, avviene il duello finale fra Steerforth e il signor Mell, senza vinti né vincitori, almeno fino a che non appare sulla scena il signor Creakle, a cui l’aspirante aguzzino rivela che il signor Mell ha una madre che “vive di carità in uno ospizio.”
Umiliante verità, che volge la ragione dalla più nobile parte e il torto tutto sulle spalle proletarie di Mell, il quale, pur tremando, mantiene per tutto il duello la massima onestà e dignità. E poi decide di andarsene dal collegio, evento ormai inevitabile. Steerforth sogghigna e viene addirittura ringraziato da Crackle “per avere affermato (sebbene forse con eccessivo ardore) l’indipendenza e la rispettabilità della Casa di Salem, e che concluse con una stretta di mano a Steerforth, mentre noi lanciavamo tre urrà…”
Poco dopo “il signor Crackle bastonò Tommy Traddles perché scoperto in lacrime, invece che di buon umore, per la partenza del signor Mell…” – non essendosi adeguato alla verità di regime.
David, dopo aver convenzionalmente esultato, si sentiva “così pieno di rimorso e di costrizione per la parte avuta in ciò che m’era avvenuto, che nulla mia avrebbe impedito di trattenere le lacrime, se non il timore che Steerforth, che spesso mi guardava, lo vedevo, potesse…” – considerare quella commozione come un atto “poco amichevole”.
La violenza educativa è per le classi abbienti come una specie di iniziazione che bisogna solo accettare, magari svicolando da essa con intelligenza, senza mai però rinnegarla. Per quelle più indigenti essa è soltanto il segno del loro destino fondato su una pur sempre necessaria oppressione.
Ma ora una bella notizia, il signor Peggotty e il giovane pescatore Ham sono venuti a trovare David! “Egli mi sta ancora davanti, col suo volto peloso e cordiale che s’irradia d’un amore e d’un orgoglio gioiosi per i quali non posso trovare descrizione.” Il fatto notevole è che quei due misericordiosi esseri (che hanno portato al loro amato David ogni ben di Dio pescato con le loro proprie mani) siano accettati da Steerforth, che li tratta con un discreto rispetto.
“Il resto del semestre è un confuso rimescolarsi nel mio ricordo delle contese e delle lotte quotidiane della vita…” – e “tuttavia ricordo bene come la distante idea delle vacanze, dopo essere sembrata per un tempo immenso un puntino stazionario, cominciasse a venire verso di noi e a ingrandire sempre più.” – anche a me faceva sempre questo effetto!
“Ah, quale strana sensazione era quella d’andare verso casa quand’essa non era più la mia casa, e di trovare che ogni oggetto che guardavo mi ricordava la mia felice vecchia casa, che era come un sogno e che non avrei mai più potuto sognare!” – no, Charles-David, lo sai che non è così: il ricordo (chiamalo sogno se vuoi) mantiene viva la realtà di noi stessi fino a che ci ricordano (o ci sogniamo) continuiamo a esistere (per l’eternità!).
“Dio sa quanto può essere stato infantile il ricordo che si destò in me al suono della voce di mia madre nel vecchio salotto, quando misi piede nel vestibolo. Ella stava cantando sottovoce. Penso che devo essere stato tenuto fra le sue braccia e d’averla udita cantare a me questo modo quand’ero soltanto un poppante. La melodia m’era nuova, eppure essa era così vecchia, che mi fece traboccare il cuore; come il ritorno d’un amico dopo una lunga assenza.”
A David intanto era nato un fratellino! A pranzo (con mamma e Peggoty, mentre i due perversi fratelli erano provvidenzialmente “in visita nelle vicinanze” e “non sarebbero tornati prima di sera”) “io ebbi il mio vecchio piatto, con la veduta bruna di una nave da guerra a piena velatura su di esso, che Peggotty aveva gelosamente custodito in qualche posto per tutto il tempo ch’ero stato via, e che non avrebbe voluto vedere rotto, diceva per cento sterline. Ebbi il mio vecchio boccale con la scritta David e i miei vecchi coltellino e forchettina che non volevano tagliare.” Il gioco è bello se dura poco, fino a quando non rientrano i due arcigni consanguinei.
“Mi sentii a disagio all’idea di andar giù per la prima colazione il mattino, poiché non avevo più alzato gli occhi sul signor Murdstone dal giorno in cui avevo commesso il mio delitto memorabile. Tuttavia, siccome doveva essere fatto, andai giù, dopo due o tre false partenze a mezza via e altrettanti ritorni in punta di piedi alla mia stanza, e mi presentai in salotto.” – dove David si dichiara “dolentissimo per quanto feci, e spero che mi vorrete perdonare.” Considerazione successiva di David: “Insomma, non ero il prediletto della signorina Murdstone. Insomma, là non ero il prediletto di nessuno, nemmeno di me stesso; perché coloro ai quali piacevo non lo potevano mostrare, e coloro ai quali non piacevo lo mostravano così chiaramente, che i avevo una sensibile consapevolezza d’apparire sempre costretto, maleducato e ottuso.”
Quando l’orrido signor Murdstone riprende giustamente la moglie perché ha osato mettere in dubbio che la cognata conoscesse bene David, “le labbra di mia madre si mossero, come s’ella rispondesse ‘Sì, mio caro Edward’, ma ella non disse nulla ad alta voce.” A un nuovo attacco feroce del feroce patrigno contro il figliastro, “vidi mia madre sporgere involontariamente la sua mano tremante come per interporsi fra di noi.”.
“Sorvolo su tutto ciò che avvenne a scuola finché ricorse in marzo il giorno anniversario della mia nascita.” – infatti il capitolo si intitola Ho un compleanno memorabile.
“Il signor Sharp entrò e disse ‘David Copperfield vada in parlatoio.’ Aspettavo un paniere da Peggotty e mi rallegrai a quell’ordine.”
Il signor e la signora Creakle lo stanno attendendo e il loro viso è stranamente mesto, tre verità una che senza soluzione di continuità conduce all’altra:
“… m’addolora dirvi che mi si informa stamane che vostra madre è molto ammalata.”
“Ella è gravissimamente ammalata”
“È morta.”
David lascia “la Casa di Salem il pomeriggio del giorno dopo. Pensai appena, allora, che la lasciavo per non tornarvi più.” Il signor Murdstone è distrutto, e piange silenziosamente, mentre la sorella è imperturbabile: “Non dubito ch’ella aveva uno squisito piacere nello sbandierare in tale occasione ciò che chiamava il suo sangue freddo, la sua fermezza, la sua forza d’animo, il suo buon senso e l’intero diabolico catalogo delle sue poco amabili qualità.” David viene condotto nella camera. “Ricordo soltanto che sotto una certa bianca copertura del letto, con una bella lindura e freschezza tutt’intorno, mi sembrò che giacesse incarnata la solenne quiete che era nella casa; e che quand’ella volle rialzare lentamente la copertura io gridai: ‘Oh no! oh no!’ e le trattenni la mano. Se il funerale fosse stato ieri, non lo potrei ricordare meglio: l’aspetto perfetto del salotto buono quando m’affacciai alla porta, la vividezza del fuoco, il brillare del vino nelle caraffe, il disegno dei bicchieri e dei piatti, il vago dolce profumo di torta, l’odore della veste della signora Murdstone e i nostri abiti neri…”
Una sera Clara aveva detto al marito: “Mio caro, sento che sto per morire.” Poi, mentre la governante la metteva a letto: “Ora mi son tolta il pensiero, Peggotty” – disse, pregando Dio di benedire i suoi “due bambini”! “Dio protegga e aiuti il mio ragazzo senza padre!” – ma con un tale arcigno padrino…
“L’ultima notte, alla sera, mi baciò e mi disse: ‘Se anche il mio bambino dovesse morire, Peggotty, per favore fate ch’essi me lo collochino fra le braccia e ci seppelliscano assieme’ (Ciò fu fatto; perché il povero agnellino le sopravvisse soltanto un giorno.)” Clara “morì come un bambino che si fosse addormentato!”
Estrema considerazione di Charles-David: “Può essere strano, ma è vero. Nella sua morte ella era tornata, librandosi in volo, alla sua calma e serena gioventù, e aveva cancellato tutto il resto.
La madre che giaceva nella tomba era la madre della mia infanzia; la creaturina nelle sue braccia ero io stesso, com’ero stato una volta, placato per sempre sul suo petto.” Un minuscolo, prezioso, pur gelido, frattale di David (e di me nonché di numerosi altri umani).
Il futuro di David è incerto… Solo ora sto pensando che il Martín romanziere, protagonista di un paio di libri di Zafón si chiama David. Dickens è uno degli autori più amati dallo scrittore catalano. Il futuro del nostro eroe è incerto, ma il presente non è poi così male, quando la coppia di fratelli che comandano la sua vita gli consentono di recarsi, insieme alla licenziata Peggotty, dai suoi parenti. Lì potrà rivedere la sua Emily, che un po’ è cambiata, ormai è una donnina, anche un po’ maliziosa. Colà gli sarà possibile ascoltare di nuovo le autocommiserazioni della derelitta Gummidge: “Se io sentissi meno, potrei fare di più. Voi non sentite come me, Daniel; le cose non sono cattive con voi e nemmeno voi con esse; fareste meglio a farlo voi stesso” – Daniel, come il Sempere de “L’ombra del vento” di Zafón.
Il patrigno di David è un groviglio di intenzioni alcune (poche) buone, altre (tante) assurde. Ordina al bambino di iniziare ad affrontare la vita, dicendogli, tra l’altro: “Ciò che vi sta davanti è una lotta col mondo; e quanto prima la comincerete tanto meglio è.” Commenta Charles-David: “Credo che mi venisse in mente d’averla già cominciata nel mio piccolo: ma mi fosse o no venuto in mente, mi viene ora.” A volte si giunge alla consapevolezza di qualcosa d’importante, magari a seguito di un tragico avvenimento, che pare così evidente, che si ha l’impressione che dentro di noi stesse covando dall’inizio della nostra esistenza.
David deve partire. E chiede al lettore: “Osservatemi, il mattino dopo, con un cappelluccio bianco molto logoro e con un crespo nero attorno per via di mia madre, una giacchetta nera e un paio di ruvidi e rigidi calzoni di velluto a coste che la signorina Murdstone considerava la migliore corazza per le gambe in quella lotta col mondo che ora doveva svolgersi: osservatemi così acconciato e con tutte le mie piccole cose terrene davanti a me in un bauletto, seduto, fanciullo solitario e derelitto (come avrebbe potuto dire la signora Gummidge), nella corriera che stava portando a Yarmouth il signor Quinion per la diligenza di Londra!”
Talvolta mi chiedo, e non solo ora con questo infinito scrittore, perché scelgo di riportare alcuni passi e non altri. Non so rispondere con certezza alla domanda, ma so ipotizzare una risposta qualsiasi: perché non posso evitarlo.
“Guardate come la nostra casa e la chiesa vanno impicciolendo in lontananza: come la tomba sotto l’albero è cancellata da oggetti che s’interpongo, come il campanile non spunta più dal mio vecchio terreno di giuoco e come il cielo è vuoto!.” Si tratta di illusioni o di realtà? L’idea della vacanza si allargava sempre di più e ora il paesino va scomparendo. A volte ci si chiede se il nostro passato sia realmente esistito. Per non parlare del futuro.
Comincio la vita per mio conto, ed essa non mi piace è il significativo titolo dell’undicesimo capitolo: “Mi sembra sorprendente che nessuno avesse mosso un dito a mio favore. Ma nessuno lo mosse; e io divenni, all’età di dieci anni, un piccolo garzone operaio al servizio di Murdstone e Grinby.” – David ancora non si è reso consapevole che non appartiene più a nessuno e nessuno appartiene più a lui.
“Il profondo ricordo della sensazione che ebbi d’essere allora completamente senza speranza, della vergogna che provai della mia posizione, del tormento che patii nel mio giovane cuore nel reputare che giorno per giorno ciò che avevo imparato, e pensato, e in cui m’ero dilettato, e aveva suscitato la mia fantasia e la mia emulazione, se ne sarebbe andato da me a poco a poco e non sarebbe più tornato, non può essere scritto.” – invece ci sei riuscito magnificamente, Charles-David!
“… io mescolavo le mie lacrime con l’acqua nella quale stavo lavando le bottiglie, e singhiozzavo come se avessi un’incrinatura nel petto e questo fosse in pericolo da scoppiare.” – evento che non è avvenuto, dai…
Fosti assunto presso la Murdstone & Grinby, “con un salario, credo, di sei scellini alla settimana. Non sono sicuro che fossero sei o sette. Sono portato a credere, data la mia incertezza su questo particolare, che fossero dapprima sei e sette successivamente.” – e tu, Charles, ricordi quando davano all’ora a quel bimbetto che eri, costretto dalla mamma a sgobbare come uno schiavetto nella tua prima fabbrica?
Charles-David è pure incerto a chi gli disse “che il signor Micawber era stato ufficiale di Marina o se l’ho immaginato. So soltanto che reputo in questo momento, senza sapere perché, ch’egli fu nella Marina a suo tempo.”
Charles-David ogni tanto usa delle ripetizioni musicali: “So di non esagerare, inconsciamente e involontariamente, la ristrettezza delle mie risorse o le difficoltà della mia vita…”; “So che se uno scellino mi veniva dato dal signor Quinion in qualunque momento, io lo spendevo in un desinare o in un te.”; “So che io, meschino fanciullo, lavoravo dal mattino alla sera…”; “So che gironzolavo per le strade…”; “So che, se non fosse stato per la misericordia di Dio, sarei facilmente potuto diventare…” E anche: “Sapevo dal principio che, se non avessi potuto compiere il mio lavoro altrettanto bene degli altri, non avrei potuto pormi fuori degli affronti e del disprezzo.”
Come già capitò alla famiglia Dickens, anche i Micawber furono costretti dalle loro insolvenze a un periodo di prigionia… Il buon signor Micawber ricorda così tanto il papà di Charles…
“Annoto qui questo mio ricordo perché esso è un esempio per me dal modo in cui adattavo i miei vecchi libri alla mia vita mutata e creavo storie per me, ispirate dalle strade e dagli uomini e donne, e di come taluni punti principali del personaggio ch’io inconsciamente svilupperò, suppongo, nello scrivere la mia vita, venissero gradualmente formandosi in tutto questo frattempo.” Ogni scrittore finisce per trascrivere il suo Destino, e talvolta il Fato glielo pubblica.
Ancora una ripetizione: “Quando giornalmente camminavo su e giù fra Southwark e Blackfriars, e andavo bighellonando all’ora dei pasti per strade oscure, le cui pietre possono, per quel tanto che so, essere a quest’ora consumate dai miei piedi infantili, quante di quelle persone, mi domando, erano venute a mancare dalla folla che soleva tornare a sfilarmi davanti in rivista all’eco della voce del capitano Hopkins! Quando i miei pensieri rivanno ora a quella agonia della mia gioventù, mi domando quanto delle storie che io inventai per tale gente sia sospeso come un velo di fantasia su fatti ben ricordati! Quando calpesto il vecchio suole, non mi meraviglio che mi sembri di vedere e di compatire, mentre procede davanti a me, un ragazzo innocente e romantico che si crea il suo mondo immaginario da tali strane esperienze e sordide cose!”
Charles-David, se il mondo non fosse sordido, di cosa si potrebbe mai narrare, in fondo?
La signora Micawber definisce, pietosamente, il marito “imprevidente”. Egli sa essere più preciso: “Reddito annuo venti sterline, diciannove scellini e sei pence; risultato: felicità. Reddito annuo venti sterline; spesa annua venti sterline, zero scellini e sei pence; risultato: tormento.” John Dickens andava anche oltre a quei sei pence. Ma Charles gli voleva ugualmente bene.
Micawber si propone come maestro di vita per il piccolo David: “Se, col progredire degli anni ricorrenti, potessi persuadermi che il mio destino frustrato è stato un ammonimento per voi, sentirei di non aver occupato del tutto invano il posto di un altro uomo nell’esistenza.”
Il dodicesimo capitolo finisce con la risoluzione di dirigere la propria esistenza in direzione “Dover, portandomi via dal mondo, verso il ritiro di mia zia Betsey…” – strano tipo di donna, il cui carattere aspro e reattivo il lettore venne a conoscenza nel primo capitolo del romanzo (e che poi ha cercato inutilmente di dimenticare). Era una prozia di David Copperfield senior, padre deceduto del nostro eroe.
Pernottando all’esterno della casa di Salem, David non può fare a meno di pensare a Steerforth: cognome che in inglese significa sterzare via: ideale per la prima scelta esistenziale di David.
Giunto a casa della zia, e fattosi riconoscere e accogliere, Charles-David descrive con minuzia “la stanza” che “aveva la stessa lindezza di Janet o di mia zia…” e poi conclude l’elenco di oggetti: “e, meravigliosamente in disarmonia con il resto, me stesso impolverato sul sofà in atto d’osservare ogni cosa.”
Ricordo che, nel primo capitolo, zia Betsey era certa che la svenevole Clara covasse in grembo una bambina e quando il dottorino le disse: “… pensavo che l’aveste saputo. È un bambino.”, questa “non disse una parola, ma prese il cappello per i nastri, a guisa di una fionda, lanciò con esso un colpo sulla testa del signor Chillip, se lo mise in testa piegato, uscì e non torno più.” Ora zia Betsey rammenta quel fatto: “Quell’ometto d’un dottore, con la testa da un lato” – (ma non si rammenta bene come si chiamasse: “Jellips, o quale che fosse il suo nome, che stava facendo? Tutto ciò che poteva fare era dirmi, da quel pettirosso che è, ‘È un maschio’. Un maschio! Puah, l’imbecillità di tutta la loro razza.” È sorprendente come il benestante descritto da Charles-David sia spesso così ingiusto, prepotente e truffaldino nei confronti di chi, a vario titolo, sia costretto a esercitare un qualsivoglia mestiere che gli consente di mantenersi onestamente. A volte si assiste a un’ancor più vile lotta fra gli stessi miserabili. Prima di giungere dalla prozia di suo padre, David propone a un “giovane spilungone” di “trasportare una cassetta” fino “alla Rimessa delle Diligenze per Dover per sei pence.” Al che il tipo stralunato afferra David “per il colletto della giacca, con un ghigno pauroso” e lo minaccia di portarlo alla “polissia”, per non so quale reato, che invece compie lui derubandolo sia della cassetta che dei soldi. E lo chiama pure “bricconcello”. Uno stagnino violento, dopo avergli dato del “ladruncolo”, gli “tolse dal collo il fazzoletto” dopo avergli detto che apparteneva a suo fratello, “e, mettendoselo attorno al collo senza legarlo, si voltò verso la donna con una bestemmia e l’atterrò con un colpo.” – da notare che David aveva appena notato che aveva “un occhio pesto”. In modo differente, ma analogo, anche fra le classi abbienti hanno luogo simili conflitti.
Miss Bentey, che è una donna che nelle cose ci vuole vedere chiaro, aveva avvertito il padrino di David che il ragazzo era sbarcato a casa sua. Un dì i due fratelli Murdstone si presentano e la zia li affronta verbalmente senza mostrare alcun timore. È ammirevole la sua capacità di tener testa a quei due tipi, senza smettere un attimo di guardare negli occhi il signor Murdstone e sostanzialmente ignorando i veleni sputati dall’infame sorella. Dopo aver esaminato senza sbagliare in nulla di quello che poteva essere successo alla povera Clara, “quella povera bambina”, dopo che aveva conosciuto il suo secondo marito, la chiama “la più spirituale, la più infelice, la più sventurata piccina” (il che mi fa pensare che forse Charles, dentro di sé, nel crearla un po’ pensasse all’amata Mary).
Il signor Murdstone dice alla prozia di David, che è venuto per ricondurre a casa il ragazzo, che dice la sorella Jane, “di tutti i ragazzi del mondo, reputo questo il peggiore”. È forse tale in quanto è l’unico che ha osato disubbidire alla sacra legge dei Murdstone. Che però vale meno di nulla a casa della prozia. La quale alla fine li scaccia da casa, come si fa con gli impostori, avendo ormai deciso di tenere con sé il nipote.
“Le due cose più chiare che avevo nella mia mente erano che una lontananza si era sovrapposta sulla vecchia vita di Blunderstone, che sembrava giacere nella nebulosità di una distanza incommensurabile; e che un sipario era calato per sempre sulla mia vita alla Murdstone & Grinby. Nessuno da allora ha mai alzato quel sipario.” Nessuno a parte te, Charles-David.
“L’ho tirato su per un momento, persino in questa narrazione, con mano riluttante, e l’ho lasciato cadere volentieri. Il ricordo di quella vita è carico di tanta pena per me, di tanta sofferenza mentale e di mancanza di speranza, che non ho persino mai avuto il coraggio di esaminare per quanto tempo fui condannato a trascinarla. Io non so se durò per un anno, o più, o meno. So soltanto ch’essa ci fu, e cessò d’essere e che l’ho scritta e là la lascio.” E qui io la prendo, caro il mio Charles-David.
Zia gli chiede se vuole continuare i suoi studi, David accetta e quindi lei se lo scarrozza fino a Canterbury. Il primo personaggio che incontra a casa del signor Wickfield è quell’Uriah Heep, che così tanto mi aveva inquietato quando nel 1965 mi capitò di seguire lo sceneggiato Rai dedicato al capolavoro di Charles. A interpretarlo fu un pressoché diabolico Alberto Terrani, un essere duplice come pochi, a cui Alberto riuscì a conferire un’anima immortale (che ancora si agita in modo ambiguo dentro di me).
“… vidi un viso cadaverico apparire a un finestrino del pianterreno (in una torretta circolare che formava un lato della casa), e rapidamente scomparire.” E Charles-David continua nella sua sgomenta descrizione: “Era propria cadaverica come era apparsa alla finestra, sebbene vi fosse sulla sua grana quella sfumatura di rosso che talvolta si osserva sulla pelle delle persone coi capelli rossi.”
Quel “giovane di quindici anni” risponde educatamente alla richiesta della zia se “è in casa il signor Wickfield”. C’è. E i due adulti combinano il futuro del nostro infante, che non può fare a meno di incontrare talvolta con lo sguardo “il viso pallido di Uriah Heep”, che sembra non essere attento alle persone presenti ma che invece David non può fare a meno di accorgersi “che, di tanto in tanto, i suoi occhi insonni si mettevano sotto la scrittura, come due rossi soli, e di soppiatto mi fissavano, oserei dire, per un intero minuto ogni volta, durante il quale la sua penna andava, o fingeva d’andare, con la stessa abilità di sempre.” Ecco a cosa paiono i suoi occhi: quelli di un cobra che tenta d’ipnotizzare una scimmietta! Da notare infine che Heep in inglese equivale a Ehilà!
David poi si avvede di una ragazzina che tanto assomiglia a un viso ritratto in un quadro posto, insieme quello di un anziano signore, “d’una signora, con una placidissima e dolcissima espressione del viso, che mi guardava.” Sul viso della ragazzina “vidi immediatamente l’espressione placida e dolce della signora il cui ritratto dabbasso. Alla mia immaginazione sembrò come se il ritratto fosse cresciuto sino a diventar donna mentre l’originale era rimasto bambina.” Era Agnes, figlia del signor Wickfield, “la sua piccola massaia”.
Dice Charles-David: “Non posso richiamare alla mente dove o quando, nella mia infanzia, avessi visto una vetrata istoriata in una chiesa. E nemmeno ne ricordo il soggetto. Ma so che quando vidi Agnes voltarsi, nella luce solenne della vecchia scalinata, e aspettarci in alto, pensai a quella vetrata; e che sempre, da allora in poi, associai qualcosa della tranquilla luminosità di questa con Agnes Wickfield.”
Uriah continua a turbare e anche un po’ ad affascinare il giovane David: “Ci eravamo appena seduti, quando Uriah Heep introdusse nella porta la sua testa rossa e la sua mano scarna…” Egli aveva una vista stroboscopica e periferica da far invidiare un moscone: “Mentre teneva aperta la porta con la mano, Uriah mi guardava,e guardava Agnes, e guardava i piatti, e guardava il vasellame, e guardava ogni oggetto della stanza; così almeno mi parve; eppure sembrava non guardare nulla; egli diede quest’impressione, pur tenendo per tutto il tempo i suoi occhi rossi rispettosamente sul suo padrone.”
David è piacevolmente combattuto: “Amo la piccola Emily, e non amo Agnes, – no, nient’affatto in quel modo, – ma sento che la tenue luce della vetrata istoriata nella chiesa, veduta tempo fa, cade su di lei sempre, e su dime quando le sono vicino, e su ogni cosa attorno.” Emily è il suo mondo ormai perduto, Agnes è il nuovo cosmo che splende su di lui.
Qualcun altro è un satellite dall’orbita imprevedibile: “Sono ben consapevole d’essere la persona più umile del mondo – disse Uriah Heep modestamente – ovunque possa essere quella che viene prima di me. Mia madre è parimenti un’umilissima persona. Viviamo in un’umile abitazione…” E il padre, che era un umile sagrestano: “… è ora partecipe della gloria, signorino Copperfield…” – di dio, ovviamente. Egli è il numero uno degli umili e sogna anche lui una forma di gloria, immagino.
Intanto David sta cercando di recuperare gli anni perduti, sia nei giochi infantili che negli studi e presto “mi guadagnai grandi elogi” e “in un brevissimo tempo, la vita alla Murdstone e Grinby mi divenne così estranea, che a stento potevo credervi, mentre la mia presente vita mi divenne così familiare, che mi sembrò d’averla condotta da lungo tempo.”
Due nuovi personaggi (ce n’è però una miriade di cui potrei dire) che meritano una menzione: l’anziano dottor Strong e Annie, la sua giovanissima moglie, altra ipostasi di Mary, cognata di Charles. Il primo da decenni sta scrivendo un dizionario etimologico basato sui suoi infiniti studi di greco. Della seconda che dire se non che i suoi “occhi erano spalancati, e i capelli scuri le cadevano in due cascate di riccioli sulle spalle e sulla veste bianca scompigliata dalla mancanza del nastro perduto. Pur ricordando distintamente il suo sguardo, non posso dire che cosa esso esprimesse. Non posso nemmeno dire che cosa mi pare esprima ora che risorge davanti al mio giudizio maturo. Penitenza, umiliazione, vergogna, orgoglio, amore e fiducia: vedo tutto ciò; e in mezzo a tutto ciò vedo quell’orrore di non so che cosa.”
Il dottore e il buffo Dick, che normalmente convive con zia Betsey, un personaggio che non so perché l’ho finora ignorato, ma che è davvero unico, non troppo a posto con la testa, ma che migliore non può essere, inesorabilmente diventano amici. Entrambi sono intenti da anni alla compilazione di un loro libro, che pare infinito: il dottore sta curando il suo dizionario, Dick un ormai eternamente incompiuto memoriale (ma nelle pause ama far volare un aquilone), in cui entra ed esce, con o senza testa, non si sa perché non sappia mai decidersi, re Carlo I d’Inghilterra.
Dick, che nella sua leggera follia sa donare alla zia la risposta giusta per ciascun evento, si è talmente affezionato a David che ogni mercoledì va a trovarlo (probabilmente è il giorno più felice della sua settimana).
“Se penso a loro nell’atto d’andare su e giù davanti a quelle finestre dell’aula, – il dottore intento a leggere col suo sorriso compiaciuto un’occasionale abbellimento del manoscritto o un solenne concetto scaturitogli in testa, e il signor Dick intento ad ascoltare, incatenato dall’interesse, con le sue povere facoltà mentali vaganti tranquille Dio sa dove sulle ali di parole difficili, – ci penso come a una delle cose più piacevoli, in modo tranquillo, che io abbia mai veduto. Sento come se essi potessero continuare a passeggiare su e giù per sempre, e il mondo potesse, in qualche modo, divenire migliore per questo fatto; come se mille cose intono alle quali il mondo fa un gran chiasso contassero meno di metà per esso o per me.”
Charles-David: a thing of quietness is a joy for ever…
David va a far visita all’umilissimo Uriah e all’altrettanto umile mamma, che non potrebbero essere più sedicenti tali. La loro principale differenza è che Uriah si contorce e si aggroviglia come un ofide mentre parla: “Con le lunghe mani che lentamente s’attorcigliavano l’una sull’altra, Uriah fece un orrendo contorcimento dalla vita in su per esprimere il suo consenso per questo giudizio su di me.” – gli aveva appena detto che lui era “un intelletto capace di acquisire la conoscenza dei classici al massimo grado.”
Chi non muore si rivede (capita spesso nel romanzo di Charles-David): un sempre più insolvente e pur beatamente disperato signor Micawber (accompagnato dalla sua dolce e comprensiva metà, forse leggermente più angosciata del coniuge) spunta forse dal nulla e gli dice: “… questo è davvero un incontro che è calcolato per imprimere nella mente il senso dell’instabilità e dell’incertezza di ogni umano… insomma, è il più straordinario degli incontri. Camminando per la strada, riflettendo sulla probabilità che qualcosa capiti all’improvviso (del che sono presentemente piuttosto fiducioso), mi vedo capitare all’improvviso un giovane ma stimato amico, che è connesso col periodo della mia vita più ricco d’avvenimenti; posso dire con la svolta risolutiva della mia esistenza. Copperfield, mio caro compagno, come state?”
Per la cronaca questa svolta esistenziale, anche se fosse davvero cominciata, sarebbe assai lontana dal perfezionarsi. David è felice di vederlo (come capitava a Charles col padre scialacquatore), ma “mi sentii nel complesso sollevato dal fatto che se n’erano andati; sebbene volessi ancora loro moltissimo bene, nonostante tutto.”
Gli anni passano, inevitabili e a modo loro sereni. A un certo punto, a David viene concesso (quasi comandato) dalla zia di uscire per qualche settimana nel mondo, per vedere come gira e come potrebbe egli girargli appresso. David capita nei pressi del suo ex collegio: “… e oltrepassammo l’autentica Città di Salem, dove il signor Creakle aveva inflitto castighi con mano pesante, avrei dato tutto ciò che possedevo pur d’ottenere il permesso legale di scendere per sferzarlo, e liberare tutti i ragazzi come altrettanti passeri ingabbiati.” A chi non è capitato di tornare in qualche luogo dove si è sentito oppresso da qualche autorità ormai così distante da parere irreale?
“Steerforth! Non volete parlare con me?” David ha appena incontrato il suo amico protettore che in un primo tempo non lo riconosce. Ma poi i due solidali s’abbracciano felici. Steerforth lo porta a casa, dalla sua mamma che, come lui, è un decisamente snob. Ecco la definizione ch’egli fa della povera gente: “‘Ebbene, v’è una separazione abbastanza ampia fra loro o noi – disse Steerforth, con indifferenza. – Non v’è d’aspettarsi che essi siano sensibili quanto noi. La loro delicatezza non è tale da essere urtata o ferita molto facilmente. Sono meravigliosamente virtuosi, oserei dire… taluni lo contestano, per lo meno; e indubbiamente non desidero contraddirli… ma essi non hanno una natura delicatissima, e possono ringraziare il Cielo che, come la loro pelle rozza e ruvida, è difficile ferirli.”
Questa è l’illuminata definizione di “Quel genere di persone” che “sono realmente animali e zolle...” – come ha tentato di inquadrarli la signorina Dartle, un tipino strano e inquieto che un po’ impressiona il giovane David, che aggiunge, sempre in riferimento a quelle bestiole: “È un tale piacere sapere che, quando soffrono, essi non lo sentono. A volte mi sono sentita proprio a disagio per quel genere di persone; ma ora rinuncerò completamente a essere in pensiero per loro. Vivere per imparare. Avevo i miei dubbi, lo confesso, ma ora sono stati chiariti. Non sapevo, e ora so; e ciò dimostra il vantaggio di domandare… non è così?” Sì, certo, a questo servono i maestri, soprattutto i peggiori, a sciogliere i dubbi…
David bussa a casa di Peggotty, ormai felicemente sposa del signor Barkis, cocchiere buono pur nella sua anima avara, che dapprima non sa riconoscerlo: “Non avevo mai smesso di scriverle, ma dovevano essere trascorsi sette anni da quando vi eravamo incontrati.” E che poi quasi non regge alla gioia: “Ella gridò: ‘Mio diletto ragazzo!’ ed entrambi scoppiammo in lacrime, serrandoci l’uno nelle braccia dell’altro.”
Il venticinquesimo capitolo s’intitola non a caso Angeli buoni e cattivi. Fra i buoni c’è sicuramente Agnes, che mette in guardia David nei confronti di Steerforth, e le confida di certi piani ambiziosi di Uriah Heep, e spunta quasi dal nulla il vecchio compagno di collegio Traddles, che è rimasto quello che era, un’anima candida in attesa del destino. Secondo il signor Waterbrook, “egli è uno di quegli uomini che si danneggiano da sé. Sì, direi ch’egli non volle mai, per esempio, essere valutato cinquecento sterline…” – e continua a descriverlo con un misto di tenerezza, stima e velato disprezzo. Traddles è avviato verso il mestiere di avvocato, mentre David decide di diventare procuratore. Fra quelli da evitare, in attesa degli eventi, c’è Uriah Heep, “coi suoi occhi senz’ombra e con la sua faccia cadaverica” che li “stava squallidamente guardando con disprezzo da dietro” e che, a un certo punto, “si contorse con tale importuna soddisfazione e autoumiliazione, che l’avrei volentieri scaraventato oltre la ringhiera.”, lui e le sue “lunghe dita scheletriche” “ancor più lunghe” essendo inserite in “un grande paio di guanti scheletrici”. Nonostante questo, David lo invita a casa sua: “Mi piacerebbe moltissimo, – rispose Uriah, con un contorcimento.” Per un particolare che non vale nemmeno la pena di essere descritto, Uriah “manifestò tanta commozione, che avrei gioiosamente voluto scottarlo.”
A completare lo sconcerto che Uriah ispira a David, due fatti avvilenti: Uriah sta affiancando come socio il padre di Agnes, e di quest’ultima sin dichiara molto umilmente e profondamente innamorato: “… l’immagine di Agnes, oltraggiata dal solo pensiero di quell’animale dalla testa rossa, mi rimase nella mente quando lo guardai, seduto tutto storto come se la sua anima spregevole gli chiudesse in una stretta il corpo, e mi sentii còlto dalle vertigini. Egli sembrò gonfiarsi e crescere dinanzi ai miei occhi; la stanza sembrò piena degli echi della sua voce; e la strana sensazione (alla quale, forse, nessuno è completamente estraneo) che tutto ciò fosse accaduto prima, in qualche tempo indefinibile, e che sapessi ciò che s’accingeva a dire, s’impossessò di me.” Steerforth, dal canto suo, va prudentemente inserito nella lista dei non ancora giudicabili.
Il ventiseiesimo capitolo è Cado in cattività, e presto si capirà in che modo. Agnes parte: “ella agitando la mano e dandomi l’addio con un sorriso dal finestrino della vettura, il suo cattivo genio contorcendosi sull’imperiale come se l’avesse fra gli artigli e trionfasse”: un Satana che tenta di calpestare una Madonna.
“Dora! – pensai. – Che bel nome!” – che vale un pezzo notevole del suo futuro. “Tutto fu compiuto in un momento. S’era adempiuto il mio destino. Ero un prigioniero e uno schiavo. Amavo Dora Sparrow alla follia! Ella era per me più che un essere umano. Era una fata, una silfide, non so che cosa fosse… qualunque cosa che mai nessuno aveva visto, e ogni cosa che tutti avevano sempre desiderato. In un attimo fui precipitato in un abisso d’amore. Non vi fu nessun indugio sull’orlo; nessuno sguardo in basso, nessuno sguardo indietro; ero andato giù, a capofitto, prima che avessi avuto la facoltà di dirle una parola.”
A dar sapore (acre) all’evento è il fatto che il di lei padre abbia assunto l’indimenticabile signorina Murdstone quale “amica confidente di mia figlia Dora”.
Nel breve e significativo conciliabolo fra David e l’antica sua persecutrice, entrambi misurano il loro indubbio antagonismo, anche se David non si trattiene dal dirle quanto le spetta, ma con misurate parole, al che quell’accidente di donna le sfiorò “appena il dorso della mano con le punta delle sue dita fredde e rigide” e poi “se ne andò via, sistemandosi le catenelle sui polsi e attorno al collo che mi parvero formare lo stesso finimento, esattamente nello stesso stato, di quando l’avevo vista l’ultima volta”.
Dora “sorrise e mi diede la sua mano deliziosa; che mi vidi di sfuggita in uno specchio con l’aspetto perfettamente imbecille e idiota; che me n’andai a letto nello stato d’animo scioccamente sentimentale, e che m’alzai in una crisi di morbosa infatuazione.”
Non sei semplicemente innamorato, David, sei soltanto rapito senza speranza: “Non avevo mai visto riccioli simili, – come avrei potuto, se non erano mai esistiti simili riccioli!” – una mutazione genetica del tipo CRISPR direbbe il tuo connazionale Kevin Davies.
“… e Dora spesso si fermò ad ammirare questo o quello, e io mi fermai ad ammirare il medesimo questo o quello, e Dora, ridendo, tenne infantilmente sollevato il cane perché fiutasse i fiori; e se non fummo tutti e tre nel paese delle fate, certamente lo fui io.”
La signorina Murdstone, si mise in mezzo fra Dora e David, nel banco in chiesa: “ma udii lei cantare, e l’insieme dei fedeli svanì. Un sermone venne pronunciato, – che per tema aveva Dora, naturalmente, e ho paura che ciò sia tutto quello che so della funzione.”
Nel capitolo seguente, intitolato a Tommy Traddles, David si reca a casa del suo caro amico che aveva da poco incontrato dopo tanti anni e lì ha la sorpresa d’imbattersi nel signor Micawber che, pur non riconoscendolo subito, risponde alla sua richiesta di come sta “Io sto in statu quo.”, e la moglie?: “… anch’ella, grazie a Dio, sta in statu quo.” – mentre oggi dicono erroneamente status quo. Quando finalmente gridò: “È mai possibile? m’è dato il piacere di mirare nuovamente Copperfield!”, egli si felicita con quel giovane che ha visto crescere e a fargli compagnia nel periodo più inquieto della sua vita: anche se inquieto e signor Micawber nella stessa frase paiono termini incompatibili.
Charles-David tende a far incontrare gli eterogenei personaggi (dotati di ogni gradazione di virtù e difetti) con cui ha condiviso la sua esistenza, come per permettere loro di narrare in modo polifonico quel che è l’esistenza di ognuno e quindi di tutti, singole e sperdute ma correlate particelle che sono destinate a interagire fra di loro, figlie inconsapevoli del medesimo cosmo. Quando questo capita nella mia vita non manca mai di crearmi nell’anima un’ineffabile emozione.
È con questo spirito che David consuma una cena insieme ai coniugi Micawber e all’amico Thomas Traddles. A cui si aggiunge, quando è ormai al suo termine, Steerforth, che non pensa nemmeno lontanamente di salutare il suo ex compagno di collegio. Il quale è rimasti buono come allora, il quale ha dato incautamente fiducia all’inaffidabile nonché incorreggibile Signor Micawber, concedendogli “un’amichevole accettazione” di “Lst. 23 4 s e 91/2 d”, ormai scaduta irrimediabilmente. E viene voglia di dire il Signor Micawber lo si può, senza offesa, paragonare a un bonario batterio che, mentre ti succhia l’energia, non puoi fare a meno di volergli bene, affetto del resto ricambiato.
Il ventinovesimo e ultimo capitolo del primo tomo si conclude con una visita di David alla casa di Steerforth. Due giorni dopo, David partirà.
“Fui in piede con l’alba fosca e, vestitomi quanto più silenziosamente potei, guardai nella sua camera. Egli era profondamente addormentato, e giaceva, con grazia, col capo sopra il braccio, come l’avevo spesso veduto giacere a scuola.”
Il tempo che ogni tanto ritorna significa che non è mai del tutto trascorso.
“… come l’avevo spesso veduto dormire a scuola; e così, in quell’ora quieta lo lasciai. … Mai più, oh Dio vi perdoni, Steerforth! toccare quella mano inerte con amore e amicizia. Mai, mai più!”
E qui ha termine il primo tomo. Smonto quindi dall’albero maestro della nave dickensiana e con una scialuppa mi reco affannosamente alla ricerca del secondo megalittico elemento del dolmen. Che poi, girandomi per caso, rivedo svettare, seppur immoto, nel luogo che ho testé lasciato. E me ne torno sconsolato alla nave.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Charles Dickens, David Copperfield, Club del Libro, De Agostini, 1969
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