“Padri e figli” di Ivan Sergeevič Turgenev: rotture spontanee di simmetrie

Nikolaj Petroviĉ, padre semplice, di buona famiglia e cultura, incontra Arkadij, figlio che la vita e gli studi compiuti lontano da casa hanno reso complesso e diverso.

Padri e figli di Ivan Sergeevič Turgenev
Padri e figli di Ivan Sergeevič Turgenev

I due consanguinei si vogliono bene, ma qualcosa non va più come prima nel loro rapporto. A rendere meno agevole il loro rapporto, s’insinuano due presenze contrapposte: lo zio Pavel, aristocratico dal cuore orgoglioso, e Bazarov, il suo cinico amico di studi. Entrambi i ragazzi si definiscono nichilisti.

Arkadij dopo aver scoperto che il padre vedovo vive con una giovane che le ha dato un figlio, un grazioso fratellino, e la cosa lo emoziona, però dice al genitore: “… il figlio non è giudice al padre e tanto meno io, e tanto meno a un padre che, come te, non ha mai limitato in alcun modo la mia libertà.” – che pare quasi una lezione di vita.

Più tardi questi spiega al figlio che nichilista:viene dal latino nihil, nulla, per quanto possa giudicare; dunque questa parola indica un uomo, il quale… il quale non ammette nulla?”

Lo zio Pavel rincara la dose: “Di’ piuttosto, il quale non rispetta nulla” e lo dice mentre si accinge “di nuovo al burro.”

Bazarov scorge Nikolaj mentre sta leggendo un libro di Puškin. E ne parla con l’amico. Dice, sconsolato, Nicolaj al fratello: “Oggi me ne sto lì e leggo Puškin… Mi ricordo, il libro era aperto sugli Zingari… a un tratto Arkadij mi si avvicina e in silenzio, con una compassione così dolce in viso, piano piano, come a un bambino, mi ha tolto il libro e me ne ha messo davanti un altro, tedesco… ha sorriso e se n’è andato, ed ha portato via Puškin.”

Seguendo un suggerimento di Bazarov, gli aveva passato “la famosa brossure di Büchner, nella nona edizione.

Il libro gli pare assurdo, oppure è lui a essere stupido. Büchner è un rinomato fisiologo materialista tedesco.

A Bazarov fa schifo, dice, “uno dei possidenti vicini”, e lo definisce “un aristocratuccio.

E Pavel inizia con lui un battibecco che sembra non finire più.

Voi negate tutto o, più esattamente, demolite tutto… ma bisogna anche costruire.

Pronta replica del nichilistuccio: “Questo non è più affar nostro… Dapprima bisogna far piazza pulita.

Pavel non ci sta: “… non voglio credere che voi, signori, conosciate esattamente il popolo russo, che siate i rappresentanti delle sue esigenze, delle sue aspirazioni! No, il popolo russo non è quale lo immaginate. Esso rispetta santamente le tradizioni, è patriarcale, non può vivere senza la fede…”

I due sembrano non la voler smettere più. Il nonno di Bazarov “arava la terra”. E il giovane lo dice “con altera fierezza” e accusa lo zio dell’amico: “Voi non sapete nemmeno parlare con lui.”

Forse, ma il giovane disprezza il servo della gleba.

“Perché no, se merita il mio disprezzo? Voi censurate la mia tendenza, ma chi vi ha detto che essa sia in me casuale, che non sia provocata dallo stesso spirito popolare, in nome del quale guerreggiate così?”

Ribadendo le loro opposte e astiose differenze, sempre si allontanano l’uno dall’altro. In mezzo c’è Arkadij, che si limita a osservare: “Noi demoliamo, perché siamo una forza.” e “… la forza non rende conto a nessuno…

Arkadij è decisamente succube del suo amico. Quando discorre con lui, spesso partendo da opinione diverse e usando un numero maggiore di parole, ne esce sempre perdente.

Bazarov vuole andarsene da quel luogo e Arkadij, a cui consente di accompagnarlo, è felice, “ma si sentì in dovere di nascondere il proprio sentimento. Non per nulla era un nichilista.”

Nel loro viaggio nichilisticamente ameno, i due solidali incontrano vari tipi di donne.

“‘Benvenuti’ rispose la Kukšina e, fissando su Bazarov gli occhi rotondi, tra i quali rosseggiava orfano un minuscolo nasino volto all’insù, soggiunse: ‘vi conosco’ e gli strinse pure la mano.”

Questa donna non era affatto bella, ma offriva agli ospiti un ottimo sciampagna.

“… lasciava cadere le proprie domande una dopo l’altra con una negligenza intenerita, senza attendere le risposte: i bambini viziati parlano così con le loro bambinaie.”

Un personaggio di cui si poteva fare a meno, se non fosse stato per quell’ottimo spumante.

“Signori, tutto ciò mi ha l’aria di un manicomio”è un commento che sfugge ad Arkadij.

Il supercritico a prescindere Bazarov rivela una sua tendenza antifemminista, quando afferma che “secondo le mie osservazioni, pensano liberamente fra le donne solo i mostri.”

Anna Sergeevna vedova Odincov (lei era squattrinata, il suo defunto marito no) appare come qualcosa di particolare. Secondo Bazarov è “congelata” e pare “una duchessa, una principessa ereditaria. Non le manca che di portare uno strascico dietro e la corona in testa.”

Pur non essendo una santa, è una che può compiere miracoli. Infatti, dopo averla scorta e criticata, “Bazarov si era messo nel frattempo a guardare degli album. ‘Come sono diventato quieto’ pensava di sé.”

C’è Katia, sorellina graziosissima e diciottenne di Anna Sergeevna, ma di lei, e della sua serafica grazia, ne riparlerò.

Infine non bisogna dimenticarela zia di Anna Sergeevna, principessa Ch., una donnina piccola e magra col viso ridotto a un pugno e con immobili, cattivi occhi sotto la parrucca grigia”, la quale “entrò e, dopo essersi appena inchinata agli ospiti, si lasciò andare in un’ampia poltrona di velluto, in cui nessuno, tranne lei, aveva il diritto di sedersi.” – una ninfa decrepita a cui nessuno più badava, “anche se la trattavano rispettosamente.”

L’autore descrive compiutamente Anna Sergeevna: “… un essere abbastanza strano. Senza aver nessun pregiudizio, ma anche senza nessuna profonda fede, non cedeva di fronte a nulla e non tendeva a nulla. Vedeva chiaramente molte cose, molte cose la interessavano, e nulla la soddisfaceva appieno; del resto, forse, non desiderava nemmeno di essere pienamente soddisfatta. La sua mente era avida e indifferente nello stesso tempo; i suoi dubbi non si placavano mai nell’oblio totale, e non crescevano mai fino all’angoscia.”

Ivan Sergeevič Turgenev
Ivan Sergeevič Turgenev

I russi in genere, e Turgenev in particolare, non mostrano mai carenze o indecisioni nella loro capacità descrittiva. Se le hanno, le sanno genialmente celare.

Intanto Arkadji, pur affascinato da lei, sentendosi messo in secondo piano rispetto a Bazarov, si sente attratto da Katja “buona creatura” che “non mi respinge”.

Di poco maggiore d’età, “la trattava con condiscendenza, non le impediva di esprimere le impressioni suscitate in lei dalla musica, dalla lettura dei racconti, dalle poesie e da altre inezie, senz’accorgersi o senza rendersi conto che quelle inezie interessavano anche lui.”

Due anime gemelle, nel senso più lieto del termine, anche se “Katja non gli impediva di esser triste.” – e la cosa la rendeva davvero attraente.

Con lei si trovava in un’armonia tenerissima:Katja adorava la natura, ed anche Arkadij l’amava, anche se non osava confessarlo; la Odincova era invece abbastanza indifferente verso di essa, come anche Bazarov.”

Il miracolo a cui accennavo poco sopra sta per avvenire: il nichilista, avviatosi nel bosco ingiuriando, si sta rendendo conto di essere ormai caduto (in amore); di essere ormai cotto a puntino di quell’infame donna.

Il dialogo fra lui e lei, finora, è la parte più interessante del romanzo. Non mi va di riportarlo tutto (e non sarebbe nemmeno giusto), ma non posso nemmeno tranciarlo in varie parti.

Ne riporto, contraddicendomi, ma solo un passaggio, o meglio quello che precede una frase di Bazarov: “‘Tu civetti’ pensò ‘ti annoi e mi aizzi per ozio, mentre io…’ Il cuore, realmente, gli si lacerava.

Quando i due ragazzi si rivedono, Arkadij “sentiva che le lacrime gli salivano agli occhi, e non voleva mettersi a piangere dinnanzi al suo beffardo amico che, però… si dichiarò tremando poco dopo alla bella vedova.” Vedendolo in condizioni così critiche, “la Odincova ebbe paura, e sentì pietà di lui.

Qualche ora dopo pensò:Ho paura di questo uomo”.

I due amici partono, lasciando sospese le rispettive storie sentimentali.

Sulla carrozza, Bazarov chiede al “contadino seduto a cassetta”, se era sposato. Risposta: “La moglie? Ce l’ho. Come si fa a non aver moglie.” – come direbbe Totò la serva serve.

Poi le chiede se talvolta la batte: “La moglie? Succede. Senza una ragione non la batto.”

Domanda ulteriore che finisce per indispettire il buzzurro: le chiede se lei talvolta batte lui. Risposta: “Che cosa dici, signore? Ti va proprio di scherzare…”

La carrozza arriva a casa dei genitori di Bazarov, i cui genitori quasi scoppiano dalla felicità, specie il padre. La madre anche, ma più sommessamente.

Quando è ora di fare un sonnellino, Bazarov dice all’amico: “… tu non guardarmi: è stupido il viso di ogni uomo, quando dorme.” – in quel momento dell’esistenza nessuno è in grado di fingere.

Dopo appena tre giorni Bazarov abbandona la casa dei genitori. La mamma, dopo essere stata consolata per un paio d’ore dell’affranto coniuge, gli sussurra: “Che farci, Vasja. Nostro figlio è una fetta tagliata via. È come il falco: è voluto venire, è voluto partire; mentre noi due siamo come due funghi sul tronco, ce ne stiamo l’uno accanto all’altro, e non ci moviamo di lì. Solo io resterò sempre qui per te immutabilmente, come anche tu per me.”

Questo romanzo si potrebbe titolare, Genitori e figli, d’entrambi i sessi.

Pavel e Bazarov si affrontano in un duello, richiesto con determinazione dal primo, accettato con fredda riluttanza dal secondo.

Esito: il colpo di Pavel va chissà dove, quello di Bazarov colpisce il rivale a “una coscia”.

Commenti del dopo match, Pavel: “Secondo l’intesa, ognuno di noi ha ancora un colpo”; Bazarov: “Beh, scusatemi, sarà per un’altra volta…”. E poi aggiunge: “Ormai non sono più un duellante, ma un dottore, e prima di tutto devo esaminare la vostra ferita…

Tutto è bene quel che finisce così e così.

Più tardi, Pavel dice a Nikolaj:Comincio a pensare che Bazarov aveva ragione, quando mi rimproverava l’aristocraticità. No, caro fratello, non dobbiamo più fingere e pensare al mondo: siamo ormai gente vecchia e quieta; è tempo per noi di mettere da parte ogni vanità. Proprio come tu dici, mettiamoci a compiere il nostro dovere; e vedrai che ne riceveremo in più anche la felicità.”

Aggiorno pertanto il titolo: Anziani e giovani, d’ambo i sessi.

Pavel: “… illuminata dalla vivida luce diurna, la sua bella testa smagrita giaceva sul bianco guanciale, come la testa di un morto…”e infatti egli era un morto.

Un morto vivente. Ma ancora, e chissà per quanto, esistente.

Bazarov incontra ancora Anna Sergeevna. Dialogo fra teste simili.

Lei: “… in una parola: siamo amici come prima. È stato un sogno, vero? E chi mai si ricorda i sogni?” Lui: “Chi li ricorda? E poi l’amore… è un sentimento fittizio.”

Lei: “Davvero? Mi fa molto piacere sentirlo dire?”

Un dialogo improntato da un fair play quasi britannico.

Turgenev: “… credevano tutti e due di dir la verità, l’intera verità nelle loro parole? Non lo sapevano nemmeno neanch’essi, e tanto meno lo sa l’autore. Ma la conversazione continuò come se ognuno di loro avesse creduto pienamente alle ragioni dell’altro.”

Intanto Arkadij sta circuendo Katja, “con l’aria di uno che si è cacciato in un pantano, sente che ad ogni passo affonda sempre di più e tuttavia si affetta a spingersi avanti, con la speranza di attraversarlo al più presto.”

È come se chiedesse aiuto al nemico, “‘Ma aiutami, dunque, aiutami!’ pensava Arkadij con disperazione, ma Katja come prima se ne stava lì senza volgere il capo.”

Quando risponde di sì: “chi non abbia visto tali lacrime negli occhi della creatura amata, non può aver ancora provato fino a che punto, tutto sospeso nella gratitudine e vergogna, possa essere felice un uomo sulla terra.”

Se Qualcuno ci ha creati per conoscere e accettare il dolore, ecco che un attimo di felicità ci parrà come un peccato nei Suoi Divini confronti. Pertanto il miglior figlio della vecchia Russia si congiunge, rassegnato, all’ormai fausto destino.

E a quell’altro obliquo figlio di quell’immensa e tetragona terra, come sta andando?

Tornato dai suoi s’infetta presto di tifo. E peggiora ogni dì, ogni ora.

“… cosa vuol dire la parola! L’ha trovata, ha detto: ‘Crisi’ e si è consolato. È una cosa sorprendente come l’uomo creda ancora nelle parole. Se gli dànno, ad esempio, dell’imbecille e non lo battono, si affligge; se lo chiamano intelligente e non gli dànno il denaro, prova soddisfazioni.”

Niente paura: sono soltanto gli effetti del morbo.

Ad Anna Sergeevna che è venuto ad assisterlo e a salutarlo per sempre, dice: “Cosa devo dirvi… Che vi ho amata? Questo non aveva alcun senso anche prima, e tanto meno ne ha ora. L’amore è una forma, mentre la mia forma già mi disgrega. Dirò piuttosto come siete cara! Ed anche ora siete lì in piedi, così bella…”

Ottima la tua chiusa (morale) del libro: “‘Così raccontava poi nella stanza della servitù Anfisuška ‘l’uno accanto all’altro chinarono la testa, come pecorelle nel caldo del mezzogiorno…

Ma l’afa meridiana passa e le succedono la sera e la notte, e poi anche il ritorno al quieto rifugio, dov’è dolce dormire per chi è tormentato e stanco…”

Di una donna non ho detto, nulla, di Fenečka, la mamma del secondo figlio del padre di Arkadij, insomma la taciturna serva di casa: “… sorrideva come se avesse voluto dire: ‘Scusatemi, io non ne ho colpa.”

Di cosa? Di tutto e di niente, forse del doppio patrimonio del buon padre e del buon figlio.

Nell’Appendice è ancora Ivan che parla (è uno che quando inizia è difficile farlo smettere): “… non sono mai stato tentato di ‘creare una figura’, se come punto di partenza non avevo non un’idea, ma una persona viva, a cui pian piano aggiungere e mescolare altri elementi adatti. Non possedendo in gran quantità il dono della libera inventività, ho sempre avuto bisogno di una terraferma, su cui poter puntare i piedi saldamente.” – di chi sta cianciando?

“… alla base della figura principale, Bazarov, sta la personalità di un giovane medico provinciale che mi colpì…”

Bazarov non mi ha destato né simpatia, né antipatia, ma una vera empatia: mi sono sentito trasportare e inserirmi negli scomodi e attorcigliati meandri della sua psiche, che meno la capivo, più mi permetteva di seguirla.

Per fortuna c’è Ivan a spiegarmelo: “… se il rapporto fra autore e personaggio è di natura ancora più indeterminata, se l’autore stesso non sa se ama o non ama il personaggio rappresentato (com’è successo a me con Bazarov, poiché quell’‘involontaria attrazione’, di cui parlo nel mio diario non è amore), allora le cose vanno proprio male! Il lettore è capace di accollare all’autore fantastiche antipatie e simpatie, pur di uscire da questa sgradevole ‘indeterminatezza’.”

Ivan, il tuo ultimo lettore ama questa relativa instabilità e incomunicabilità. E non desidera altro che aggrapparsi a essa per l’eternità: a thing of indeterminacy is a joy for ever!

“Niente libera l’uomo come il sapere, e la libertà è necessaria come non mai nel campo dell’arte, della poesia: non per niente, anche nel linguaggio ufficiale, si parla di arti ‘liberali’.” Occorre poi liberarsi della stessa libertà e il gioco è fatto.

Lev Tolstoj

Dici infine che Guerra e Pace è “il più triste esempio di mancanza di libertà, che deriva da assenza dell’autentica conoscenza”.

Sono particolarmente d’accordo e insieme dissento fortemente, poiché convengo con te che “per forza creativa e poetica è forse la cosa più alta apparsa nella letteratura europea dal 1840 in poi”, anche se non so calcolarne esattamente gli ottani presenti, né se l’esimio abbia utilizzato altri e misteriosi carburanti: immagino che nemmeno Lev Tolstoj l’abbia mai saputo.

Entrambe le opere, la tua e la sua, sono talmente energetiche che non la finiranno mai di correre per l’immensa infinità.

Ti ringrazio, infine, per la bellissima reazione alla mia reazione. Te ne sono a dir poco grato.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Ivan Sergeevič Turgenev, Padri e figli, Mondadori, 1984

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *