“Le radici della disuguaglianza” di Antonio Martone: la potenza dei moderni Hobbes, Rousseau, de Tocqueville, Stirner e Nietzsche
L’inizio del primo capitolo del saggio di Antonio Martone (Individualismo e Modernità) è preciso e significativo: “Insieme alla categoria di libertà, e peraltro ad essa strettamente connessa, non vi è idea del pensiero politico moderno che abbia avuto la stessa capacità di coinvolgimento emotivo e razionale di quello dell’uguaglianza.”
Questa idea non produce energia, ma la brucia, causando “guerre sanguinose” e ogni sorta di conflitti, di azioni eroiche e di delitti. Il porsi il problema dell’uguaglianza è sicuramente un atto pericolosissimo, in quanto è connesso al sentimento di giustizia che alloggia in modo oscuro dentro l’anima dell’uomo e della donna.
Ho appena terminato di leggere “Storie del mondo delle formiche” del socio-biologo statunitense Edward O. Wilson, e mi sono reso conto che la differenza tra noi scimmie denudate e quegli imenotteri è che noi abbiamo tante idee e assai confuse su tutto, in primo luogo sull’argomento trattato da Antonio Martone in questo saggio. Loro ne hanno sicuramente meno (non è possibile però contarle), ma tutte chiarissime. Wilson realizza una sintesi precisa, scrivendo: “Per le formiche servire la colonia è tutto”. Per l’uomo no, ma non è nemmeno nulla, né poco, né tanto: è un quid che si evolve continuamente.
Due fatti descritti dal sociobiologo m’angustiano abbastanza: “soldati suicidi che fanno esplodere il proprio corpo contraendo con violenza l’addome”; inoltre, e l’autore aveva già narrato il fatto nel precedente saggio Le origini profonde delle società umane, il caso penoso di quelle operaie che “non risparmiano neppure la loro madre durante l’operazione di selezione e salvano soltanto la regina più feconda, chiaramente perché riescono a comparare i feromoni prodotti da ognuna di esse e dedurre così il grado di fertilità. A quel punto le operaie tutte insieme uccidono le loro madri o lasciano che vengano uccise se non superano la selezione”. Il motivo è semplice: formica vecchia e non eccessivamente feromonica non fa buon brodo (non potendo riprodursi a sufficienza).
I kamikaze giapponesi che arrivavano a farsi amputarsi le gambe, per poter far esplodere una maggior dose di esplosivo, schiantandosi sulle navi da guerra nemiche, hanno dimostrato che in talune occasioni anche gli uomini possano arrivare a certi eccessi. Si tratta però di eccezioni storiche, che verranno irrise dalle nuove generazioni. Per meglio cogliere le differenze culturali fra i giovani di mezzo secolo fa e quelli di oggi, è sufficiente confrontare il loro vestiario e la loro capigliatura. L’uomo non solo è un animale in continua evoluzione, ma è soprattutto un essere che non sa la mattina dove condurrà la sua esistenza nelle prime ore del pomeriggio. Anche fra le formiche esistono notevoli differenze di usi e costumi, ma ogni specie perfeziona il proprio modus vivendi in modo impercettibile nel corso dei secoli e, in taluni casi, dei millenni.
Nel 1985, in una città della Sicilia io uscivo in auto con alcuni amici. Lo stesso facevano alcune ragazze. Un po’ fuori del paese avveniva lo scambio dei passeggeri. A una venticinquenne non era consentito frequentare ragazzi dell’altro sesso, in carenza di fidanzamento ufficiale. Da quanto ho scoperto successivamente, le cose sono rapidamente cambiate anche in quella splendida regione italiana. Sic transit gloria homini.
Scrive Martone: “Ho creduto importante assumere, all’interno della condizione egualitaria, oltre ovviamente alle condizioni economiche, tutte quelle dimensioni politiche originarie – diritti sociali e politici, possibilità di non essere dominati o di dominare – che attengono al potere così come esso si attaglia alla forma peculiare dell’individuo moderno.”
Secondo Hobbes “Il Potere di un uomo (preso in senso universale) sono i mezzi che ha al presente per ottenere qualche bene futuro.”, e Martone traduce: “il potere dunque costituisce una pura potenzialità. Esso non è altro che una possibilità…” – un’eventualità probabilistica, direbbe un fisico quantistico.
“Una dimensione dell’uguaglianza pura non è mai esistita, ma è sempre stata accompagnata dalla possibilità (più o meno realizzata) del suo contrario”, vissuta, nel vero senso della parola, all’interno di “una relazione individuo-comunità che si svolge su un asse tensionale uguaglianza-disuguaglianza.”
La società ha tutti gli stati fisici, ma quello che prevale è l’elemento fluido: “la politica deve liberare il campo alle abitudini consolidate e cominciare daccapo.” – panta rei.
“Soltanto un contratto potrà offrire infatti qualche garanzia davanti alla ontologica insecuritas all’interno della quale ormai il politico Moderno è ‘destinato’ a svolgersi.” – tenendo presente che ogni contratto, per quanto di natura solida, necessariamente è a tempo determinato, e pronto a squagliarsi quando varia in aumento la temperatura globale: si liquefa e poi diventa finalmente aeriforme. Infatti, Martone scrive: “I contratti possono anche non essere rispettati, o rotti, e comunque vanno rinnovati.”
Per Hobbes “subentra allora la necessità logica di tenere fede a patti se si vuole la pace.”
Per Rousseau occorre “un pensiero politico che promette di colmare la distanza (tuttavia incolmabile) fra volontà degli eguali e volontà sovrana…”
Quello che prevale nella moderna politica è “una dimensione meramente strumentale” – essa serve a risolvere i problemi: “si fa politica per proteggere da un pericolo o per implementare, consolidare la potenza vitale…”
La questione principale: “L’uomo moderno smette di avere fiducia in un ordine, oggettivo e previdenziale nello stesso tempo, liberando parallelamente la propria potenza attiva.” Il profilo dell’uomo è irreversibilmente “individualistico-egualitario”, portato a voler vedere onorati i propri diritti.
“… ormai non sarà più l’uomo ad essere collocato al centro della comunità, ma sarà la comunità ad essere sempre più considerata al servizio dei suoi bisogni” – e dei suoi sogni, in modo non meno urgente.
Domanda dell’autore: “… perché il Moderno pone il problema dell’uguaglianza? Non sarebbe più logico cercare la differenza?” Sua pronta risposta: la speranza ha “una forma corporea”, fisica; e una “astratta, politica”: questo crea una tensione che “ha innervato l’intera modernità”.
Interessante il confronto tra i due mostri filosofici: “Hobbes e Nietzsche sono distanti più di due secoli, il primo sostiene le ragioni della razionalità e con l’ausilio di quella intende costruire la biotecnologia salvifica della sovranità; il secondo decostruisce…” Egli si divertirà a sconfessare, a ridurre il tutto a una finzione che ha ormai perso il suo senso. “La rottura radicale della bipolarità individuo-comunità politica, e la netta fuoriuscita da qualsiasi paradigma egualitario, si realizzerà – anche se in maniera assai problematica – soltanto con Nietzsche”, per quale “è necessaria piuttosto una nuova umanità. Una oltre-umanità.”
Il secondo capitolo parla de “L’Uguaglianza omicida – il Leviatano di Thomas Hobbes”. Iniziamo bene: “Nel fondo del pensiero di Hobbes – e in maniera del tutto coessenziale rispetto alla sua filosofia – si radica un’antropologia talmente negativa da considerare le passioni umane non diversamente da quelle di un qualsiasi predatore.”. Sintesi: “ciò che caratterizza nel mondo più fedele la sua realtà (pre) politica è, appunto, la sua natura lupina.” Io disprezzo il filosofo inglese per quello che osa pensare, e disprezzo quella parte di me stesso che concorda con la sua tesi: homo homini lupus. Con una differenza: “mentre il bisogno dell’animale è segnato dai limiti costitutivi della specie di appartenenza, nel caso dell’uomo il desiderio è illimitato.” Una formica potrebbe andare sulla luna solo infiltrandosi negli attrezzi di un cosmonauta. Giunta sul posto, schiatterebbe all’istante, dopo aver svolazzato di qua e di là. L’uomo è più idiota di un imenottero, ma assai più sapiente. Il problema è che spesso (anche se poco volentieri) non riesce a gestire la sua superiorità culturale e il suo prodigioso ingegno.
“All’alba del Moderno, tutti gli uomini scoprono di possedere un potere desiderante pressoché illimitato a fronte di una quantità di beni segnata da limiti evidenti.” Ho una certa perplessità su quel tutti. Forse l’autore intende: tutti o quasi. Non dimentichiamoci che i Nostri non hanno ancora sterminato tutti gli Jivaros amazzonici e i Pigmei equatoriali. Quanto manca a quell’infausto giorno?
Pur nella generale incertezza esistenziale, si può avere fiducia su un fatto: “se dovesse esserci guerra, ciascun uomo potrebbe contare sugli aiuti cospicui costituiti dai suoi concittadini.” Questa certezza di origine hobbesiana è stata confermata dalla Storia: il nuovo problema è quali siano questi concittadini. Non esiste assurdità più discutibile di quella che viene definita guerra civile: pensiamo alla nostra Resistenza, oppure alle storie umane raccontate da Zafón: l’interrogativo acquisterebbe sempre maggiore consistenza.
“Hobbes non afferma quali siano le leggi civili più giuste e meno ancora quali esse debbano essere; egli si limita a costruire le condizioni di possibilità all’interno delle quali le leggi possano essere possibili, utili e giusti – tali cioè da garantire la pace.”
La pace è sinonimo di pacifica convivenza e sopravvivenza: “Ciò che essenzialmente l’uomo desidera è rimanere in vita, pur non avendo alcuna idea positiva su come utilizzarla.”
Riporto e poi discuto la tesi del filosofo inglese: “A parte forse il rapporto della madre con il figlio (e il potere naturale che sul figlio ha la madre), non esiste alcuna forma spontanea di amore fra gli uomini, nessuna tendenza a vivere insieme.” No, caro amico, per quanto ti ammiri, intendo contraddirti. Quell’amore (che ai miei tempi è condiviso anche dall’altro genitore) è la prova della propria necessaria esistenza. E lo è anche l’esempio di numerosi filantropi che hanno seminato nel mondo esempi di amore universale. Non faccio i loro nomi. Dovunque tu ora sia, chiedi un po’ in giro. Oppure consulta wikipedia. Sono però d’accordo con chi afferma che il mondo è retto è gestito da infami e che le sue massime ricchezze appartengono soltanto all’1% della popolazione mondiale, mentre un miliardo di individui rischia ogni giorno di morire di fame e di stenti. La prospettiva è orrida, ma non assoluta e irrisolvibile come intendi tu.
In te sopravvive “soltanto la convinzione della presenza di una causa prima del moto universale che è, in quanto tale, inconoscibile” e questo Dio (demoniaco) “né amore, né odio lo caratterizzano”. E l’uomo, questo miserabile scricciolo? La sua esistenza “è destinata a nutrirsi di morte (annullando l’altro) o a soccombere…” Tu dici che è la logica dell’universo. Non ti contraddico perché la tua è una teoria religiosa, non falsificabile, come insegna Karl Popper.
Torniamo alla bestia ignuda: “Quanto all’evanescenza delle leggi della natura, va anche sottolineato che il sovrano civile è sì tenuto ad attenersi ad esse, ma è anche l’unico a cui spetti di determinare (per esempio in caso di lacuna dell’ordinamento giuridico) in che cosa esse consistano concretamente.” Finché non l’ammazzi qualche rivoluzione, s’intende.
Alla domanda “cos’è lo stato?”, l’autore risponde: “esso non è nient’altro che il risultato di un patto che può avvicinare gli uomini, soltanto allontanandoli gli uni dagli altri.” Risulta arduo non adirarsi e al contempo non convenire con la seguente affermazione: “Hobbes mostra di comprendere assai bene (e assai presto) che i connotati dell’uomo moderno sono segnati dall’incapacità assoluta di autoregolare naturalmente la propria libertà.” Questo crea la necessità di un ente regolatore. L’unico, o il migliore, che viene in mente al filosofo è Lui, il Sovrano.
Hobbes “è il primo a far vedere, con estrema coerenza e grande radicalità, che la corporeità umana non può vivere/sopravvivere senza robuste iniezioni di alterità tecnologica.”, in cui “tutto è funzionale all’uomo: non vi è produzione che non abbia il fine di proteggere e potenziare l’individuo.” Con questo filosofo “prende l’abbrivio – nello stesso tempo e per gli stessi motivi – sia il processo di politicizzazione totalizzante della società (nulla si sottrae alla sovranità dello Stato/Leviatano), sia il movimento ad esso uguale e contrario della spoliticizzazione radicale.” La sovranità è (purtroppo) un elemento politico essenziale: “privo della sovranità dello Stato, non vi sarebbe un popolo, ma soltanto una anarchica e informe moltitudine.”
Quando poco fa parlava dell’amor materno, dentro di me obiettai: quella è una prova dell’esistibilità del sentimento amoroso. Da giovane, quando fingevo con me stesso di essere un filosofo, avevo coniato una forma politica che rimase in qualche quaderno, sepolto da decenni in soffitta. Io credevo nell’anarchia familiare, che altro non era che un nucleo di persone che perseguiva il proprio bene comune, cercando un accordo con altri nuclei anarchici familiari. Sogni adolescenziali?
“Prima del contratto c’era lo stato di natura, dopo di esso ci sarà il potere sovrano. L’unica politicità possibile si rivolse allora nella cessione al Leviatano dell’intera politicità naturale.”
Mi viene in mente il film Il dormiglione di Woody Allen, e quel naso, che rappresentava l’unico residuo sopravvissuto del sovrano, da cui il nostro eroe avrebbe dovuto ricostruire quell’ambiguo e futuribile Leviatano.
“La libertà, l’uguaglianza naturale e dunque la politicità vengono offerte al totem sovrano.”
Alternative?: “Privo della sovranità dello Stato, non vi sarebbe un popolo, ma soltanto un’anarchica e informe moltitudine.” Antonio Martone ne deduce: “gli uomini di Hobbes, a rigore, politici non lo sono mai.” Ad una “sfrenata libertà (quella che non si ferma se non davanti ad una opposizione), non si può pensare ad una forma di asservimento politico più integrale di quella a cui il Leviatano assoggetta i sudditi.”
Due forme di democrazia, la prima delle quali “dà luogo allo Stato e, facendolo, si priva di se stessa e della propria politicità. La seconda è quella ‘civile’, ammessa dallo stesso Hobbes ed affiancata, fra le specie possibili di Stato, alla monarchia e all’aristocrazia.” Secondo Hobbes, anche la seconda presenta rischi, in quanto “troppo pericolosamente prossima alla moltitudine anarchica originaria…”
Ovunque tu sia, se ti capita di incontrare Pasolini (magari in quel bistrot dove Tolstoj ogni mattina discute animatamente a proposito della figura di Napoleone con Hugo, e dove Majorana e Dirac discettano, ognuno con la sua tesi, sull’anti-neutrino che proviene dal passato), fatti spiegare da lui cosa intende con l’affermazione che l’unica vera anarchia appartiene al Potere.
Il terzo capitolo, Il leviatano democratico, tratta dell’uguaglianza sovrana di Jean-Jacques Rousseau. “… l’ambizione di Rousseau conferma e radicalizza l’idea tipicamente moderna di uguaglianza, ma vi aggiunge qualcosa di nuovo: l’uguaglianza non deve essere soltanto un punto di partenza, ma deve diventare anche il punto d’arrivo del contratto sociale.” In Hobbes la partenza democratica doveva sfociare in un Altrove monarchico. In Rousseau si compie un giro politico ed etico che riconduce all’inizio.
“Il Bene è collocato nell’ordine naturale, mentre nella storia si può trovare soltanto il Male.”
La quale è una frase che si può tradurre in mille modi. La mia versione è: da quando l’uomo ha cominciato a trascrivere le proprie idee, ha creato la finzione che conduce all’egoismo.
Dice Rousseau (e trascrive Martone): “E a far odiare la politica hobbesiana non è stato tanto ciò che includeva di orribile e falso, quanto ciò che c’era di giusto e di vero.” Non posso che essere d’accordo. Se uno ti dice che sei una persona cattiva, magari afferma una verità, ma non puoi evitare di nutrire rancore verso di lui.
Sto leggendo un capitolo alla volta, commentandolo subito dopo. Per quanto ho letto nella mia vita di Rousseau, non posso che affermare che quello che amo più di lui sono le sue beate illusioni. Quello che più disprezzo, senza però giudicarle, sono le sue conclusioni.
“Dal canto suo, Rousseau pone tuttavia la pietà nello stato naturale, mentre l’uomo storico sarà affetto da ben altri sentimenti. Nel momento in cui gli uomini cominciano ad avere rapporti gli uni con gli altri, quando, per cacciare o per lavorare, essi sono costretti ad articolare un linguaggio sempre più elaborato, emergono inevitabilmente proprio quelle passioni che Hobbes definiva ‘competizione, diffidenza e vanagloria’ – insomma i tormenti della vita civile.” Esito a definire religiosa questa teoria, ma ancora di più fatico a ritenerla scientifica. Non v’è storico né filosofo in grado di determinare quel momento storico, che forse non è mai esistito, se non in forma puramente teorica, e non reale.
“Un rapido sguardo alla società storica mostra infatti una corruzione dilagante: la servitù e il dispotismo sono diventati ‘normali’ e l’uomo (naturalmente libero) si è ritrovato ricoperto di catene; la legge civile è stata chiamata (e qui è presente in nuce Marx) a costituire la giustificazione legittimata, ma sempre ideologica, dell’ingiustizia.” Forzo una traduzione, partendo dal Nulla, attraversando i primi brodi quantici, le prime forme di vita, eccetera, per giungere alle prime scimmie e ai primi ominidi, a un certo punto apparve un buon selvaggio afarensis, che raggiunse il culmine della bonarietà umana. Dopo di lui, il diluvio di menzogne e nefandezze, fino a giungere alla perversione della civiltà che nel tempo di Rousseau era già terribile e che oggi non è affatto migliorata, anzi… Io non so se credere o no a questa teoria: essendo molto im-probabile, quindi pressoché religiosa, preferisco astenermi dal giudizio, ma non da eventuali commenti.
“In virtù della proprietà, quell’uomo naturalmente libero, non legato a nulla e, proprio per questo, possessore di tutto, è escluso da tutto ciò che non possiede e, nello stesso tempo, esclude tutti gli altri da ciò di cui è proprietario”: non solo della sua anima, ma anche e soprattutto dei suoi beni. Tale “concezione della natura” consente a Rousseau “di pensare il rinnovamento morale della politica.” Rousseau fu un rivoluzionario: il suo uomo “intende rimanere libero anche dopo la stipula del contratto”. La sua libertà “va difesa e conservata anche all’interno dello Stato civile.” Nella “struttura comunitaria” l’uomo “potrà corrispondere alla propria volontà, emancipandosi dagli istinti che altrimenti lo condurrebbero fatalmente all’erranza.” Importante: “La volontà generale è l’unica, autentica sovranità legittima. Essa però non è data una volta per tutte ma deve manifestarsi ogni volta che il popolo è riunito in assemblea.”
Essa assomiglia alla trotskiana rivoluzione permanente, dove la prima parola non deve essere sostituita ma soltanto affiancata dalla parola democratica.
“… la sovranità è di fatto e di diritto non trasferibile. Soltanto il potere amministrativo si potrà delegare, non certo la volontà sovrana.”
Per quanto riguarda ciò che noi moderni chiamiamo il pluralismo delle opinioni, Martone precisa che “non vi è stato nemico delle ‘fazioni’ quanto lo è stato Rousseau: la peggiore forma democratica è quella lacerata al suo interno da particolarismi che determinano tante volontà particolari quanti sono le fazioni in lotta.”
Rousseau sogna “un intelletto superiore che conoscesse tutte le passioni degli uomini senza provarne nessuna.” – sogno assurdo, ma legittimo che fa dire a Rousseau: “Ci vorrebbero degli Dèi per dare delle leggi agli uomini.” L’immensa novità teorica però è “il tentativo di trattenere nel luogo metafisico del popolo quella sovranità che Hobbes rappresentava nel Leviatano.” Egli comprese “che la democrazia è ‘condannata’ a (non) funzionare in un rapporto di continua tensione fra le due opposte polarità dell’individuo e della comunità politica.” Le sue affermazioni appaiono a volte disumane: se “lo Stato ha bisogno che tu muoia”, tu, Uomo mirmecologico, devi morire, se ti trasformi in una formica dannosa alla comunità. Se lo Stato eri (anche) tu, e ora non ne sei più parte, devi auto-eliminarti o rassegnarti a farti eliminare.
Il quarto capitolo, L’uguaglianza inquieta – Alexis de Tocqueville, è quello che, finora, più ha inquietato l’autore e conseguentemente il lettore. E che ha più prodotto frasi interrogative a entrambi questi soggetti, in primis ovviamente all’autore.
“… egli è il primo grande pensatore della democrazia successivo alla Rivoluzione e al Primo Impero.” Con Tocqueville, “rispetto a Rousseau, pertanto, i connotati dell’universo democratico si presentano ai suoi occhi per la prima volta mondati da quella patina di utopia costruttivistica e di astrattismo che costituiva ancora l’atmosfera di fondo dell’opera di Rousseau.”
Oy-topos, non luogo: il pensatore parigino invece cercava, non in sé; ma fuori di sé, in strada, per le vie cittadine, un luogo dove poter inserire la sua teoria scientifica. In questo senso egli è più continuatore di Galileo e di Newton che dei grandi pensatori che l’hanno preceduto. Si sa che una teoria, per essere considerata scientifica, deve essere esaminata ed, eventualmente, falsificata, oppure dimostrata, fino a quando essa non sarà migliorata, ma non perfezionata. La perfezione non è di questo mondo, semmai lo è in quell’altro, nel non mondo della fantasia filosofica. Non riesco a evitare di citare il pensiero di Padre Aldo Bergamaschi, docente prima all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano e poi (in esilio, credo) a Verona, padre cappuccino, osteggiato dall’autorità vescovile, che gli tolse per anni la facoltà di officiare la messa in pubblico, autore di almeno un miracolo: aver costretto un ignorante di Dio come il sottoscritto a frequentare la sua messa delle undici a ogni festa comandata, al fine di ascoltare la sua profonda e salvifica (culturalmente e intellettualmente) omelia. L’effetto di tale santità fu fatto cessare dal vescovo che, la settimana prima del provvidenziale (!) l’arrivo a Reggio Emilia di papa Giovanni Paolo II, lo costrinse al silenzio pubblico. Egli parlava di Eu-topos, un luogo meraviglioso dove avveniva l’annullamento del conflitto delle etiche: chi voleva mangiare carne, di qualunque tipo, il venerdì o qualsiasi altro giorno della settimana, poteva farlo, chi voleva indossare certi abiti era autorizzato, purché si rispettasse il prossimo, sia nel senso di colui che incontri per caso per la via, che quello con cui convivi, che quello che viene definito cittadino di uno Stato. Tale con-fusione delle etiche, avrebbe portato, in quel luogo magico, a una maggiore conoscenza dell’altro. L’unica censura riguardava la violenza dell’Uno sull’Altro, in nome del suddetto Rispetto. Si tratta anch’esso di un Oy-topos? Forse, ma anche di un progetto a cui è possibile tendere. Ignoro quanto il teologo Bergamaschi conoscesse o condividesse il pensiero di Tocqueville. Dentro di me sono certo che, essendo egli un uomo eccezionalmente dotto, non possa non averlo considerato e apprezzato. Per la cronaca, anzi, per la storia: egli fu benignamente riammesso alla messa pubblica, pochi anni prima della sua morte.
Martone, un consiglio e una preghiera: cerca i suoi libri, leggili e prima o poi commentali. Si tratta di far recuperare al mondo un tesoro di acuta saggezza.
“Collocato nel punto nevralgico in cui la storia moderna diviene contemporanea, Tocqueville ha potuto pensare quest’ultima quand’essa era ancora in una fase aurorale; egli ha potuto utilizzare pertanto uno sguardo non ancora affetto dall’assuefazione, inevitabile quando si vive troppo a lungo in una sola realtà.” Egli, nell’uscire, dal periodo precedente, ha dovuto inserire una nuova calzatura e un nuovo abito (mentale) per affrontare un sentiero denso di novità esistenziali.
“… la realtà gli appariva sfuggente da ogni lato e si mostrava sempre più urgente il bisogno di un nuovo modo di pensare la politica.” La qual cosa non significa dimenticare, bensì utilizzare le ormai antiche idee al fine di produrne una nuova.
“È vero che detesta i tumulti violenti e che ritiene la proprietà privata un fondamento indispensabile della società, ma ciò non toglie la sua preoccupazione maggiore sia quella di creare il giusto equilibrio fra libertà ed uguaglianza.” Non riesco a non condividere tale preoccupazione: il conflitto genera conflitto e il possesso di beni privati è troppo connaturato nell’uomo perché la sua cessazione non causi un disordine sociale dalle conseguenze tragiche.
“Da quando il passato non proietta più la sua luce sul futuro, la mente dell’uomo è costretta a vagare nelle tenebre.” – questa frase di Tocqueville indica visivamente la cessata visibilità che angustia dell’anima umana. Egli “è senz’altro il primo a fuoriuscire integralmente dall’idea di democrazia intesa come modello storico, pensandola senza indugio come un vero e proprio fatto storico.” – quindi un fenomeno fisico.
Phisikos: è il campo d’indagine che lo occupa tutta la sua ricerca.
“In tutte le manifestazioni più significative della storia, non vi è nulla che possa essere assolutizzato in positivo o in negativo. Il bene e il male sono dappertutto e l’osservatore può soltanto – ma non poco – seguire le diramazioni e le varie articolazioni dei percorsi storici, collaborando attivamente al loro svolgersi.” La storia “appare progressiva su dei punti e regressiva in altri.”: si tratta di un fenomeno continuamente in azione in un senso o in un altro. Non rappresenta più un evento che necessiti di una fede religiosa, bensì di un’osservazione che tende tendere alla precisione e a una sempre maggiore esattezza, che non sarà mai assoluta.
“Si potrebbe dire che, come Machiavelli, Tocqueville ritenga soltanto la metà delle cose umane governate dalla ‘fortuna’, con la convinzione che l’altra metà rimanga nella giurisdizione della ‘virtù”’: non solo caso, ma anche scelta necessaria e volontaria.
“La visione del mondo degli americani può essere bene definita un individualismo messo in pratica. Per Tocqueville, gli americani sono moderni non perché si pensino tali, ma perché vivono in quanto tali”: senza aver la possibilità di non farlo.
“In America, egli aveva assistito alla nascita di un modo diverso di pensare all’attività filosofica. Il tramonto di una accezione della filosofia come gesto teorico atto a guidare il destino dei popoli è già presente in queste ‘semplici’ osservazioni sul ‘metodo filosofico degli americani.” La pratica è una scelta motivata dalla necessità, non tanto da un’idea teorica. “Il tempo classico, vissuto come ‘involucro della ripetizione’, si trasforma in ‘veicolo della mutazione’; i legami fra le generazioni si allentano; i valori trasmessi si dissolvono; la preoccupazione per i propri discendenti risulta quasi de tutto cancellata.” I corpi fisici, dirà due secoli dopo Einstein, sono dotati di quattro dimensioni, una temporale e tre spaziali. “La trasformazione del concetto di tempo si rispecchia inoltre nella nuova concezione dello spazio. L’esperienza americana ne rappresenta l’essenza più concreta allorquando l’idea di spazio chiuso e di limite, tipico della tradizione europea, viene trasformata nella nozione di ‘frontiera’. Essa è naturalmente espansiva – linea mobile, aperta, precaria, soggetta ad un incessante divenire.” Ogni corpo fisico possiede una sua direzione, un suo senso, una sua traiettoria. E ne risulta consapevole solo se conosce il proprio fine.
Diversamente dai filosofi precedenti, “Tocqueville intende invece diffondere le ragioni dell’individuo, nella convinzione che nessuna comunità democratica possa essere tale se la cellula elementare che la costituisce sia asservita ad un potere eteronomo.” – e questo è il dramma dell’uomo moderno, acuito dalla sua nuova sensibilità di ente non solo sociale ma anche a sé stante e bisognoso di evadere Altrove. “Ciò che è veramente ‘Altro’ in una democrazia infatti non è l’uomo singolo – che non differisce affatto da me – ma è l’insieme degli uomini che si costituiscono in quanto società. Il sensus communis, pertanto, è destinato ad imporsi come legge astratta, prevaricando inevitabilmente sulle minoranze e sulle singolarità individuali.” Si tratta di un’aporia che reca angoscianti interrogativi, a cui non si può rispondere in alcun modo. “Se nella prima democrazia, per difendere l’individui dall’invadenza del potere, era ancora possibile mettere in scena l’armamentario classico della tradizione liberale, nell’opera del 1840 tali strumenti non appaiono più sufficienti.”
Il filosofo deve rinvenire una soluzione la cui esistenza si ignora. Egli “mette in risalto che la marcia verso la civiltà industriale si debba (si possa) pagare con l’imbruttimento dell’uomo e con la mortificazione dell’ambiente. L’aspetto positivo e quello negativo dell’esistenza umana si radica all’interno della stessa realtà.” Per cui “la condizione dell’individuo, all’interno di una struttura sociale disposta in modo orizzontale, pur essendo de jure decisamente libera, de facto appare ostacolata da ogni parte. Esiste cioè una forma anonima della società, una sua piattezza opaca che impedisce di avanzare in una direzione lineare.” Qualcosa di oscuro che non alberga in nessuno, ma in tutti opera la sua azione negativa. “È vero che l’individualista odia coloro che detengono il potere. Questo avviene perché in essi egli vede qualcuno che può dargli degli ordini, e l’individualista è geloso della sua autonomia. Ma è altrettanto vero che l’homo democraticus ama il potere in sé, poiché comprende che di esso non può fare a meno.” – egli non vuole essere irregimentato, però… “Gli uomini rimangono sì uguali, ma la loro uguaglianza che sancisce però disuguaglianza politica si rivela ora meramente sociale. Si tratta di un’uguaglianza che sancisce però disuguaglianza politica, ossia asservimento al sovrano.” Questo crea il penoso senso dell’ingiustizia che, privandolo in misura elevata della libertà, tanto angustia l’uomo moderno.
“… parallela alla strada che, partendo dall’uguaglianza, conduce all’anarchia, hanno finalmente scoperto che il cammino che sembra condurre invincibilmente gli uomini verso la servitù…” La libertà “diventa pericolosa”, oppure “impossibile”. Mentre “la legge permette al popolo americano di fare tutto, la religione gli impedisce di concepire tutto e gli proibisce di tutto osare.” La laicità assoluta non deve esistere perché non può.
Tocqueville ha il merito filosofico di creare domande a cui nessuno sarà mai autorizzato a rispondere, nemmeno lui. Il suo massimo e indubitabile merito l’eroico tentativo di interpretare, pur difettando dell’esito. Arriva però a dire: “… Se mai gli uomini arrivassero ad accontentarsi dei soli beni materiali, c’è da credere che perderebbero poco a poco l’arte di produrli, e finirebbero per goderne senza discernimento e senza progresso, come i bruti.” Ergo, necessitano di limiti, doveri e costrizioni. È storicamente avvenuto che “… l’animo dell’uomo (la dimensione angelica) abbia trovato nel materialismo individualistico (la dimensione brutale) la sua manifestazione privilegiata.” Infine: “è proprio Tocqueville ad evidenziare nell’uomo moderno una ‘smania’ che egli non sa padroneggiare.” Pertanto: “si può essere certi, con Tocqueville, che il materialismo non sia già il risultato dello scatenamento di forze non materiali presenti nell’uomo e che dunque permanga una dimensione di pura angelicità che si tratta soltanto di recuperare?” Credo che sia essenziale che un commento al suo pensiero finisca con l’ennesimo interrogativo.
Ho tentato di comprendere e sintetizzare quanto l’autore ha finora cercato di comunicare al lettore in merito alle diverse interpretazioni relative alla problematica della disuguaglianza sociale. Non so quanto sia riuscito nel mio intento. Sono consapevole di aver fallito nel tentativo di trasmettere all’eventuale lettore di questa mia reazione l’energia dialettica e drammatica espressa da Antonio Martone, che emerge fin dalla primissima pagina, ma che ha raggiunto il suo acme proprio in questo quarto capitolo.
Ulteriore considerazione dopo aver letto il quinto capitolo Le spalle di Atlante – l’Uguaglianza degli Unici in Max Stirner: la questione e, conseguentemente, l’esposizione e il dispiegamento delle ragioni connesse alla stessa da parte dell’autore, diventa sempre più complessa e, in senso figurato, acuminata, quindi ardua da gestire, nonché facile a fraintendimenti. Max Stirner è un filosofo che Martone definisce “insolente”. Egli tenta di dimostrare “che, non soltanto il senso politico del sacro non è stato cancellato dalle rivoluzioni moderne, ma che esso è addirittura irrobustito.” Martone spesso indica Stirner come “l’autore di Bayreuth”. A un lettore incauto (quale sono io) non può non venire in mente il festival wagneriana che ogni anno ha luogo in quella città. Come già Tocqueville, anche Stirner è consapevole che “le ‘rivoluzioni’ moderne, innescate nel nome della libertà, abbiano avuto l’esito paradossale di estendere la potenza del sociale.” Come difendersi da tanta oppressiva sacralità? “L’unica via d’uscita per il filosofo tedesco è costituita dalla potenza dell’Unico – lontano da ogni appartenenza ‘sacrale’, e privo di determinazioni concettuali.” E qui prende forma la concettualizzazione stirneriana che mi ha lasciato perplesso. “L’individualismo del diciannovesimo secolo tenderà a distanziarsi, divaricandosi in due forme ancora diverse: l’uguaglianza senza individualità e l’individualità senza uguaglianza.” Due facce del problema: “… la disuguaglianza propugnata dall’autore tedesco emerge naturaliter nel momento in cui gli uomini vengono considerati per quello che sono essenzialmente e, cioè, unici. Da un altro punto di vista, però, ammettendo soltanto l’Unico e la sua potenza, Stirner cancella l’uguaglianza astratta dei moderni, ma la conserva nel momento in cui riconosce a tutti gli uomini di poter essere unici.”
Un diritto esteso a tutti diventa una caratteristica comune a una specie animale, paragonabile a qualsiasi altra, non un privilegio che ti contraddistingue dal tuo Prossimo. Stirner “precisa infatti che, mentre la libertà non può che essere limitata, ‘illimitata’ è la possibilità accordata al singolo di utilizzare la ‘potenza’ fin dove gli è possibile.” Fin dove gli è possibile? Da quale punto il suo fine risulta improbabile o almeno non comprovabile? È forse egli un Dio onnipotente che si pone al di là del giudizio umano?
“… l’Unico è disuguale poiché diverse sono le potenze di ciascuno. Tali diversità si mostreranno pertanto incompatibili con l’uguaglianza astratta della modernità, basata inesorabilmente sul pensiero razionale. La potenza stirneriana non è ispirata dalla logica; essa anzi costitutivamente la eccede e le è irriducibile.” Non occorre quindi ragionarci su? È sufficiente avere fede in essa? Bisognerà pregare tale egotistica divinità?
“Noi siamo uguali solo nel pensiero, solo se ‘noi’ veniamo pensati, ma io non sono questo io pensato, anzi, questo io in cui noi tutti siamo uguali è solo un mio pensiero. Io sono un uomo e tu sei un uomo, ma ‘uomo’ è solo un pensiero, un’entità generale; né tu né io possiamo venire espressi a parole, noi siamo indicibili perché solo i pensieri possono venir detti e consistono nel venir detti.” Queste sono le parole dell’autore di Bayreuth.
Stirner “che abbatte non soltanto la religione ma qualsiasi elemento sacro – sottrae l’Io a qualsiasi forma di identificazione e di durata identitaria, e dunque esige da esso una forma estrema di sradicamento.” Al che Martone accenna “ad una critica nei confronti dell’autore di Bayreuth: “È difficile immaginare infatti che individui senza società e senza progetti storici comuni, senza passato e persino senza un’identità che non sia nuda potenza possano schivare il rischio di cadere vittima del primo pastore capace di trasformare la polvere atomistica e costantemente cangiante delle loro identità in un gregge da guidare.”
Stirner comprende come tutto rientri nella “religione” oggigiorno: “la religione dell’amore”, “la religione della libertà”, “la religione politica”, “insomma ogni forma d’entusiasmo”: ciò che t’ispira (thus-) la divinità: en-theos. L’uomo moderno effettivamente passa da un entusiasmo all’altro, spesso senza soluzione di continuità.
“… le società tradizionali sono accomunabili alle attuali nella cancellazione radicale del singolare concreto.” – da cui deriva “il medesimo spirito di estraneità…”
L’idea stirneriana “di ossessione metafisica”: “Nel punto preciso in cui uno scopo fisso, ossia un’idea-fissa e comincia ad appassionarci, entusiasmarci e renderci fanatici, insomma quando mette fuori gioco la nostra autorità e diventa nostro-signore.” L’idea “s’impadronisce dell’esistenza e la guida con leggi tali da espropriare l’uomo singolo, con tutti i suoi portati di unicità, dalla proprietà di se stesso.” Tale “idea fissa si fa sentire anche nella forma di ‘leggi, principi, punti di vista’ e simili.” Si tratta di punti di vista estranei all’individuo, esterni, come “il cielo è il ‘punto di vista’ dal quale si smuove la terra, si osserva la vita terrena e – la si disprezza.”
La “libertà individuale” indica soltanto “che io sono indipendente dalle persone. È libero individualmente chi non è responsabile di fronte a nessun uomo.” Nel socialismo la proprietà “sarà – impersonale, apparterrà alla – società.” Gli uomini saranno conseguentemente dei miserabili “straccioni”. L’alternativa “al liberalismo politico e a quello sociale, Stirner colloca un altro modello, che definisce critico-umanitario, anch’esso del resto inquadrato nello schema generale del ‘liberismo’.”, che “intende sottoporre l’uomo ad una critica che lo spogli di qualsiasi appartenenza, di qualsiasi realtà concreta che ne faccia un individuo singolo.”
Attenzione, però: “Non sarà l’Unico a doversi adeguare all’idea di uomo, ma è quest’ultima che deve entrare a far parte della proprietà dell’Unico.” Questo termine ridicolmente angosciante: proprietà!
“… il protagonista assoluto, l’unico, non è né oggetto, né soggetto di pensiero.” Egli prende le mosse da quell’io: “Su di me, l’innominabile, s’infrange il regno dei pensieri, del pensiero e dello spirito.” – analogamente l’onda si frange sullo scoglio immoto, ma resistente al conseguente urto.
“L’io non è dicibile, né pensabile, ma soltanto esperibile in un agire senza fondamento: è quella realtà senza nome posta nelle profondità della vita e della sua consumazione creatrice.” E qui, nella più assoluta mis-credenza, nasce l’insolenza stirneriana: “Millenni di civiltà hanno oscurato ai vostri occhi ciò che voi siete, vi hanno fatto credere di non essere egoisti, ma di essere invece chiamati a diventare idealisti…”
Egli invita l’uomo (a partire da se stesso?): “Scuotetevi di dosso queste idee! Non cercate la libertà che vi deruba di voi stessi con l’‘abnegazione’, ma cercate voi stessi, diventate egoisti, ognuno di voi divenga un io onnipotente!” Non è facile, caro Max, tu ci sei riuscito?
“La volontà dell’Unico, essendo la volontà di una entità vuota di sostanza, non può che essere concepita nel suo svolgersi istantaneo. La stessa politica dev’essere fondata sulla “associazione volontaria”. Pertanto l’Unico “è legge a se stesso e rigetta ogni autorità che non sia propria. Esso possiede un potere indiscutibile su tutto ciò di cui sarà possibile appropriarsi. Non ha, né può avere un’azione predefinita: non lo guida alcuna morale…” La proprietà: “va intesa nel senso più ampio: può essere un bene materiale, ma può essere perfino un impero…” L’Unico può possedere l’intero creato, ma quel che importa è che “possegga anzitutto se stesso. Nessuna proprietà sarebbe infatti possibile se l’Unico non si possedesse.”
Analogia moderna: è simile a una memoria di massa che dev’essere formattata coi propri file iniziali (per cui si parla di inizializzazione): il problema è che, a quanto ho creduto di capire, esso è immateriale, non esiste come tutto il resto del creato. Forse esiste in modo tutto suo.
“Vi sono diritti perché vi è lo Stato e viceversa.” – esterno a tutto questo vi è quell’Essere alternativo, “che sostiene la potenza” e, “allo Stato contrappone l’unione (Verein). La voce assoluta dell’Unico nulla ha a che fare con “tutti gli strilli dei ‘liberali’”.
“Indiscutibilmente esistenzialistico mi sembra infine il fatto che l’unico sia fondato su nulla e che esso dunque sia ontologicamente destinato ad un’incessante creazione di se stesso.” Esistono infiniti antagonismi: Ogni essere superiore a me stesso, sia Dio o l’uomo, indebolisce il sentimento della mia unicità e impallidisce appena risplende il sole di questa mia consapevolezza. Se io fondo la mia causa su di me, l’unico, essa poggia sull’effimero, mortale creatore di sé che se stesso consuma, ed io posso dire: Io ho fondato la mia causa su nulla.”
“Su nulla” non è “sul nulla”: è semplice negazione di un Qualcosa “Egli piuttosto afferma di aver fondato la sua causa su nulla. E cioè di non averla fondata affatto.” La filosofia di Stirner non ha dunque fondamenta? “L’unione non sta insieme né per un legame naturale, né per uno spirituale. Non è un sangue o una fede (cioè uno spirito) a fondarla…” Sappi, “unico”, che “l’unione non ti possiede: sei tu che la possiedi o che ne fai uso.” Stirner ha reputato il suo compito pedagogico-filosofico “tanto rilevante da volervi scrivere un libro.” Ogni libro però è fondato su qualcosa ed è destinato a fondare qualcos’altro: “Ma utilizzare il linguaggio della scienza non significa ipso facto riconoscere l’esistenza di fondamentali ed insopprimibili mediazioni fra l’uomo e il mondo?” – fra l’unico e tutto il resto?
“… se l’Unico in quanto libero da tutte le cause è – come Stirner stesso afferma – già da sempre perfetto, com’è possibile coniugare tale perfezione (che, non bisognerebbe dimenticarlo, è sempre stata attributo di Dio) con il fatto che essa è destinata a dispiegarsi nel tempo?” Come può la perfezione, insomma, attributo necessario dell’Immutabile, assumere i caratteri propri del divenire? Perfectus est = morto?
Dio è morto, dicono. Era l’ultimo sopravvissuto della sua inclita schiatta?
Antonio Martone: perché ogni tanto affida a questa parolina unica il carattere minuscolo e a volte il maiuscolo? Ci sono Unici e unici? O tu stesso ignori la necessità reale di queste peculiarità tipografiche? “Pensando all’Unico come ad una sorta di essenza senza contenuto, Stirner ha trascurato il fatto che non si dà alcuna realtà naturale che non sia già in qualche modo codificata e, per così dire, ‘culturizzata’.” È tutto segno, segnale e simbolo di qualcos’altro? Può tutto significare, almeno in parte, qualcos’altro?
“… l’Unico non rinuncia a niente, storia e società che sia, e che – ed è questo il punto decisivo – che giammai l’Io stirneriano potrà identificarsi con una qualche simbologia di questa storia o di quella società.” – esse sono e rimarranno a Lui per sempre estranee.
“L’io e la morte non vanno cioè intesi – come fa Stirner – soltanto all’interno di una sequenza temporale che veda un Io che costantemente si consuma e così facendo si an-nulla e rinasce, ma dovrebbero piuttosto essere pensati, nella loro co-appartenenza essenziale.”
Secondo Martone, risulta che “Stirner trascuri l’inevitabile e necessaria co-originarietà del rapporto Io-Mondo” – difettando della necessaria relazione che collega un quid a un altro: ma l’Unico non è un quid, né un altro: è un’assolutezza non comprovabile e non traducibile. È nulla.
“L’unico accoglie tutto secondo la sua volontà e grazie alla sua potenza, ma quest’ultima – appunto – poggia su nulla.” L’elefante poggia sulla corazza di una tartaruga. Sotto vi è forse l’Unico. E sotto ancora?
“Dato infatti che l’autore di Bayreuth esclude che l’Io possa essere il risultato di storie diverse e di esperienze inconfrontabili, se ne può ricavare che, piuttosto che una realtà davvero unica, il suo Unico costituisca una sorta di unici fatti in serie. Soltanto radici particolari, dimensioni storiche e identitarie peculiari ad un solo individuo potrebbero fare di un uomo una realtà unica. Ma ciò, visto che Stirner considera l’Unico al di fuori delle caratterizzazioni identitarie, deve essere escluso.” Io ignoravo questo assurdo filosofo, che resta tale anche dopo la dotta e chiara descrizione di Antonio Martone. Ma i dilemmi che mi hanno donato entrambi (sia il filosofo originale che il suo traduttore) mi stanno stimolando a tentare una temo vana e illusoria comprensione. Questo è il primo fine (mi si perdoni l’ossimoro) della ricerca filosofica: tentare di capire l’umano che ha già parlato.
“L’unica legge dell’Unico è la sua volontà ed è quest’ultima che l’Unico cercherà di realizzare.” Infine: “l’io è vuoto e privo di radici e, in quanto tale, esposto al duplice rischio (due facce della stessa medaglia) dell’identificazione populistica-totalitaria da una parte, e della polverizzazione indocile ma serializzata dall’altra – comunque in affanno nel confrontarsi con la realtà a partire dalla propria (questa sì davvero unica) concretezza esistenziale.” E fin qui mi ha portato Antonio Martone. Ora desidero cavalcare da solo (si fa per dire). M’imbatto in un ciuccio girovago e ci monto ‘n coppa. Dopo qualche miglio incontro per la strada un pensatore appiedato. Scendo e do all’equino una pacca nel sedere e lui la piglia come un invito a scorrazzare per i fatti suoi, e così rimango a tu per tu con quello strano individuo. Che si chiama Krishnamurti.
Di lui lessi quand’ero poco più ventenne una sfilza di libri non certo incomprensibili dal punto di vista logico, ma inattuabili da quello operativo. Egli propugnava di osservare la realtà così come accadeva, come si fa quando ci s’imbatte in un cobra: se si ha un bastone in mano lo si può abbattere (io non lo farei, ma un indiano forse sì). In quell’occasione non occorre fare affidamento alla preesistente mia esperienza erpetologica, bensì occorre agire e null’altro. Tu sei unico e lui pure, ognuno per conto suo. E finisca come deve finire. Krishnamurti avvertiva la necessità di liberarsi dal conosciuto, che è sempre foriero di confusione mentale, che ti fa concentrare su un problema, annullando però la tua attenzione nei confronti dello stesso. Questa è la nostra prima e ultima verità e libertà. Parafrasando il poeta, ognuno è unico sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole, ed è subito il momento dopo.
Mi domando cosa si direbbero quei due pensatori se capitassi loro di sedere in un tavolino di quel bar sempre più intasato da menti reattive (dove sorseggiano nervosamente bevande Hugo, Tolstoj, Majorana, Dirac, Hobbes e Pasolini).
Perché l’autore di Bayreuth e il filosofo indiano hanno scritto le loro opere? Chi volevano convincere? Se stessi oppure l’Altro? Perché Jiddu Krishnamurti ha ospitato un elevato numero di discepoli nel suo ashram? Cosa gli raccontava ogni mattina? Jiddu, perché dovrei confidare nelle tue pur sagge parole, con cui tu m’insegni di allontanarmi dai precetti altrui?
Max: sono più Unico io o tu, oppure Antonio Martone? Oppure tutti e tre lo siamo in un modo assolutamente identico? Ovvero inconfrontabile? Forse m’affanno a cercare una ragione che potrebbe non esserci. Ognuno è unico davanti al mondo e come tale deve reagire. Io non scrivo critiche o recensioni perché forse non ne sono capace, ma soprattutto esse non fanno per me. Io trasmetto reazioni. Mentre lo faccio sono Unico. Non ho parenti, né amici, né simili. Sintetizzo l’insegnamento che ho creduto (o mi sono illuso) di ricevere da te (e da Jiddu): ognuno di noi è posseduto da mille pregiudizi e da quella cosa tondeggiante e spugnosa che si chiama cultura: da tutto questo non possiamo prescindere, ma non dobbiamo lasciarci condizionare. E ogni attimo della nostra relazione col mondo è unica e irripetibile. Quel tuo Unico è perfettamente morto. Amen! E ora gettalo. Avanti il Prossimo!
Un’ultima cosa. E la dis-uguaglianza? Beh, ognuno deve imparare a gestire la propria.
Un’ultimissima faccenda. E la proprietà? Beh, è Maya, un’eterna illusione e nulla più. Cominciamo a imparare è il primo libro che lessi di Jiddu.
E ora si passa finalmente al più cattivo dei maestri, che sta molto fremendo e anche un po’ nitrendo. Mi sto già inoltrando nel sesto capitolo L’innocenza di Dioniso – l’eterno ritorno della disuguaglianza in Friedrich Nietzsche, che ancora Max Stirner è rimasto nell’aria, in un confronto con il filosofo più interpretato e frainteso della storia.
“Per Stirner il presente in fondo non è altro che il tempo più propizio alla valorizzazione dell’Unico – nessuna nostalgia, nessuna mitizzazione di un qualche passato storico ispirano infatti l’autore di Bayreuth –, in Nietzsche a contrario, il Moderno non è altro che la fase tramontante e nichilistica della civiltà occidentale, il risultato della ‘dimenticanza’ di qualcosa di essenziale.” Presente: innanzi io sono, pronto a gettarmi in nulla. Il tempo, ammonisce Julian Barbour, e il suo allievo Carlo Rovelli conferma, di fatto non esiste: si tratta di un’invenzione matematica e sensoriale. Ergo è soltanto un’illusione. In essa esiste per un caotico attimo, confuso in tant’abisso, sparendo nell’istante successivo, l’Unico: sic transit gloria Sui. E potrà rinvenirsi un bel dì, quando sarà possibile, lungo quel filo cosmico a cui sono appesi a quasi infinite mollette gli stati già trascorsi e quelli ancora di là da venire.
Il capitolo inizia con un confronto fra Nietzsche e i filosofi che l’hanno preceduto, in special modo con l’autore di Bayreuth. Checché ne pensasse, Krishnamurti questa è far filosofia: far rivivere la sua storia, con tutte le sinapsi fra tutti questi mega-neuroni. Anche Descartes affermava che nel momento della produzione di nuove idee occorresse fare una tabula rasa di quelle precedenti. Su questo io pongo dei dubbi, non negando che sia possibile, e forse anche doveroso, però estremamente improbabile.
Nietzsche è il filosofo che più ho letto e che meno ho compreso. Ero sui trent’anni e m’imposi di leggere tutto e mantenni il mio proposito. Arrivai anche a cercare una qualche edizione dei suoi biglietti della pazzia, ma invano. Il suo rapporto conflittuale con Schopenhauer, con Wagner, con Hegel, non mi era ignoto, ma fatalmente le ragioni dell’uno e dell’altro, prima della lettura di questo saggio, mi si erano cancellate dalla memoria. Ricordo soltanto che, leggendo l’autore di Röcken, provavo ogni volta una grande emozione, poiché subivo gli effetti di quell’energia terribile.
“… se l’autore dell’Unico appare di una estrema stringatezza ed essenzialità, mostrandosi interessato alla valorizzazione dell’Io/Unico più che ad ogni altra cosa, in Nietzsche il discorso si svolge sondando ogni possibilità che l’espressione filosofica può offrire.”
Nietzsche, ricordo benissimo, pareva esplodere in modo continuo, a ogni capoverso. Poi si ri-componeva e poi ri-esplodeva. Cominciava a farlo al primo capoverso e poi (non) finiva all’ultimo. L’energia veniva consegnata vergine al libro successivo.
“Allo stile (invero piuttosto grezzo) di Stirner, inoltre, risponde la scrittura rutilante e potentemente evocatrice di Nietzsche – ciò che ne fa uno dei maestri in assoluto della lingua tedesca.”
Non m’importava tanto comprendere l’assurdità, ma sentirla come necessaria, anzi, inevitabile.
“Per Stirner il presente in fondo non è altro che il tempo più propizio alla valorizzazione dell’Unico – nessuna nostalgia, nessuna mitizzazione si un qualche passato storico ispirano infatti l’autore di Bayreuth –, in Nietzsche al contrario, il Moderno non è altro che la fase tramontante e nichilistica della civiltà occidentale, il risultato della ‘dimenticanza’ di qualcosa di essenziale. Pertanto nonostante sia l’Unico stirneriano, sia il superuomo nicciano si presentino in quanto ‘creatori’, mi sembra chiaro che non sarebbe apparso sufficiente a Nietzsche la restituzione all’Io della semplice facoltà creatrice…”
Entrambi i filosofi avrebbero giudicato l’opera dell’altro una sorta d’illusorietà da compatire. Dopo aver letto non solo il sesto capitolo, ma anche le Conclusioni, pur con la consapevolezza rassegnata di dover poi scegliere una strada che non condurrà da alcuna parte, ho deciso di evitare ogni confronto fra l’autore di Röcken e i suoi precedenti maestri, nonché eventuali e disgraziati epigoni.
Nietzsche non aveva maestri, o forse li rigettò tutti: è stato il Franti che, infame, sorride delle sventure altrui e dell’incapacità universale di compiere un tragitto logico che sia perfetto. In quel tragicomico e sempre più affollato barettino mi piacerebbe che Friedrich si accomodasse a lato di Jiddu, e che ogni tanto bofonchiasse (sardonicamente!) alle sue spalle. Jiddu lo guarderebbe con attenta curiosità e poi proseguirebbe imperturbabile nella sua disquisizione.
Mi occuperò pertanto unicamente degli spezzoni della filosofia nietzschiana così come li donerò Antonio Martone.“… in Nietzsche si assiste invece ad una forma di relazionismo basato su un conflitto da sempre e per sempre in atto. Ciò che caratterizza l’umano, in quanto elemento regionale della potenza, è infatti uno scontro interminabile che non riguarda tanto uomini isolati, quanto gruppi che incessantemente confliggono, disputandosi quote di potere che chiedono di essere sempre presenti.”
Nietzsche ha bisogno dell’Altro, dell’Antagonista, per dimostrare a se stesso e a tutti di essere non il più potente, ma l’essenza della potenza: al confronto, Krishnamurti è un anacoreta che fa i cavoli suoi, distribuendo la sua saggezza ai suoi discepoli, senza però chiedere un confronto, se non è l’Altro a domandarlo.
“Non si dà uguaglianza che non costituisca l’esito di lotte imponenti ed antiche – il dominio dell’uguaglianza è il frutto avvelenato di una ‘menzogna bimillenaria’, utilizzata come arma di guerra.” La parola menzogna è esplosiva, a differenza di inesattezza, errore, finzione, anche di fandonia, che pure è aggressiva. Menzognero è il nemico che sa che è lì, fuori dal tuo castello, pronto ad assaltarlo e a depredarti di ogni tuo avere.
“Non è un caso per Nietzsche che la modernità abbia elaborato la teoria e la prassi dell’uguaglianza. Niente più dell’uguaglianza evidenzia la pochezza dell’uomo/massa.” Gli direi, al buon Friedrich Wilhelm, ti ricordi anche tu di quell’1% della popolazione mondiale che gestisce da sempre la massima parte della ricchezza economica? Tu a quale lato della tavola sei seduto? Non importa che sei uno spirito libero, dato che sei, per loro, un corpo povero. Loro decidono per te, come per me, quanto ci costerà la prossima bottiglia di Passito di Pantelleria che ci vorremo sorbire in santa pace.
È un discorso mediocre? Lo è, perché tu e io siamo così mediocri al loro cospetto. Siamo, ognuno con la sua gradazione d’intelletto, superiori a loro? Forse, ma il dato è inconsistente e non influisce sull’esito della tenzone. Per loro noi siamo uomini a 0,000001 dimensioni e nulla più. Il Karl, che era il più dialettico e serioso dei fratelli Marx, e che tu non puoi non conoscere, ha detto che tutto al mondo vale secondo la sua dimensione economica; il resto, anche la tua filosofia, è sovrastrutturale. E finora nessuno l’ha sbugiardato.
“Ma l’individualismo per Nietzsche – e qui egli fa intervenire lo sguardo di lungo periodo – è destinato ad essere soltanto una fase dello sviluppo della potenza. Il suo obiettivo non può consistere semplicemente nella costruzione di una società democratica. L’individualismo è destinato ad andare oltre: ‘Con tutto ciò: l’individualismo è il grado più modesto della volontà di potenza…” – ha scopi ben più eccelsi e raffinati.
Ma è il suo punto di partenza, Friedrich Wilhelm? “… nulla è più pericoloso per l’uomo dell’uguaglianza… – non ti preoccupare, Friedrich Wilhelm, si tratta di un rischio praticamente nullo.
“La dottrina della volontà di potenza dovrà assumersi il compito di combattere contro una modernità che involgarisce l’uomo privandolo di qualsiasi ‘distinzione’. I ‘diritti uguali’ – in quanto diritti di tutti – significano per Nietzsche la cancellazione del senso più proprio del diritto.” Friedrich Wilhelm, intendi forse affermare che solo il privilegio inaudito del Superuomo è un sacro diritto da rispettare?
“Il livellamento dell’uomo europeo è il grande processo che non si deve ostacolare: bisognerebbe affrettarlo sempre di più. È così data la possibilità dello spalancarsi di un abisso, della distanza, della gerarchia: non la necessità di rallentare quel processo.” Si tratta di una specie di pandemia che deve invadere l’umanità al fine di permettere di individuare qualcuno che è in grado di non adeguarsi a quel progetto?
“… se il Moderno cerca un’origine collocata oltre la razionalità; se il Moderno è ispirata da una temporalità accelerata, per Nietzsche le realtà davvero importanti hanno bisogno, per formarsi, di tempi lunghissimi.” Chissà, forse quel millennio, che si augurava un tuo pessimo e disastroso lettore…
“Non soltanto la morale e i costumi, ma anche i concetti, le parole, e perfino la grammatica, per Nietzsche, non sono altro che un prodotto ‘umano, troppo umano’, finalizzato alla conservazione/potenziamento della vita.” Anche la numismatica e la filatelia, immagino.
Nietzsche, dice Martone, ha tentato di scavare a fondo all’interno della nostra ragione di vita, per “smontare la forza autolegittimante delle realtà ‘istituzionali’ della filosofia, della cultura e della politica, mostrandone la funzione (la finzione) ‘strumentale’ – esse sono nient’altro che ‘protesi organiche’, armi/armature di cui gli uomini si sono dotati nel loro essere-nel-mondo.” La società moderna effettivamente pare un robot male programmato e la cultura sembra essere una serie di programmi scritti secondo un fine essenzialmente pratico-economico-funzionale, per nulla umanistico.
Friedrich Wilhelm, a te non importa il “senso di giustizia” e “l’uguaglianza”: essendo convinto “che tale liberazione sia impossibile e perfino non auspicabile”. E qui non ti seguo, né te, Friedrich Wilhelm, né te, Antonio: se è impossibile, non ha senso dire che è anche auspicabile. Gli avis destinati all’augurio non osservano più da nessuna parte, non c’è alcun rischio che gettino lo sguardo da quella parte. Dove guardano allora? Intanto, accontentiamoci, faccio per dire, del fatto che: “la moralità è l’istinto del gregge del singolo”.
Oggigiorno si parla d’immunità di gregge. Ti faccio una domanda, Friedrich Wilhelm: tu ti saresti vaccinato? Come? Sono fatti tuoi? Oh, scusami!
“Ciò che occorre fare allora è smascherare la volontà di potenza ‘reattiva’ insita nella morale cattolica-cristiana dell’Occidente, riconsegnando l’uomo ad un’innocenza che la morale della colpa (la cattiva coscienza) gli ha ‘colpevolmente’ sottratto.” A te, Friedrich Wilhelm, contrappongo Rosalinda, mia madre, quinta elementare, che diceva che la colpa è una brutta bestia, che nessuno vuole ospitare a casa propria. Io sono d’accordo sia con lei che con te: non serve tanto individuare il colpevole, quanto rinvenire la soluzione al problema dell’esistenza. Sei tu “il medico della civiltà”? È in tale senso che tu, Friedrich Wilhelm, ritieni “si debba anzitutto cancellare l’idea metafisica del male.” Anche in questo potevi essere d’accordo. Il male è fisico, per questo fa male. Occorre risolvere i suoi effetti negativi con la scienza e la tecnica. O no? Non esiste, secondo te, Friedrich Wilhelm, “un male ‘naturale’: la concezione metafisica del male è in realtà un’invenzione morale, frutto della volontà di potenza dei deboli – nient’altro dunque che uno strumento ‘ideologico’ nella lotta per il potere.” Allora, che si fa?
Friedrich Wilhelm, la tua “genealogia”, cioè la tua ricerca dell’origine, “apre su una dimensione che non è esclusivamente morale, ma è soprattutto ontologico-metafisica.” La prima reazione è che penso al detto delle mie parti, che ti traduco: fra correre e scappare… Essa, dice Antonio, “è dirompente proprio perché si colloca su un piano in cui la potenza dell’uomo si rapporta al proprio specifico essere. Soltanto su tale base infatti può assumere senso il fatto morale. Tale apertura però appare spesso dimenticata dallo stesso Nietzsche, il quale proclama di volersi liberare dalla metafisica, riconnettendo l’intera genealogia alla questione ‘umana, troppo umana’ della morale.”
Friedrich Wilhelm, se in quel fumoso localino, ti capitasse d’incontrare quell’altro Karl (il già citato Popper), lui ti potrebbe indicare una soluzione al problema. Ripetiamo la sua lezione: una teoria è scientifica se la si può falsificare; è religiosa se non è risolvibile una sua dimostrazione/negazione. E mia mamma (che però non ama i bar, avendo la vita regolata sul senso familiare del dovere) potrebbe aggiungere: ogni coglione ha la sua passione. Dipende da quel che tu cerchi. E che tutti gli altri intendono rinvenire nella polvere della Storia.
“Forse alla radice della follia di Nietzsche vi è anche la consapevolezza, più o meno inconscia, dell’impossibilità di superare l’insuperabile. Un destino nichilista cioè che né lui, né il tempo avrebbero potuto portare sulla soglia di una nuova epoca.” Aut Caesar aut nihil, disse qualcuno. Mi pare assai meglio la terza via: l’ironia.
Una grave malattia dell’uomo moderno, che dà “la sofferenza che l’uomo ha dell’uomo, di sé: conseguenza di una violenta separazione dal suo passato d’animale, di un salto e di una caduta.” – la malattia è la mancata consapevolezza della propria bestialità.
“Nei suoi intendimenti, dopo lo Stato, dovrebbe emergere una umanità universale, che parli una lingua comune del bene e del male, composta da oltre-uomini che si sono lasciati definitivamente alle spalle la morale ascetica e la cattiva coscienza, ma non è affatto chiaro come ciò possa avvenire e, anzi, neppure se ciò sia possibile. Per quanto mi riguarda, pur non volendo sembrare eccessivamente freudiano, non riesco ad immaginare una forma di civiltà che non sia fondata sulla repressione/sublimazione della naturalità istintuale.” Capito, Friedrich Wilhelm? Anch’io ho delle perplessità, c’è poi quell’odioso avverbio di modo, definitivamente, che mi pare un tantino metafisico: come si può interpretare il futuro senza il vaticinio di un santo? E tu, santo, non mi pare che lo sia per nulla.
“Il Nietzsche esaltatore della salute, anzi, della ‘grande salute’, colmo di impeto nel difendere le ragione dei sani contro la degenerazione di cui i deboli sono portatori, si dichiara convinto della presenza di un potenziale salvifico insito proprio nella malattia.”
Secondo te, Friedrich Wilhelm, “I Greci cioè niente possedevano meno che una salute quadrata; il loro segreto era di venerare come Dio anche la malattia, purché avesse potenza.” Uffa! Sempre quella parolina che comincia con una Maiuscola e che termina con io!
Secondo Antonio, tu, Friedrich Wilhelm, finisci con consacrare il tanto vituperato nichilismo: “Tutto ciò significa, si osi rendercene conto, una volontà del nulla, un’avversione alla vita, una rivolta contro i presupposti fondamentalissimi della vita, e tuttavia è e resta una volontà! … E per ripetere in conclusione quel che già dissi all’inizio: l’uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere…” Purtroppo, anche tu, Friedrich Wilhelm, per venirci fuori col tuo discorso, finisci con il parlare come un libro stampato. Che poi si rimette sullo scaffale, magari non prima d’averci scritto una reazione, e lo si abbandona infine al suo vano destino cellulosico.
Secondo te, Friedrich Wilhelm, la filosofia è “un fraintendimento del corpo”, un intendere otto per diciotto quello che il corpo, gemendo, esprime.
“Il filosofo crede di far parlare la verità. In realtà è il corpo che parla, ma lo fa facendosi fraintendere.”
Torniamo a Jiddu: cerchiamo di vedere la realtà, dimenticandoci di quell’ignobile mostriciattola che si chiama Verità, anzi verità, con l’iniziale minuscola. È stata solo uno scherzo metafisico e nulla più.
“Piuttosto che un errore da correggere, il nichilismo è allora nient’altro – esso medesimo – che un figlio legittimo della volontà di potenza.” Una famiglia in cui è venuto a mancare il padre. O quel genitore sei tu, o lo sono io, o lo è Antonio Martone? Oppure lo siamo alla fine tutti?
“L’inattualità di Nietzsche significa piuttosto che il suo pensiero evoca un mondo talmente estraneo all’uomo storico da risultare del tutto inammissibile ad esso.” Di chi è la colpa, Antonio, di Friedrich Wilhelm o dell’uomo? O di te, o di me?
“Non vi sono soggetti, infatti, per Nietzsche, così come non esistono individui. Il ‘mondo della vita’ è fatto di punti di forza che si sommano e/o si colonizzano vicendevolmente. L’unica realtà del mondo è volontà di potenza.” Secondo Antonio, la tua maggiore qualità, caro Friedrich Wilhelm, è la tua forza “deflagrante”. Non tanto le cose che dici, Friedrich Wilhelm, ma la tua maniera di af-fermarle, scolpendole, nella testa di chi ti legge. Oggi come ieri, se non di più. Per te quel che conta è la specie, non l’individuo. L’individuo è crudele? Non serve, se non lo diventa la specie a cui egli appartiene, di cui è il supremo schiavo. Il superuomo servo di se stesso. Il lupus che non teme confronti con nessuno. Se non con la propria specificità. O forse non ho capito granché, Antonio?
Il tuo fascino, Friedrich Wilhelm, secondo Antonio: l’“incomparabile capacità e il coraggio di spingersi senza alcun riparo verso le dimensioni tanto abissali da non essere più dominabili” – un caos che fa perdere la testa. Ma il primo a impazzire sei stato tu, Friedrich Wilhelm. Però il tuo attendere l’Anticristo non può che destare la mia e l’altrui pietà, non soltanto la pietas.
“Il vero problema pertanto sarà come affrontare la ‘colpa’ del divenire, e cioè come gestire la ‘paura’ che ne discende inevitabilmente. E, soprattutto, come farlo in una fase epocale, cupa ma ricca di possibilità, quale quella caratterizzata dalla ‘presenza dell’assenza’ di Dio?” Devo ammetterlo, Antonio, quel punto di domanda finale mi ha colto impreparato. Se Dio è morto, ti domandi, l’umanità è divina in quanto erede che accetta l’eredità, oppure no, una semplice cittadinanza orfana?
La fine non può che essere: “Il nichilismo è forse il destino della modernità. Ma non tutti i nichilismi sono uguali…”
Conclusioni delle conclusioni: “… sotto/dietro l’intenzione di costruire una uguaglianza formale, la modernità ha celato una volontà di potenza – qui posso senz’altro usare l’espressione di Nietzsche – che di fatto ha sempre costituito una minaccia, più o meno realizzata, di capovolgimento di quella stessa uguaglianza in disuguaglianza radicata.”
Si tratta di una menzogna, di una finzione o di un turpe sortilegio?
“Davanti a un individualismo quale quello con temporaneo, ottuso e cinico, gaudente e fracassone, tutto ciò sembra forse un’utopia. Ma io non credo sia tale; penso piuttosto che si tratti di un realismo politico, nella cui tradizione vorrei in fondo iscrivermi.” Poco sopra avevi scritto: “… è necessario adoperarsi politicamente affinché si stringano fortemente insieme quegli anelli intergenerazionali che oggi paiono del tutto frammentati.” Tante frazioni contribuiscono a formare un intero. Che sarà coeso? Forse per sempre?
“Occorre pensare dunque ad un immaginario diverso da quello che impera in larghi strati della contemporaneità?” Un idealistico e super-uomistico andare oltre? Un’esagerazione eroica?
“… come abbiamo visto, la tendenza dell’uguaglianza a degenerare in perniciose disuguaglianze ha caratterizzato l’intera storia moderna?” Inutile fare sinistri esempi. Ma anche destri.
“Un’operazione di democratizzazione, pertanto, nella forma di una migliore e più concreta possibilità di partecipazione pubblica alle decisioni che ci riguardano, è auspicabile e anzi urgente.” Servirà pregare o si dovrà scendere in piazza armati di qualcosa di contundente, in senso dialettico, beninteso?
“Non c’è individuo senza comunità; non c’è comunità che non debba appoggiarsi sull’apporto imprescindibile dell’individuo. Occorre rilanciare l’idea olistica dell’intero, nella convinzione però che nessun intero potrà mai essere tale senza che ciascuna delle sue parti, costituendolo, lo determini.” E se fosse un piano già predisposto e confezionato dall’inizio di questo cosmo? E se non fosse necessario che assumerne la piena consapevolezza?
Grazie, Antonio, per aver scritto questo tuo assurdo libro. Perché assurdo? Perché nessuno e quindi parimenti tutti gli autori che hai citato finiscono per condurti alle tue virtuose considerazioni finali, che non mi è possibile non condividere. Mi fai rammentare la canzone Cumm’è di Gragnaniello. Solo scendendo nel punto più basso e oscuro, si può tentare di risalire verso la luce che appena s’intravede lassù.
Friedrich Wilhelm, come altre bestie rare e feroci, penso a Rimbaud, Celine, Carmelo Bene (non so se rimembri il suo Io odio gli uomini!), e pochi altri eroi, pur non riuscendo a comprenderli veramente, essi anche oggi riescono a sommuovermi, spostandomi, anche sgarbatamente, dalla mia tendenza a credere che in fondo la vita è alzarsi la mattina, fare colazione, leggere, scrivere, fare due passi, pranzare, leggere ancora, scrivere ancora, incontrare amici, arrampicarsi insieme a loro su per un sentiero che conduce a una dolce collina matildiche, poi cenare, andare a letto, dormire (e compiere giornalmente tutti i nostri umani bisogni). Ma soprattutto: sognare.
È, invece, anche avere coscienza del nostro dover ex-agerare, costretti dal nostro antagonista interiore a espatriare da noi stessi, a esiliarci da tutto, anche dai nostri cari. Tranquillo, fratello. Mio figlio direbbe: Trà, brà. Prima o poi azzannerò gli altri tuoi libri politico-filosofici.
Cerchiamo nel frattempo il nostro destino, ché è sciocco e da vili attendere i tartari. Che poi anch’essi fanno parte della zuppa umana. Noi dobbiamo soltanto attendere noi stessi. Gli altri verranno, forse, quando meno te lo aspetti.
Ultime due espressioni tipicamente reggiane.
1) Diamoci una mossa!
2) Scantiamoci!
Cioè: togliamoci da qui, e rigettiamo quell’infame incanto che ci sta paralizzando a far tempo dall’eternità!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Antonio Martone, Le radici della disuguaglianza, Mimesis