“Donne e bambine nella miniera di Montevecchio” di Iride Peis Concas: la strage del 4 maggio 1871
Un libro, una storia vera di miniera. Storia autentica, drammatica, di miseria e di sfruttamento ignorante.
Una storia vera, appunto, di donne, di bambine che nelle viscere della terra non sono più bambine, non sono niente. Respirano, hanno sangue nelle vene, spiccioli di sogni, e vorrebbero essere farfalle e aria, ma che un improvviso boato sordo le ferma tutte al minuto zero, facendole diventare farfalle per sempre.
Antioca, 32 anni di Arbus; Rosa 15 anni di Guspini; Luigia, 27 anni di Arbus; Luigia, 15 anni di Arbus; Rosa, 50 anni di Guspini; Anna 11 anni di Arbus; Elena, 10 anni di Arbus; Anna, 12 anni di Arbus; Caterina, 10 anni di Arbus; Anna, 14 anni di Arbus; e ancora, Anna, 14 anni di Arbus.
Undici persone, undici donne e bambine, undici storie che si fermano nell’istante di un boato.
Iride Peis Concas ce le racconta dai documenti ufficiali, ma ce le fa rivivere attraverso le sue emozioni di fantastica narratrice, sensibile come pochi, alle sofferte vicende umane di questa storia. La storia, appunto, è la storia vera della strage delle dipendenti della Miniera di Montevecchio che la sera del 4 maggio 1871 sono state uccise dal crollo del dormitorio femminile.
L’autrice guspinese ci porta dentro l’atmosfera rarefatta di un mondo in chiaro-scuro, soprattutto scuro. Il mondo del sudore, della polvere e dell’umido sempre appiccicato addosso dell’estrazione mineraria. Lo fa col suo libro Donne e bambine nella miniera di Montevecchio (Pezzini Editore), dove l’altra metà del cielo, come le definisce lei, è l’assoluta protagonista dell’opera.
È un libro di grande formato, forse A4, ma è uno scrigno dove c’è dentro tutto. Ci sono immagini dell’epoca, antichi documenti autentici, storie raccontate graffiando sensazioni, e poesie. Poesie ispirate dalle vere protagoniste: loro undici, loro scolpite per sempre nella storia del femminismo sardo, loro.
Perché per noi, come si legge nella prefazione, dovrebbe essere un simbolo: il 4 maggio, molto più dell’8 marzo.
Loro. Ricordare solo loro quel giorno maledetto.
Apri il libro e riesci subito a immaginarle. Giri pagina e ti ritrovi come a passeggiare in quei luoghi antichi, passati e trapassati, ma Iride Peis fa la magia di farteli attraversare. Stai lì, senti il primo vento tiepido di maggio sulla faccia, vedi le vallate che esplodono di primavera, e i vecchi sassi, e i sentieri. Ti sembra poter mettere i tuoi piedi su quelle stesse tracce di un tempo che fu. La tua orma sopra quella di chi è passata, e non tornerà più. Immagini il fragore assordante del crollo, ma poi no, questo non ha più voce. Ormai. Quello che senti adesso è solo un impressionante, profondo, silenzio. Silenzio tutto intorno. Silenzio dentro di te. Ci pensi, e vorresti tirare l’autrice per la manica: “Iride Peis, ma dove mi hai portato?”.
Il silenzio te l’ha regalato lei quando lo ha scritto, e adesso ha sapore di polvere. E vorresti un velo di polvere su queste undici storie di donne e bambine uccise dalla spietata logica dei profitti senza badare a nulla.
L’autrice lo spiega molto bene, perché il libro è anche un manifesto in difesa delle donne, delle grandi, superbe, donne dell’Ottocento che in miniera guadagnavano la metà di un uomo qualunque. E loro, si capisce tra le righe, qualunque, non lo sono mai state. Si spaccavano le mani e la schiena per più di dieci ore, per una cifra, secondo il ruolo, corrispondente appena a due chili farina o poco più.
La maternità era guardata con sospetto e con disprezzo, e l’aborto, così frequente in quelle condizioni, per la Società Mineraria era un sollievo.
Donne, che costavano meno e lavoravano meglio, si legge. Donne, vessate, abusate e dimenticate. Ecco la rabbia, che l’autrice non denuncia per mantenere il suo profilo alto, ma che mette dentro lo scrigno. Perché la società forse era tutta così, ma la miniera era certamente peggio. Miniera: il mostro insaziabile.
“La miniera accoglieva tutti, uomini, donne e bambini. C’era lavoro per tutti, dentro il suo buio ventre e fuori nei piazzali e nelle laverie alla luce del giorno, nelle officine e nelle fonderie, negli uffici e nelle rimesse. Una brulicante umanità indaffarata, frettolosa, affaticata; carrelli cigolanti carichi di minerale spinti a forza di braccia, grida di caporali, colpi di martello a ritmo cadenzato nei piazzali dove decine di donne sedute a terra spaccavano pietre di galena e blenda, bambine che bardellavano, ragazzini chiassosi che rovesciavano carriole di sterile nelle discariche. Il lavoro di miniera era ad alto rischio, lo sapevano tutti”.
Le leggi non c’erano ancora, e quelle poche che c’erano restavano ben fuori dal buio dei cunicoli scavati nelle profondità della terra. E le bambine di dieci e quattordici anni che non dovevano stare lì, ma che se c’erano non importava a nessuno. A nessuno nella soleggiata palazzina della direzione.
Donne e bambine nella miniera di Montevecchio nasce per raccontare la tragedia del crollo di un misero dormitorio che ha ucciso undici persone, tutte donne e bambine, e diventa un viaggio nel tempo. Un viaggio nel dolore, ma l’autrice è brava a mettere il lettore in una zona sicura, dove centocinquanta anni di distanza non espongono ai rischi, ma comunque sei lì in mezzo, navigando a stento tra le rapide delle sue righe, delle sue ricostruzioni. Vivi quelle ferite senza più il sangue, ma con le sensazioni che rimangono forti. Forse la Peis scrive per riscatto, forse, ma sicuramente per amore.
Amore poi, nell’ultima parte del libro, nelle poesie. E le poesie qui sono sempre fili di immagini che si infilzano nel cuore. L’autrice ce le ricorda tutte nei suoi versi.
“Mi piace ricordarle così
riunite in piccoli gruppi a conversare,
oppure sdraiate sui loro giacigli a riposare.
…/…
Giornata pesante.
Un attimo dopo
Riposerà
Per sempre”.
Ancora silenzio, per un pensiero; quanto dura un pensiero? Centocinquanta anni, o un minuto. Centocinquanta anni, grazie al cielo, non sono passati invano, un minuto e un pensiero invece lo dobbiamo tenere per sempre. Sento la voce di questo impegno, leggendo il libro di Iride Peis.
Written by Pier Bruno Cosso