“Ennio Flaiano, una verità personale” di Gino Ruozzi: un italiano sottilmente inverso
Parto da un’idea stramba, come ogni tanto ho l’abitudine di albergare dentro di me: qualsiasi libro merita un commento, purché tu meriti lui. “Ennio Flaiano, una verità personale” saggio di Gino Ruozzi appare così completo e ricco di cose, di fatti, di avvenimenti e di precisazioni, che è difficile aggiungervi qualcosa, ma anche quest’ultima mia osservazione è un principio di reazione che, ove mancasse, renderebbe il libro meno ricco e fors’anche più povero, come se a un cane da strada si negasse una pulce.
Solo a pagina 96 ho deciso che è ora di dire la mia su alcune delle questioni poste. Fino a quel momento mi sono limitato a sottolineare alcune frasi significative. Qual è la caratteristica che appartiene a questa scelta, che è assolutamente personale (ossimoro)? Se è assoluta non riguarda una persona particolare, ché si dovrebbe dirla relativa. La seconda parte del titolo, una verità personale, mi è perciò di conforto. L’esergo di pagina 5 merita non tanto una sottolineatura, quanto un mio commento. È un aforisma di Ennio (d’ora in poi lo chiamerò così): “La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere.”
Ho il culto della parola. Leggendo Il cappello scemo di Haim Baharier, scopro che per gli antichi ebrei davar era una cosa, un oggetto, ma anche una parola, non un mero parlare, ma un ente che parla, un mattone con cui si inizia a costruire quell’edificio, che di solito viene chiamato discorso, ma anche libro, oppure opera letteraria. In ebraico arca è tevà, parola, un qualcosa di salvifico che ti fa superare le avversità, purché usata correttamente. Non basta possederla, bisogna saperla governare. Un oggetto può ferire, colpendo, può convincere, minacciando, oppure, può placare, dando soddisfazione. Lo stesso vale per una parola o un discorso, composto di tali intriganti oggetti. Il senso dello scrivere è cercare una relazione fra quello che ci è interno, solo parzialmente conosciuto, con quello che è esterno, a volte più evidente di quello che teniamo celato nel nostro intimo. Scrivere è fare uscire, partorire, oppure defecare: svelare al mondo un corpo che era racchiuso da una chiusura che non si riesce a spiegare, oppure ci si può provare, ma non sarà mai del tutto comprensibile a noi stessi, figuriamoci agli altri.
Il primo capitolo descrive “la società del caffè”, un luogo a-meno in cui degli uomini a-più (letterati, pittori, artisti in genere) appaiono e spariscono come d’incanto. Assomiglia a un ufficio o a un’associazione di volontari, oppure a una redazione di un giornale, dove ognuno non ha alcun obbligo di dire la sua, ma la dice, come per caso, per necessità e per leggerezza. Un luogo che non avrei mai frequentato, credo, ma non si può dire, ora non c’è più e quando era così rinomato non ero nato o ero un ragazzino schivo. Io credo nella socialità, ma essa dev’essere motivata. Similmente, pur non amando parlare al telefono, quando mi ci trovo, ci do dentro. Non dev’essere, dal mio punto di vista, un chiacchierare a vuoto, ma un costruire insieme a una persona cara, un discorso che, magari sfuggente, però deve avere la caratteristica di cogenza: le cose che dico e che sento devono essere essenziali al fine della comunicazione. Il motivo per cui non chiamo mai per fare due chiacchiere è che sto facendo altro che mi appassiona di più. Se è un amico che mi chiama, tenendo sempre presente quel famoso kam’a, espressione sanscrita che significa passione, da cui deriva sia amicizia, che amore, che kāma sūtra, ecco che, non sempre ma di frequente, quello che sto facendo smarrisce il suo interesse, che si volge ora all’amico, all’amato.
Lo studioso Gino (Ruozzi) descrive con minuzia di particolari quell’ambiente, e individua varie specie di sentimenti passionali, per esempio tra Ennio e Vincenzo (Cardarelli); e varie specie di inutilità sfiziose, non meno importanti. Gino dice: “Flaiano racconta questi due poli, che per dieci anni convivono nella stessa via e rappresentano opposti modelli di vita, da un lato la frenesia e la volgarità, la corsa al successo, l’ostentazione mondana, dall’altro l’intelligenza raffinata e tagliente, il primato della letteratura, la riduzione all’essenziale, l’indignazione intellettuale, un’orgogliosa povertà.”
Gino dice anche che Ennio non ha mai avuto dubbi “su quale dei due modelli prevarrà nella nascente età del boom economico.” E quel fine critico del suo tempo “prende le distanze dai cambiamenti di via Veneto; li osserva con disincanto e tristezza, come accade per i mutamenti che stanno avvenendo a Roma e in Italia.”
Gino riporta, da La solitudine del satiro, un pensiero di Ennio: “… perché Soldati ha lasciato definitivamente Roma: perché questa città gli appariva ormai come un Demonio bonario, accomodante e razionale, che gli stava spappolando l’idea del peccato: cioè, come il peggiore dei demoni”. Forse Roma è un accidente che bisogna provare almeno una volta e per il tempo necessario, per avere la scusa per scappare altrove. Il Mario (Soldati) che appariva in televisione era un uomo bonario e arguto, verso cui ho sempre provato simpatia. Ricordo che una volta diceva all’amico Nino (Rota) che il fissarsi a un domicilio, significava rinunciare all’emozione di provarne altri. Da parte sua amava cambiare casa ogni pochi anni. Non lo condivido, ma il suo pensiero è legittimo, non meno del mio e di quello del musicista. Come si dice a Reggio Emilia, tót i cuiòun a gh’an la só pasiòun, tutti gli esseri viventi, geni o coglioni che siano, hanno diritto a seguire le loro pulsioni.
Ennio aveva piena contezza dei pericoli della Città Eterna. Gino cita l’apologo Un marziano a Roma (1954), in cui quel “messo celeste è inglobato, stritolato, annullato dal sistema.” Da tanta troppo piena di tutto città, Ennio non riusciva a scappare: “per molti motivi, consapevole del nichilismo di Roma, tema centrale delle proprie opere.” – come un antropologo può decidere di rimanere per anni presso una tribù del Borneo, sapendo che sia pure in misura residuale ancora, i tagliatori di teste ancora esercitano la loro antica professione.
Una frase di Mario mi fa reagire: “Chi dice che fare dell’arte è fare dell’arte, dice una sciocchezza. L’artista non fa mai dell’arte. L’artista deve vivere, in qualche modo. È disperato, e deve vivere. Questa è la cosa fondamentale, per lui. Il resto, è estetismo.” Quel pensiero è antifrastico, senza essere ironico: è drammatico. Provo a tradurre, anzi, a ridurre: L’artista deve pur vivere, senza essere necessariamente disperato. Io, piccolo o medio che sia, so di essere un artista, ma sono fiducioso nel futuro, accontentandomi del presente, senza rimpiangere il passato. Sono un’eccezione? Non credo. Quando un artista è disperato? Se non riesce a esprimersi come sente che potrebbe. Qualche angustia vera, per fortuna fugace, la prova quando non sa venire a capo di un mezzo ragionamento o di un’intera frase, e a quel punto ci deve provare e ha tutta la vita per uscirne vivo, oppure selezionare il punto dolente e usare la barra spaziatrice della tastiera e tentare una diversa sorte. Questo fa parte degli incerti del mestiere.
Perché disperato, ti chiedo, Mario? Tu stai esercitando (anche colà, ove ti trovi ora) non il mestiere più bello del mondo, ma quello che più sa gestire il tempo libero che, secondo Karl Marx, dovrebbe coincidere, nella sua utopia, col lavoro, al fine di rendere l’operaio felice. Ti parla un giovanotto che a sedici anni, dopo aver letto Eros e civiltà di Herbert (Marcuse), a tavola (e non poteva scegliere momento peggiore) annunciò agli amati genitori di non avere l’intenzione di lavorare nemmeno un’ora nella propria vita. Insano desiderio esaudito 46 anni dopo. Condivido con te, Mario l’idea che scrivere è vivere, come leggere, mangiare, bere, andare di corpo, dormire.
“Flaiano smitizza le cose, dalla cocaina al mondo della cultura. Mette tutto in un grande minestrone in cui gli elementi si mescolano e perdono di identità, divenendo un vuoto ed esemplare gioco di società.” – acquisendo in tal modo il loro vero aspetto. Gettata la maschera adornata di fronzoli, appare il viso nudo. Questo è il destino di ogni uomo, tornare a essere privo di orpelli, come lo è un neonato, che non nasce dal ventre materno con la tutina, bensì ignudo come la prima coppia biblica.
Di Ennio ho letto solo il suo unico romanzo. Cerco ugualmente di interagire come posso, aggrappandomi alle tue espressioni verbali, Gino. Affermi: “La saggistica e la narrativa di Flaiano hanno un’inclinazione naturale al teatro, allo stile della conversazione, e molti suoi testi sono non a caso fondati sul dialogo…” Una banalità cogentemente ovvia: il dialogo è colmo di parole, con la possibilità che si relazionino con le consorelle che stanno vivendo nell’anima altrui, con cui si è stabilita una connessione, un entanglement, da cui non sarà più possibile liberarsi, almeno a livello inconscio. Ricordo numerose parole dette da una mia consanguinea oltre cinquant’anni fa, che lei stessa confessa di non rammentarsi. Io so che non sto inventando e di essere abbastanza fedele nella precisione del mio ricordo. E sono certo che anche lei, in qualche spicchio di memoria, ha mantenuto, pur inconscio quel dato. Io sento che rammentare non sia una scelta, bensì una necessità. Ma tutto finisce in un mare magnum e ogni tanto torna a galla, e a volte finisce per meravigliarci, prima di rituffarsi in quelle acque fatali. Jorge Luis (Borges) diceva che la memoria è fatta di oblio.
In La conversazione continuamente interrotta, “la serata è dominata dalla noia, che è una costante, forse la più significativa, dei testi di Flaiano; per vincere la noia si fa di tutto, ‘estreme astuzie’ oppure nulla, perché in verità non funziona alcun antidoto, neppure quello di ‘far saltare le valvole della luce’, per creare mistero e scompigliare le carte dei contatti regolari e clandestini, invitare a tentativi audaci e osceni.” – tutto ad libitum o ad nauseam, casistiche che nella fattispecie coincidono.
Il secondo capitolo è La forza del caso. Ecco una frase di Ennio, che ricalca il succitato pensiero di Mario: “… io non ho una vocazione narrativa. Scrivo, che è una cosa molto diversa.” È come dire che non era stato chiamato da qualcuno o da qualcosa, ma a un certo punto gli è capitato di scrivere. La quale è una frase assoluta, come lo sono di solito gli aforismi. Non credo che Paul (Valery) avesse la stessa idea della scrittura di Henry (Miller) e, ancor meno, del diciassettenne Arthur (Rimbaud). Esiste l’ispirazione, che è poi di fatto una vocazione interna. Ognuno la pensi come vuole, e scriva come gli viene. Una volta lessi un articolo in cui si consigliava l’aspirante scrittore di tenere in ordine la scrivania, in modo da non essere distratto da qualcosa che fosse fuori posto. Un’altra volta lessi di uno scrittore che, al momento della scrittura, amava circondarsi di libri, che poi non gli capitava mai non dico di sfogliarli, ma nemmeno di aprirli. L’importante è che fossero lì, pronti alla bisogna. Io devo essere solo, unico ente vigente nel cosmo, unica presenza (da me) tollerata, al momento. Il libro in quest’istante non appartiene a Gino, o a Ennio, ma a me. Il detto popolare in reggiano di qualche riga sopra va bene per quasi ogni evenienza.
“… per molti aspetti Tempo di uccidere era un romanzo fuori tempo e fuori luogo, come si sentì sempre, allora e dopo, il suo autore.”
Tutti gli artisti, ma c’è chi ne è più consapevole, creano un non tempo, non luogo, un luogo e un tempo hic et nunc, un multiverso che non esiste prima che lo si inventi. Antifrasi scientifica: nulla si crea e nulla si distrugge. E com’è nato, allora? Lo scrittore è un ente come tutti gli altri, nemmeno privilegiato. Però è questa a sensazione che deve dare, principalmente a se stesso, di aver creato quel che, prima di lui, non esisteva, e di averlo fatto partendo dal ni-ente, il non esistente.
Un personaggio atipico ma acuto come Ennio, che ne era consapevole, aveva capito che un romanzo doveva essere svincolato dal conosciuto, per essere capace di recare una novità esistenziale.
Jiddu (Krishnamurti) fu un pensatore sui generis, che predicava, lui che non accettava e altrui predicazioni, di liberasi del conosciuto, al fine di scorgere la realtà, come si fa con un serpente che potrebbe colpirti. Libertà dal conosciuto e La prima e ultima libertà erano i titoli di alcune sue opere. Ennio, per dirla con la sua icasticità, era krishnamurtiano senza saperlo. Mi sono sempre chiesto se il pensatore indiano abbia mai letto un libro di un qualche collega filosofo, o se abbia mai pensato di aver colleghi a cui collegarsi. La seconda che ho scritto, credo.
Ennio conosceva l’ambiente descritto (l’Africa), ma questo non cambia quanto detto in precedenza. Lui aveva bisogno di uscire dal momento attuale: il passato, rivisitato per la prima volta (finzione), era l’ideale.
“I soldati italiani del romanzo che combattono in Abissinia sono antieroi svogliati e annoiati, sfruttatori e affaristi senza scrupoli, impiegati in una guerra violenta, tragica, assurda, dalla quale tutti vogliono fuggire.” – anch’io, nel leggere, avevo il medesimo desiderio di tornare al più presto a casa.
“… Tempo di uccidere è un romanzo del tutto anticelebrativo.” – che esalta non l’eroismo, bensì la noia leopardiana, con la differenza che essa non era un valore a cui aggrapparsi come segno di discernimento, bensì una malattia da cui non si riesce a liberarsi. Alla fine il soldato teme di aver contratto la lebbra, che altro non è che una noia in più, con cui dovrà convivere per tutta la vita, richiedendo tale malattia un’incubazione probabile di qualche decennio.
“Il paesaggio africano è popolato di animali, di ‘bestie’ e ‘fiere’ (ivi, pp. 179 e 195), anch’esse reali e a un tempo fantastiche, presenze che si integrano col territorio, ne assumono i tratti vegetali e umani, così come viceversa gli umani hanno peculiarità animali e vegetali.”
Cosa avrei fatto io se avessi sparato per errore a una bellissima donna col turbante bianco con cui avessi da poco consumato un atto sessuale? Non lo so, ma di certo non mi sarei denunciato. Probabilmente avrei cercato di prestarle soccorso e non avrei pensato di darle il colpo di grazia. Ma non ne sono certo. E se anch’io l’avessi liquidata con un colpo ben mirato e avessi detto a me stesso le sue stesse parole: “Ora non dovevo perdere la calma: in fondo, non l’avevo uccisa, le avevo impedito di soffrire più a lungo…” – le avrei soltanto procurato una salvifica eutanasia… Avrei sentito anch’io che era un urgente “tempo d’andarsene…”, là dove avrei pensato a lei, prima d’immergere la mia anima in un’ennesima fonte battesimale. Lei invece sarebbe stata al sicuro, non si però dove, al riparo da ogni disgrazia. Lei!
“Ogni azione ne porta con sé un’altra in una catena di eventi che sembrano condurlo al precipizio; invece ogni volta la caduta finale non c’è, spunta sempre un appiglio che lo salva, che ne differisce l’incombente e tragico epilogo.” – non gli dona la libertà dalla paura, ma quello che sta vivendo è la meno peggiore delle situazioni, ormai.
“L’io narrante del romanzo è il primo ‘personaggio indeciso o semplicemente mediocre’…” – è il caso di dire dotato di aurea mediocritas, di oro matto, ma tant’è, altro metallo non c’è.
“Tutto sembra affidato a un colpo di ‘dadi’, il dado della sorte, che ne libro è rappresentato dal dado ‘della barra di trasmissione del volante’ (TDU, p. 164) del camion de maggiore al quale il protagonista ruba il denaro per imbarcarsi…” Gino mi fa ricordare particolari che la mia memoria aveva purtroppo sepolto.
Giuseppe (Prezzolini) definì Ennio “uno degli scrittori più spiritosi d’Italia” e il nostro eroe “non celò il suo disappunto”. Giuseppe disse la verità, Ennio. Mostrai poco fa a mio figlio la foto che ti ritrae in prima di copertina e gli chiesi chi gli ricordasse. Lui senza pensarci disse: Ah, sì, coso, Groucho. Non so se intendesse il prodigioso comico ebreo-yankee o il demenziale amico di Dylan Dog: poco importa, essendo identici. Ennio, tu eri un comico, c’è poco da discutere. Come lo era Plauto e Moliere.
Da un punto di vista narrativo, “il percorso di Flaiano è coerente e conseguente, teso all’obiettivo dell’espressione necessaria, efficace e concisa. I successivi romanzi saranno via via più densi del primo, che costituisce il punto di partenza di una ricerca narrativa e lineare.”
Quella di Ennio, secondo Geno (Pampaloni), “è la favola epigrammatica; la quale può dilatarsi in racconto, o commedia, ma conserva dell’epigramma la malizia logica, la lineare struttura orientata a una conclusione.”
Gino dice una cosa ovvia, peccato che non mi sia mai venuta in mente: “In Italia nel secondo Novecento questo tipo di narrativa ha raggiunto vertici estetici e grande successo con i romanzi e le narrazioni di Italo Calvino, che hanno in Flaiano un precursore che a torto non viene mai nominato.”
Il terzo capitolo è Marziani e terrestri. “L’arrivo del marziano Kunt, sceso con la propria aeronave nel prato del galoppatoio a Roma il 12 ottobre 1954, è un evento ‘incredibile’ che mette in fibrillazione tutta la città.”
Egli diventa subito l’immagine della “… speranza ‘che tutto cambierà’ (DN, p. 475). Questa è la ragione che nei primi giorni fa di Kunt un nuovo riconosciuto e atteso messia, che le folle guardano con ammirata meraviglia e i politici e le istituzioni con stupita e riverente soggezione…” – così racconta l’io narrante. Anche Fellini e Soldati rimangono abbagliati dall’emozione, mentre Pannuzio, al solito, dice: “Non ci credo nemmeno se lo vedo” – essendo quell’essere assurdo e non essendo lui Tertulliano.
“… Non è la fine del mondo, ma il principio del mondo…”
Dopo un po’, ma presto anche secondo i canoni della moda romana, lo stesso diventa “da semidio a macchietta, deriso, umanizzato, ferito nei comportamenti e nei sentimenti, infine abbandonato al proprio solitario destino di straniero.” – sic transit gloria alieni.
Scrive Luciano Codignola: “Ognuno ha il suo padreterno che sa immaginarsi, ogni uomo crea Dio a sua immagine e somiglianza. Di questi tempi Dio a Roma non può che essere un Povero Diavolo.”
Ennio, spinto da Vittorio (Gassman), cerca di trasformare il racconto in una farsa teatrale, ma ci riesce a metà. Ci riesce, quindi, ma che gestisce il mondo dello spettacolo desidera le cose intere. Ennio se la cava, pur spiacendosene, con la solita battuta: “Veramente ho dato tutto quello che potevo dare. Non mi resta che sperare nell’insuccesso.” – e l’avrà. Vittorio propone la pièce che riscuoterà un ben scarso successo e che ben presto cesserà di essere rappresentata.
In quegli anni, per Ennio “anche il successo della Dolce Vita costituì un’altra ragione di misconoscimento e di conseguente amarezza e delusione”, poiché pochi riconobbero anche a lui il merito della scrittura del film, ascrivendolo soprattutto al regista Federico (Fellini). In Italia, l’autore del film che viene ricordato è il regista, mentre lo sceneggiatore è spesso giudicato un comprimario, o forse poco più di un collaboratore di chi dirige il film e tutta la troupe.
A me urge tornare al marziano e commentare una sua battuta: “Supplemento alle istruzioni per l’uso dei migliori dei mondi possibili: Se ammetterai che la m… – qui, una parola che non capisco – in fondo non è cattiva, dovrai mangiarla due volte a giorno.”
Si sta parlando purtroppo della morte, perché se fosse quell’altra cosa, sarebbe assai meno terribile. Nessuno è mai morto a mangiarla, non una tantum, ma a volte per tutta la vita, a colazione, a pranzo e a cena. Prima ne aveva detta un’altra, ugualmente sapida: “Il tiranno più amato è quello che premia e punisce senza ragione.” Con questo ragionamento, convengo io e farebbe lo stesso Pier Paolo (Pasolini), che denunciava l’anarchia del Potere, che qualsiasi atto compia è sempre quello giusto. Ma dev’essere insensato e rigettare ogni forma di razionalità perché, se inizia a dialogare con le masse, queste arrogano sempre nuovi assurdi diritti, diventando quindi arroganti.
Obietto, caro Marziano, a quanto afferma la tua Anna, quando dice: “La parola serve a nascondere il pensiero, il pensiero a nascondere la verità. La verità fulmina chi osa guardarla in faccia.” La parola compone il pensiero e quest’ultimo determina la parola, che però va spesso taciuta, al di là della sua veridicità, per convenienza o per educazione. Né l’una, né l’altra hanno a che fare con la Verità, che è come quello che (non) accade al di sotto dello spazio di Max (Planck), dove non c’è teoria scientifica che tenga. Le teorie, religiose o scientifiche che siano, non sono Verità, ma balbettii privi di costrutto sicuro, anche se crediamo, a seconda del mestiere che esercitiamo, nei postulati, negli assiomi o nei dogmi. Non si tratta di fesseria, bensì d’inabilità totale a produrre certezza, cioè Verità. Che come avrai notato l’unica parola a cui ho messo la maiuscola. Lo stesso faccio con Dio. Ma questo non basta per far esistere sia l’Una che l’Altro.
“… il Marziano porta la discontinuità, spezza il corso delle ‘magnifiche sorti e progressive’” causando “uno choc inaccettabile per la società del benessere economico e dello spettacolo gonfia della propria presunzione.” Ed è quindi un incidente di percorso, come, anni dopo, la rivoluzione ungherese del ‘56, gli ideali del ‘68, la primavera di Praga, e via discorrendo.
Il sogno è bello quando dura poco e permette giornalmente almeno 16 ore di veglia, in cui si possa tornare alle proprie vecchie abitudini. Al massimo, chi può, ha il diritto di cambiare aria e continuare a sognare altrove, senza disturbare chi sta lavorando per tutti noi.
“Il viaggio è uno dei temi preferiti di Flaiano ed è quasi sempre accompagnato da un quaderno di appunti tenuto dal protagonista.”
Mentre egli scrive le sue note giornaliere, egli esce dai luoghi che sta visitando, per ri-entrarci subito dopo e ri-uscirne di lì appresso, vivendo nella discontinuità, che è la condizione probabilmente da lui preferita. Gli interessa l’elemento umano, non quello paesaggistico, troppo immoto, forse, e che conduce alla meditazione e alla conseguente angoscia.
Lui “è, in ogni situazione, un viaggiatore metafisico, in serrato dialogo con se stesso nell’intimo viaggio ‘autour de sa chambre’…” – che sono “vie di un proprio tragitto interiore, viaggi ‘dai quali però raramente si torna’…” – un’immagine dell’ultimo che si compirà quando sarà il momento.
Il quarto capitolo è Costatazioni disarmate. “… il libro di aforismi è cosa diversa dal diario: questa diversità consiste essenzialmente nel sovvertimento dell’ordine cronologico che costituisce invece la peculiarità del diario. Il diario è diacronico e racconta senza successioni temporali, al limite con qualche sospensione, la storia intima o pubblica del protagonista.” – è sempre una specie di confessione, di tentativo di giustificazione delle proprie eventuali colpe o un dare risalto ai propri meriti: il diario è legato al dies in cui lo si scrive (come sa scrivere con ben altre parole Gino).
“Quello che distingue invece il volume di aforismi è l’assoluta libertà di movimento dei pezzi, che possono essere spostati da un punto all’altro del testo senza alcuna necessità di rispettarne la cronologia. Il libro di aforismi non presenta date o, dove le presenta, come accade in alcuni giornali e lunari, esse hanno un valore fittizio: non si riferiscono cioè a un dato giorno di un dato anno, ma a un giorno e un anno esemplari e universali, pertanto fuori dal tempo, acronici.” Mi si perdoni la lunga citazione, ma Gino è un’autorità in materia, avendo curato l’edizione dei due ciclopici tomi Scrittori italiani di aforismi (Mondadori).
Pagina 96: “Flaiano come Leopardi cerca testardamente la verità, eppure sa che è imprendibile, relativa, anche se alcune certezze negative sembrano avvicinarla.” Esistono certezze sia pure negative? L’unica, dicono, sia la morte, che nega tutto e lascia gli altri sospesi nella positività più angosciosa. Chi muore giace, chissà quanto sereno, e chi vive non si dà compiutamente pace, qualora si ponga l’interrogativo finale: dove andremo? Chi disse che la verità è fuggevole, s’inventò quel verbo: è; e quell’aggettivo: fuggevole. Chi ha visto fuggire qualcosa, secondo Albert (Einstein), non avrà mai la certezza di non essere lui colui che fugge. Il mio orologio è più lento o più veloce rispetto al tuo: non lo saprò mai, né io, né l’altro (come è spiegato nel paradosso degli orologi).
Friedrich (Nietzsche) scrisse: “Quanto manca alla vetta? – tu sali e non pensarci.” Ennio, ascoltami tu puoi ancora farlo, non raggiungere mai la vetta, perché poi sarai costretto a ritirarti ignominiosamente a valle, oppure rimanere come un fesso assiso sulla cima, finché, fatalmente, al momento giusto, ruzzolerai. Ogni tanto cerca di attardarti presso una rientranza comoda, accenditi una sigaretta, magari fingi di fumare, come fanno i bambini quando fa freddo.
“Scrivendo di volere ‘agire in armonia coi miei errori preferiti’, Flaiano chiede il diritto di potere sbagliare; di affrancarsi dalla prigionia delle convenzioni sociali; e, ‘soprattutto’, di distinguere la propria ‘dalle facce soddisfatte degli altri carcerati’…” Preferisco il termine errare, che dà l’idea di un sempiterno movimento alla ricerca di qualcosa (che magari non esiste). Sbagliare mi fa pensare a una luce troppo intensa, un abbaglio, appunto. Molto meglio l’oscurità purché non sia eterna.
Aforisma di Giuseppe: “Non soltanto l’errore fa parte della verità che lo ha negato; ma conserva un riscontro della verità, come la matrice rassomiglia alla moneta che stampa. La verità è una creazione dell’errore. Talvolta gli rassomiglia come una figlia al padre.” Se intende parlare di verità terra terra, quotidiane, scientifiche, per nulla esoteriche o mistiche. In questo non posso che concordare con lui. Se si sposta la mira Altrove, dove non esiste la possibilità della falsificazione, dove esiste un Nume ineffabile, il discorso cambia. La fisica non parla più di certezza o di esattezza, bensì di approssimazione e di (relativa) precisione. La qual cosa mi dà il destro per riportare la famosa boutade di Ennio: “Poco m’importa la menzogna/ ma detesto l’inesattezza”, che poi mette in epigrafe a Le ombre bianche. Anche qui si parla del contrario della Verità, della menzogna, con l’iniziale minuscola, quella degli umani che stentano a rinunciare all’assolutezza e se la inventano, non possedendo altro, poveretti. L’inesattezza è sinonimo di goffaggine operativa e si può e si deve censurare, come esempio di male che, pur non essendo assoluto, è da detestare senza se e senza ma.
“La perentorietà delle affermazioni e delle negazioni contrasta con i contenuti, che sono all’insegna della relatività del giudizio. Questa duplicità di forma e di contenuto è una peculiarità dell’aforisma del Novecento.”
Uno dei termini che Gino usava di più, ancor più di ironia e satira, è antifrasi. Se io dico che Adolf (Hitler) in fondo era solo un imbianchino che ha cercato di uscire dal suo mondo fatto di pennelli e pennellesse, e che quello che ha combinato non è poi così grave, esprimo un’antifrasi. Se aggiungo che Adolf era anche un grande pittore dico una falsità. Se invece affermo che la sua brama di potere ha causato una guerra che è costata la vita di milioni di persone, questa è una mera ovvietà. Una volta si chiamava autenticità, nonché saggezza, concetti ormai fuori moda. Nel Novecento si è iniziato a dubitare della certezza, anzi, a temerla fortemente, come un pericolo di sincerità, come se non si volesse più confidare in un dio insincero. L’unico modo per evitare questa drammaticità è dire una cosa per l’altra: io dico a perché tu intenda b.
“La misura è un dato distintivo di Flaiano: nelle parole, negli sguardi, nei gesti, nei suoni. Quella misura esatta, discreta e ironica, che egli non trova nella società petulante, affaristica e servile del proprio tempo.” Questo è un successivo, direi conseguente, discorso. Non è augurabile ed è del resto impossibile essere esatti e certi, per cui dobbiamo inventarci una nuova esattezza e una nuova certezza. Da dove? Dal nulla. Partendo però dalla nostra intelligenza e dal nostro sentire. L’alternativa è il silenzio. In Ennio, la precisione e il senso dello spazio, nonché del tempo, è segno di un suo desiderio: non eccedere, non andare dove ti porta un sentiero che rischia di condurti alla vetta, da cui puoi solo precipitare. Se il sentiero che ci si propone è, pur splendido, circoscritto, in esso io posso sedermi e mirare il mondo. Se invece cammino senza pormi limiti, corro il rischio di andare dove non so se saprò più orientarmi. Devo stare attento a scegliere la scorciatoia giusta, evitando di far la fine del protagonista di Tempo di uccidere, che finì per perdersi e che poi si ritrovò solo per un paio di colpi di fortuna, che non sempre occorrono.
“In Diario degli errori sono presenti tutti i gradi motivi della letteratura di Flaiano. In primo luogo proprio quello dell’errore, che è senza dubbio uno dei suoi pensieri dominanti”, evento che egli torva scandagliando la letteratura, anche quella dei grandi autori, come Publio Virgilio (Marone) e Francesco (Petrarca).
“Per un verso Flaiano tesse l’elogio dei vagabondi, degli inutili, dei perditempo, degli errones, ricalcando le orme dissacranti del Momo di Leon Battista Alberti…” – e qui ipotizzo l’impossibile, quindi flaianamente il quasi certo: Michael (Ende) conosceva quell’antica vicenda quando scrisse il suo Momo. Un gioro chiederò ai due autori, soprattutto al tedesco, che ne è della mia folle intuizione.
“… dall’altro proprio del viaggio reale, e quindi dell’errare, egli denuncia la completa inutilità, optando per il viaggio immobile.” – che è quello che caratterizza ogni scrittore di eventi avvenuti in spazi così distanti da parere immediati. Del resto, Emilio (Salgari) non si recò mai in Malesia, né Jules (Verne) sulla Luna o al centro della Terra.
“Diario degli errori è la meta costante delle peregrinazioni e delle fantasie di Flaiano, il luogo da cui tutto parte e in cui tutto ritorna, composto di valori e umori contrastanti e complementari, notturni e solari.”
A volte mi chiedo perché passo tante ore del giorno a leggere e a scrivere. Faccio anche altre cose e ho una mia vita sociale, eppure, sento che forse esagero con le mie attività letterarie. Ex-agero perché voglio uscire dal mio campo e zapparne altri: finché c’è pianura c’è speranza, e in Val Padana essa non mancherà mai. Se è il caso ex-agererò anche altrove, magari in Ucraina, dove pare abbondi la terra da coltivare. Lo stesso valeva per te, Ennio. Scusa se ti dico del tu, ma era ora. Se tu, Gino, permetti.
“Egli sottolinea più di una volta l’importanza del lavoro…” – che è il momento in cui si pone l’attenzione a un determinato manufatto che cresce grazie a noi, prendendo sempre più vita, e che non l’avrebbe senza di noi. Ci sentiamo creatori e per una volta non pensiamo… al resto.
“Flaiano è un autore che lavora sodo, che si esercita con alacrità e pazienza nella lettura e nella composizione. Ne sono prova la quantità dei testi a stampa e di quelli manoscritti, frutti di operosi laboratori di scrittura.” Il lavoro nobilita e qualcuno assicurava le sue vittime che a volte rende liberi. Mentre sto scrivendo non esiste null’altro in me che la tastiera, il video e il libro che Gino ha scritto su Ennio.
“Flaiano nega valore alle illusioni di ogni sorta e rifiuta di scendere a compromessi: non accetta di fare di una mediocre falsità un criterio di sopravvivenza. Alla finzione delle illusioni egli replica con la solidità di poche e sconfortanti verità.” – magari antifrastiche.
Scrive: “Per consolarci frughiamo tra i nostri escrementi, fisici o letterari. La merda è una certezza. Bene o male, siamo noi a farla.” Stavo pensando al mio amico Silverio (Scognamiglio), che mi dice che per lui scrivere è fare una doccia. Non ha tanta voglia di farlo, ma quando comincia a far scorrere l’acqua e si mette sotto a quel fluttuo, non ne uscirebbe più. Già l’ho scritto. Per me scrivere è come evacuare, oppure andare di corpo: che nasca una creatura o uno stronzo, sarà il destino (cioè io insieme al cosmo intero) a decidere. Quando la signora Angelina (Laudano), insegnante di lettere a Praiano, vide mio figlio neonato disse una frase meravigliosa: Da nu poco ‘e schifezza nasce ‘a criatura.
“Anche quando tutta la realtà si riduce a escrementi, Flaiano non smette di credere nel paradosso, che è sicuramente un’altra forma di illusione.” È un andare oltre la doxa, l’opinione, è l’asta che ci permette di compiere il salto dall’altra parte. Se non ci fosse stato Zenone con la sua lesta tartaruga e il suo indolente Achille, forse Albert non avrebbe formulata la sua teoria della relatività, almeno quella ristretta. Poi lui è andato oltre, sempre di più.
“L’ultimo ‘errore’ come sinonimo di speranza sembra consistere per Flaiano nel lavoro, cioè nell’arte, nei ‘fondali di carta’ teatrali, ‘simboli delle cose perdute di vista’.” Creare è recuperare ed eternare. Finalmente è arrivato il momento di scomodare John (Keats): a thing of beauty is a joy for ever.
Gino, io non ho parole per dirti che noi due non ci assomigliamo affatto. Sei così preciso che, volgarmente (e tu, Ennio, senz’altro apprezzerai), ti dico che a t ē precîs cme un dî in dâl c…!
Me ne dai, come se ce ne fosse bisogno, quando dici che fra le opere di Ennio trovi i Carnet di Joseph (Joubert), di cui “possedeva anche l’edizione in due volumi”, ma poi aggiungi: “(l’esemplare è tuttavia è quasi intonso)” – e quel quasi mi procura un brivido alla prostata.
“La laconicità di Flaiano è spesso la sintesi della visione; la parola come fotografia…”: un’istantanea, hic et nunc.
“Flaiano, come Saba, amava le scorciatoie”, con i pericoli esemplificati già in Tempo di uccidere, specie esse sono improvvise e fino a quel momento sconosciute. Ma sono una tentazione a cui è a volte difficile rinunciare.
“Diario degli errori è un’opera centripeta, che ritorna con insistenza e per necessità sugli stessi punti: la morte, il fallimento, la noia, la vecchiaia, Roma, la volgarità.”
Il quinto capitolo descrive con la solita ruozziana (e guicciardiniana) minuzia La più darwiniana delle arti. Titolo antifrastico? Prima intendo definire il mio rapporto col cinema. Da giovane, e aspirante alla solitudine, poi vilmente rinnegata, andavo al cinema da per me, che è un’espressione vernacolare che dà l’idea, che intende che in quel momento nessuno coabita con te. In questa solipsistica situazione ho visto film di Luis (Buñuel), Marco (Ferreri), Michelangelo (Antonioni), Federico, e diversi porno. Ora non mi va di vedere opere cinematografiche, trasmissioni televisive e partite di calcio, nonché di andare in vacanza senza una persona che amo, la cui presenza m’infastidisce quando devo scrivere e che mal sopporto quando sto leggendo.
Io non sono vittima della schizofrenia: è lei che ormai mi appartiene. Da quando ho scoperto che l’Altro aveva il suo perché (altra espressione usata dalle mie bande), ho limitato notevolmente il mio interesse per la decima (o undicesima?) musa. Recentemente, insieme a un mio consanguineo, ho visto Sicario di Denis (Villeneuve) e l’ho molto apprezzato. Sono anni, però, che un film non mi dà l’ebbrezza che mi dona un libro. L’ultimo che c’è riuscito è stato Cane di Paglia di Sam (Peckinpah): quell’astruso e ingenuo David ero io. Lo vidi in televisione, non da solo. È un decennio che non vado al cinema, da quando i miei figli cessarono di necessitare di un accompagnatore nelle loro uscite sociali. Tutto questo per dire che, dovendo indicare il vero autore di un film non concorderei con l’opinione di Pier Paolo, che scriveva: “Fellini è senza dubbio ‘autore’, non ‘regista’. Perciò il film è unicamente suo: non vi esistono né attori né tecnici: niente è casuale. Nella Dolce vita, infatti, non è riconoscibile lo stile di nessuno (il bravissimo Mastroianni, la stupenda Anita, sono un altro Mastro, un’altra Anita), non lo stile di un operatore, non lo stile di un montatore, non lo stile di Flaiano e di Pinelli, gli sceneggiatori.” PPP, italianizzando ancora un detto arşân, era brutto ma schietto, non sempre lucido nei suoi giudici estetici e critici, per cui definì Cesare (Pavese) scrittore mediocre; e forse in quell’anno (1960) stava iniziando a meditare di girare il suo primo film, Accattone, che uscì l’anno dopo, o forse l’aveva già iniziato. Affermare che un’assurdità non è assurda non la rende meno tale. Sono opinioni, senz’altro, ma parliamone a lungo, allora.
Giulio (Rapetti) era un paroliere, no!, lui giurava di essere uno scrittore di testi! Giulio senza Lucio (Battisti) restò grande, Lucio senza Giulio restò monco. Lucio fu grandissimo, anche più di Giulio, oppure meno, poco importa.
Dire sceneggiatore porta a pensare che uno sia addetto alle scene, dialoghista o poco più. La prima rivoluzione necessaria è definire il cosiddetto sceneggiatore semplicemente scrittore. Poi accadrà la seconda e implacabile giustizia. Nell’atto del girare, il director deciderà cosa mutare della scrittura. E in questo c’è poco da dire o da fare. Qualcuno deve comandare, reggere, decidere. Quando svolsi le mansioni di garzone di muratore, sapevo che lui era il mio capo. Ma anche lui doveva seguire le indicazioni del direttore dei lavori, architetto, geometra o ingegnere che fosse.
Resta però il fatto che uno scrittore di film ci metta il suo horcrux, un pezzetto della sua anima, e poi si accorge che essa è stata ulteriormente divisa, e una porzione, anche minuscola, oppure enorme, è stata svenduta per acquistarne un’altra. Il problema rimarrà aperto per molto tempo.
In Le ambizioni sbagliate, Ennio, tu dicesti che “la celluloide non sopporta il ‘vero’ mischiato alla finzione” – per cui “lo scrittore, senza lunghe e minute descrizioni (a patto che sappia farlo), può dare l’atmosfera di un ambiente; il cineasta, per far ciò deve, oltre tutto, superare il concetto oggettivo dell’immagine e portarla a una forma conclusa, essenziale…” – con tutti i rischi connessi a tale impresa.
“Flaiano riflette sul rapporto tra verità ‘oggettiva’ e verità ‘riflessa’. Lo farà sempre, preferendo artisticamente quella ‘riflessa’ a quella ‘oggettiva’ per il maggior contenuto di verità.” – quella parvenza di verità che appare nel momento in cui l’autore dice basta! e cessa per sempre di perfezionare l’oggetto che sta creando. È un atto che Michelangelo (Buonarroti) conosceva quando lasciò i suoi Prigioni, imprigionati nel marmo, ma che non ebbe con la sua Pietà Rondanini, martoriata fino a pochi attimi, od ore, o giorni, o settimane dalla morte. Leonardo (da Vinci) fece lo stesso con la Gioconda e l’avrebbe fatto con tutte le sue opere. Consiglio di rileggere le pagine illuminanti con cui Giulio Carlo (Argan), nella sua Storia dell’arte italiana, distinse fra i due non finiti di questi umanissimi e inumani artisti. A differenza di quei sommi, e dell’amico Silverio, ogni volta che scrivo (e anche leggo) non vedo l’ora di avere terminato, per poter finalmente occuparmi d’altro. Il detto è ora: tutti i pazzi hanno i loro arcani e demenziali aneliti.
Tornando in tema, poiché ogni tanto sento il bisogno di prendere aria e uscire, Ennio prediligeva “l’allegoria, la favola, l’apologo al racconto verista e neorealista. Flaiano non fu contro il neorealismo, che egli non concepì come movimento organico; fu contro l’arte asservita alla pedagogia e alla propaganda, che falsava in nome dei propri pregiudizi il racconto della realtà.”
Nel citato “saggio cinematografico”, egli è “preciso nei dettagli e nei giudizi relativi alle opere prese in esame, egli spazia dal particolare al generale, facendo di ogni testo un percorso di saggezza, con domande e riflessioni che vanno oltre la recensione specifica.”
A te, caro Ennio, e a te, soprattutto, PPP, dico: se una vostra idea cozza con il pensiero generale, condivisa da sapienti e da ignoranti, ponetevi sempre il dubbio: non è che possa essere io a sbagliare? Più il vostro giudizio vi pare inattaccabile, provate ad attaccarlo voi stessi, tradendolo e minando alla sua certezza, e forse scoprirete che aveva ragione PPP a definire un raffinato e complesso testo Le centoventi giornate di Sodoma e non un disgustoso obbrobrio, che ancora così lo giudico, nonostante la lettura di Sade prossimo mio di Pierre (Klossowski).
“Flaviano fu intrinsecamente a favore del teatro, degli scenari ‘fittizi’ e di ‘ cartapesta’, che consentivano l’ironia del distacco e del giudizio e allontanavano quel coinvolgimento emotivo che egli più volte definì e stigmatizzò come ‘pornografia sentimentale’. Alla verità emotiva egli preferì quella dell’intelligenza…” – il che mi fece ricordare che, a chi gli rinfacciava che in La nave va lo spettatore non poteva non accorgersi che era tutta una finta, un modellino neanche troppo ben confezionato, Federico ridacchiava.
A te, Ennio, interessava, forse, ma poi ne parleremo tra di noi, più che la verità, che è un sogno idealistico che è giusto mantenere in vita finché si ha, appunto, vita, quanto la funzione che l’accompagna: quella religiosa intendo. Al di là della diatriba fra chi con-fida nella transustanzazione e chi crede nella consustanzazione, quel che conta è la rappresentazione del miracolo della presenza etica di Cristo. E che questa scena funzioni nei nostri cuori, anche in quelli perversi e atei come il mio.
“Flaiano non temeva di andare fuori tema…” – ma come ti permetti, lazzarone! E potrei metterci in questo caso l’emoticon con la faccina che ammicca…
“Come accade per le recensioni teatrali, egli unisce la capacità di parlare in modo appropriato e preciso dei film recensiti alla facoltà di introdurre considerazioni artistiche e morali penetranti, con ironia e fermezza, senza timori reverenziali.” … se non per i propri eventuali errori, che ci permettono di andare oltre noi stessi, una volta individuati…
“… egli non accetta che il ‘vero’ assuma vesti pregiudizialmente politiche, che minano alla verità stessa. A Flaiano sta a cuore la rappresentazione della vita ‘con le sue contraddizioni e le sue ingratitudini’.”
Il fenomeno che accade, e che va colto mentre appare (foss’anche solo un’illusione ottica).
“… Umberto Barbaro va al cinema per istruirsi, io preferisco andarci per dimenticare quel poco che so…” – azzardo una traduzione: per rivedere, eventualmente rinnovare e integrare quel poco che so.
Ennio, tu ami Roberto (Rossellini) perché è essenziale, mai ridondante, vero: anche se s’inventa, pensa a rendere la realtà, senza essere realista, sena porsi quel pensiero cioè. Vede e fa vedere: secondo me anche il buon vecchio Jiddu lo avrebbe apprezzato. Tu non vuoi “vendere sogni”, vuoi trasformarli in una pur caduca realtà. Giudichi Riso amaro, così ricco di elementi, “drammatico-sindacale”, “fondato ‘sul trionfo dei più sani sentimenti’”, “una ‘favola falsa’ il cui fine è la redenzione di falsi personaggi.” Ecco qualcosa che mi riguarda, strano, vero? Io non mi sono mai considerato un mediocre, ma un portatore (più o meno) insano di mediocrità.
“Visti nel loro complesso i film firmati d Fellini, Flaiano, Pinelli e Rondi mettono in scena la figura forse principale della letteratura di Flaiano, quella del ‘mediocre’. Chiaramente non è una figura che appartiene in esclusiva a Flaiano, ma è pur vero che ad essa lo scrittore ha dedicato un’attenzione costante, da Tempo di uccidere e Il gioco e il massacro…” Il mediocre può risalire la china, l’ottimo e ineffabile è candidato alla sparizione, o in Cielo o nel Nulla. Solo chi erra, sta andando per i fatti suoi. Chi è perfetto vede la terra dalla parte delle radici (ennesima traduzione di un detto da tésta quêdra arşâna).
Frase sublime e che cascare i cosiddetti: “Siamo rimasti così in pochi a essere scontenti di se stessi.” (nella versione filmata il se diventa un noi). Perché?
Lo scenario di lusso che in La dolce vita “la ricca e annoiata Maddalena” esibisce a Marcello, gli fa “sembrare di colpo mediocre la sua vita quotidiana: il lavoro, gli amori le sue speranze, le sue ambizioni, tutto.” A me la vita piace perché è in sempiterna evoluzione. E perché povera Bruttezza se non ci fosse Piacevolezza (piasâia nel mio vernacolo). Accontentarsi fa bene alla salute, perché invidiare le cose altrui? Esse decadranno nell’entropia finale, stanne sicuro, Ennio. Forse: potrebbero anche tornare nella singolarità che non prevede alterità.
La più darwiniana delle arti: in Italia chi domina è il regista; in America è il produttore, poi l’autore del film script, e infine il director; ma forse le cose stanno cambiando anche lì.
Scusami, Gino, se mi sono un po’ allungato nei commenti, ma non ho potuto non reagire alle tue azioni, che sono occorse in un capitolo che consta di appena 53 pagine. Un’aggiunta è d’obbligo: “I rapporti di Flaiano con la famiglia furono difficili e sofferti.” – sei sempre stato un signore, Gino. Furono assurdamente di m…, che non è stavolta l’iniziale di morte.
“Egli fu l’ultimo dei nove figli del padre Catteo, che ne ebbe prima sei con la moglie Francesca, poi due fuori dal matrimonio con la donna di servizio e infine, di nuovo con la moglie, Ennio.”
La tua sorte, Ennio, mi fa ricordare quella di Lucas T., protagonista della Trilogia della città di K. di Agota (Kristóf).
Il sesto capitolo, non a caso più corto, è Fondali di carta, dedicato al tuo teatro. Si pensi a come tu, Ennio, hai definito la “Guerra spiegata ai poveri, una farsa forse troppo lunga perché ‘non c’era tempo per farla più breve’. A te, Gino, il tempo pare che non manchi mai.
“In Flaiano a passione per il teatro fu più forte di quella per il cinema. Il teatro come luogo, spettacolo, genere letterario in cui viene messa in scena una falsità più autentica della realtà.” Ogni tanto penso alla leggenda, probabilmente vera, di un Akira (Kurosawa), maestro indiscusso del cinema, che pretendeva dai suoi scenografi la precisione assoluta, sia in quel che lo spettatore poteva vedere che in quel gli era impedito, per esempio l’interno dei cassetti che, pur restando chiusi, dovevano essere colmi di quegli oggetti che realisticamente dovevano contenere. Il teatro non ha di queste necessità: “Sulla scena soltanto il cotone ha la virtù di sembrare seta.” Se però un attore che recita sul palcoscenico si punge per caso, il suo sangue non è pomodoro, come in un film.
“Non meno interessanti sono gli apologhi che Flaiano inserisce di frequente in apertura di testo e per i quali come per la satira, egli sostiene che è necessaria un’opportuna dose di ‘cattiveria’ e di ‘necessaria ferocia’.” – e qui Antonin (Artaud) annuirebbe senz’altro. Secondo la sua visione, l’arte non è l’imitazione della vita, ma la vita è l’imitazione di un principio trascendente col quale l’arte ci rimette in comunicazione.
“Nella farsa, che sintetizza l’essenza stessa del mondo (‘E pensare che questa farsa durerà ancora miliardi d’anni dicono’), Flaiano riconosce assai presto il proprio genere teatrale preferito, come critico e come autore.” Perché? Perché in tal modo mi permette d’inserire l’ennesimo detto arşân, che riporto in italiano: piangere fa tre e ridere fa tre. Quindi, è meglio ridere. Quindi, alla fine, ridere è meglio che piangere, in quanto fa tre più tutto il resto.
Come Charlie (Chaplin), “Peppino De Filippo ha stabilito una verità: che il sentimento del comico nel mondo attuale nasce dalla miseria, dall’accettazione della miseria come stato normale e condizione biologica. È la comicità dell’essere non integrabile.” Perché Buster (Keaton) è così serio: egli capisce di essere diverso in un mondo uguale per tutti. Perché Charlie e Totò spesso sorridono: essi capiscono che l’essere diverso in un mondo uguale è diversamente uguale per tutti.
“… il conflitto verbale, la gara di intelligenza messa in moto dal funzionario di polizia contro il pallido poeta”: ciò che ci contraddistingue l’uno dall’altro e che causano le reazioni, le passioni e i conflitti. Le parole rappresentano il canale principale attraverso cui si fondano le simpatie e gli odi, le empatie e le follie passionali. Sono esse le prime cause delle differenze fra gli esseri umani.
“Flaiano considera ogni spettacolo teatrale ‘come una persona viva’ e perciò ‘è tanto più importante quanto più impegna lo spettatore nella sua autobiografia, la chiarisce.”
Non so che pensasse Ennio del Living Theatre. Ricordo una trasmissione televisiva in cui Carmelo (Bene), insieme al più vivo giornalista della storia della RAI, Ruggero (Orlando), discutevano su come il pubblico giocava con gli attori che, per strada, li provocano. Accettavano il gioco, come un’attività comune, di tipo tribale, ormai sconosciuta nel chiuso dei nostri teatri. Perciò che tu, Ennio, citi “le meravigliose pagine che, in Tristi Tropici, Claude (Lévi-Strauss) dedica alle serate teatrali di quella misera tribù dell’Amazzonia, dove un solo attore tiene banco, facendo più parti insieme, con desolate buffonerie, canti improvvisi, enormi e ingiustificati silenzi, mentre il fuoco acceso tiene lontani gli animali e gli spettatori grandi e piccoli sono tutti là attorno, a scoprire che oltre la loro elementare verità quotidiana ne esiste un’altra, fantastica e liberatoria.” Ennio, tu amavi Carmelo in modo simile a come l’amavo io. Senza Antonin, mai del tutto cresciuto, sempre sull’orlo della malattia e dell’annegamento, non riuscirei tuttora a capire Carmelo. Provo per lui, da sempre, quella venerazione che in genere si riserva ai santi. Hai capito mai qualcosa del suo Riccardo III, del suo Manfred? No. È lui che ha capito me. Grazie ad Antonin ho capito che Carmelo non va analizzato, ma assunto, coi cinque sensi spalancati. Perché Carmelo è ingiustificabile. Recandomi a teatro, io ero destinato a vedere Lui, e null’altro. Perché era Lui che mi mostrava com’ero, come sarei stato, come forse già fui senz’accorgermene. Era la sua diversità a farmi sentire uguale, pur diversamente tale, a lui e all’uomo che egli celava dentro di sé, esibendolo in maniera assurdamente chiara e chiaramente assurda. Mi sentivo, almeno per un po’, per qualche ora, affrancato dalla mia mediocrità, a cui ero tanto legato, come un prigioniero, a cui era stata donata un’ora di pur mefitica aria.
“È questa ‘verità fantastica e liberatoria’ che Flaiano cerca nei ‘fondali di carta’ teatrali, che sono i fondali stessi della letteratura, ‘Terra delle Ipotesi’ per eccellenza, (ironicamente situata tra la ‘veglia’, il ‘sonno’ e il ‘sogno’ dello ‘spettatore addormentato’) di inventare nuove esistenze, vite di ‘recupero’, ‘di scorta’, ‘di ricambio’, quelle dei personaggi come quelle degli autori e degli spettatori; ‘il teatro è tutto meno forse che spettacolo, è parola, attesa, speranza, un’altra ipotesi di noi stessi. Insomma un bel guaio’.” Gino ed Ennio, vi scuso per questa vostra ampia e dotta disquisizione, ma capisco che non potevate evitarlo.
“… è nella singolarità di ogni rappresentazione, ‘unica e irripetibile’, che propone una ‘verità momentanea, cioè teatrale’.” – mi auguro che con questo abbiate finito, per stavolta.
Il settimo capitolo è inopinatamente di lunghezza media e s’intitola L’impotente epigramma. L’esergo è una poesia che hai scritto tre giorni dopo la tua comparsa, anche tu risorto: “Le migliori
poesie si scrivono con un dito sull’acqua della vasca da bagno.” – dirò di più, anche altrove in quel luogo che la maggior parte della popolazione mondiale: fatta l’eccezione per il mondissimo Eugenio (Montale) e, l’ancor più virgineo, Paul. È in quel momento che, in pace con se stesso e col proprio corpo, si concepiscono quei corpuscoli minuscoli e discoli che sia chiamano versi, detti così perché assomigliano all’idioma di bestie e affini. Nulla è più inutile ed essenziale della poesia. Questo è il motivo per cui non la si legge granché e per cui, a scrivere da ragazzi, si comincia (a volte si finisce) con essa. Mal che vada si tira giù l’acqua o si leva il tappo della vasca.
“La poesia per Flaiano ha il prevalente tono dell’epigramma. È una poesia pungente, satirica, colloquiale, nel solco della tradizione latina a cui egli si è più volte richiamato.” – in una parola, è flaianesca.
Tu sei un severo cultore della retorica: “Chi apre il periodo, lo chiuda”, “Chi tocca l’apostrofo muore”, “Per gli anacoluti, servirsi del cestino” (in prima battuta avevo scritto analocuti) ma, soprattutto, “non calpestare le metafore”. Anche per te, dice Gino, come già per Giacomo (di cui non rammento bene il cognome, ma credo ruggisca), l’epigramma “deve essere ‘vibrato e racchiuso in un breve giro di parole’, distinguersi ‘per acutezza e brevità dello stile’,” in cui “si mescolano il tragico e il ridicolo.”
Perché sia efficace, esso avere la qualità della “chiarezza”, e usare “un linguaggio diretto, anche se talora ellittico e allusivo” – non dev’essere perciò ermetico o simbolista.
Ennio, ti sei divertito col nome e cognome di Truman (Capote), anagrammando quelle due paroline oltre venti volte, e io a te m’ispirai (l’ho scoperto solo oggi) quando, alcuni decenni dopo feci lo stesso, ma con un minor numero di versi, con Umberto (il cui cognome fa Eco), di cui, con finta modestia, esibisco soltanto i primi due versi: Buco e tremo/e curo tombe, nonché l’ultimo paio, rubo comete/o bruco mete. Lo ammetto, ho badato più a un vano stile che ad altro, ma che ci vuoi fare, pochi hanno il tuo screanzato coraggio. In quella che tu, Ennio, e tu Gino, indicate come “brodaglia”, mista a “palude”, in cui è arenata la vita romana, “si misura la poesia di Flaiano”. A volte “nella poesia tornano i temi e i misteri da sempre al centro della meditazione dello scrittore, in primo luogo la relazione tra volontà e ‘caso’, significato e ‘non senso’…”
Nella poesia che Gino riporta per ultimo, così bella, complessa, amara e semplice, cerchi vanamente d’individuare il margine d’incertezza che ci permette di sognare per un attimo che non fugge, ma sparisce, per poi riapparire, svanendo ogni volta sempre, e che non ci nega la speranza di poter essere noi, e non tutto il fatale cosmo, a dire la nostra, con la più flebile e inesorabili delle voci, sul nostro umano destino, che è forse inevitabile, o forse no. Chiaro?
“C’è in Flaiano un ideale altissimo di perfezione umana e stilistica. È rispetto a questo ideale che risaltano ancora di più gli ‘errori’ e l’impotenza, col conseguente desiderio di spogliarsi e liberarsi della vacuità de superfluo e del rumore della chiacchiera. Flaiano vuole condensare e ridurre all’essenziale, giungere alla concentrazione della ‘verità’.” E, come sempre, quello che dici tu, Gino, è così azzeccato e inattaccabile che, per rispetto, ora ho deciso di non leggere altro stasera, e d’andare a coricarmi, ripetendo mentalmente le parole che quella saggia donna di mia mamma diceva in simili occasioni: che bella invenzione è il letto! Mi alzo, subisco una merendina, sorbisco un caffè, essendo finita la torta confezionata da una consanguinea, e leggo l’ottavo capitolo, che è Metamorfosi e doppio.
Chissà se tu, Ennio, hai mai letto Antonin, un genio che mi sconvolge anche e soprattutto quando vaneggia. Nella sua opera, e nella sua mente, gli opposti cessano di essere tali, il vuoto diventa pieno, il fuori è dentro, lo spirito è il corpo. È un unico e ormai per sempre singolare doppio. Sempre fino a che non si sdoppia nuovamente, come per mitosi. Anche tu mi pari molto mitico/mitosico, Ennio. La sto prendendo un po’ comoda perché il capitolo è ostico, non da leggere, ma da commentare. Richiede un altro caffè. Riscaldo quello che è rimasto nella moka da due. La parte campana che è in me dovrebbe rifiutare un simile escamotage, ma se ne frega. Meglio un caffè scaldato due volte che uno tiepido. Comincio con una critica ma, ti prego, Gino, non fare il suscettibile come Ennio e che, nonostante la sua acuta intelligenza, non coglie una banalità: ogni permalosità contiene una penosa supponenza. La critica deve essere intesa innanzi tutto come disamina. Ho notato varie volte che certi temi ricorrenti (ne prendo uno a caso, che il racconto Melampus “nasce da una storia e da una sceneggiatura di cui Flaiano avrebbe voluto essere regista.” – senza però mai realizzare il suo sogno. Sapessi, Gino, quante volte ho citato il verso di John, o la teoria del fisico Julian (Barbour) che nega l’esistenza del tempo, o il secondo principio della termodinamica, o quello che (non) succede al di sotto dello spazio di Max. Io li chiamo algoritmi, cioè calcoli già pronti che servono alla bisogna. E che sarebbe una sciocchezza non utilizzarsi, quando solo loro possono reggere una parte del tessuto narrativo. Quindi, tra, bra, tranquillo, fratello.
Colgo l’occasione per dire a te, Ennio, che la tua reazione alla reazione di Giuseppe, che ti definisce uno scrittore spiritoso e che trova un qualche eccesso di sale nella minestra di un tuo racconto, è legittima, ma poco azzeccata. Giuseppe, nella medesima recensione, ti assicura di stimarti molto e ti dice che, rispetto a più celebrati autori, rappresenti una salubre freschezza, ma questi suoi complimenti pare che non meritino un tuo commento, passando in secondo ordine rispetto a quella che tu senti come un attacco al tuo valore. Non entro nel merito, ma ti do un consiglio: prendila su dolce, questa vita, che altre non si sa se ve ne siano. Ora purtroppo non devo più divagare e ho l’obbligo morale tentare un approccio serio al capitolo. No, aspettate, ho un altro appiglio per rimandare un discorso che tanto cogente non è. Varie volte, Gino, tu scrivi, cito a memoria: il lungo racconto (o romanzo breve). All’inizio del capitolo, riprendi la questione che anch’io mi sono posto negli anni. Alla fine, ho scelto di attribuire al racconto la dimensione monodimensionale con cui Aristotele distingueva la tragedia dall’epopea: unità di tempo, di luogo, d’azione. Il che porta a pensare che l’Ulisse di Joyce sia un racconto lungo, piuttosto che un romanzo breve: il che può anche essere. Una volta raccontavo a me stesso che se il protagonista va a letto e poi il giorno dopo si alza, è un romanzo (e anche questa mia reazione lo è). Se invece mette la parola fine prima d’infilarsi nelle coperte è un racconto. Esiste una diatriba più intrigantemente futile?
Un’estrema chiosa: il fiume mantiene l’acqua nel suo lettuccio quattro stagioni all’anno. Il torrente lo perde. E noi reggiani teste quadre arriviamo a chiamare Rodano uno dei due torrenti principali che scorrono in periferia. Ed ecco la doppità, più che la doppiezza: il Rodano è un fiume quando scorre in Francia, che diventa un torrente quando sverna a Reggio. Un nano è tale se non raggiunge un metro di altezza, dopo di cui è di altezza normale. Ricordo però quello sketch televisivo in cui si presenta il nano più alto d’Italia, mi pare un metro e settantadue, più o meno come me.
“In Una e una notte, che rinvia in modo esplicito alle Mille e una notte, egli parla di ‘dramma’ e ‘farsa’ come de ‘pari e dispari’ del dado della vita, ‘facce di una stessa medaglia’.” – ogni doppio contiene se stesso, e da esso è contenuto. “A questo proposito egli parla di ‘una vita di ricambio’, formula già impiegata” in una recensione, in cui dice anche che “il sonno infatti è una vita di recupero, il teatro una vita di ricambio: quindi due estrapolazioni dalla realtà”.
Scrivere è recarsi altrove, come lo è leggere. Come lo è visitare un luogo nuovo, e se poi giunge una trascrizione di quel momento, il gioco assume contorni magici e il vago sapore dell’eternità.
“Flaiano si sentiva estraneo, lontano ovunque.” Il che non è necessariamente un disagio, ma lo può diventare. Il non appartenere a un luogo è una chance di libertà, che l’essere troppo avvinto alle proprie mura (casalinghe, della città) può negare. Quel che angustia non è il posto fisico, ma l’anima che duole nel viverci.
“Adamante-Flaiano riconosce le radici del dramma dell’uomo moderno (‘l’incapacità di vivere nella sua condizione’), le ragioni della metamorfosi (‘il crollo che si trascina addosso appena esige di vederci chiaro’).” La consapevolezza di sé; anziché essere salvifica, essendo trasformata dalla censura di un Io troppo sofferente, diventa il peggiore dei mali del vivere.
“I protagonisti di Oh Bombay! e di Melampus cercano un’altra condizione in cui vivere e vogliono trasformarsi in persone diverse per poter realizzare un’umanità accettabile. Essi compiono uno sforzo immane, spesso inumano (cambiare le proprie inclinazioni sessuali, mutarsi in animali), per rispondere al disagio paralizzante della conoscenza di sé.” Si tratta di un viaggio della speranza, simile a quello di un disperato che, ammalato inguaribile, si reca nelle Filippine dove un truffaldino manipolatore gli aprirà (senza mai usare il bisturi) lo stomaco per estirpargli il male, facendogli poi intravedere il budello infetto, come se fosse la prova della sua certa resurrezione. Questo si chiama alienazione, e le cronache del secolo scorso, come anche quello attuale, sono zeppe di simili nefandezze.
Gino, riporti il pensiero di Massimo (Fusillo), e qui tu sei il suo doppio, io il triplo: “Il cinema appare affascinato da sempre dal tema del doppio. Questa consonanza si spiega innanzitutto con un motivo squisitamente tecnico: è stata la prima arte in grado di visualizzare perfettamente uno sdoppiamento, affidando le due parti allo stesso attore.” – come capitò a Superman-Clark (Kent), ma anche Mr. Hyde e Dottor Jeckyl, creati mirabilmente da un genio della scrittura, ma visti fisicamente solo grazie a dei valenti registi.
“I due racconti di Il gioco e il massacro, nella struttura stessa del libro, si fondano sul motivo del doppio, essenzialmente intrecciato con quello della metamorfosi.” – della salvifica guarigione da sé, almeno fino alla prossima, nevrotica, nonché necrotica, inquietudine.
“Il televisore portatile è uno degli strumenti che avviano e documentano la trasformazione della società in società dello spettacolo (così come il passaggio di Adamante da omosessuale a eterosessuale)…” – che reca il progresso utile per perdere in modo migliore il proprio tempo, senza mai rinvenirlo, ma anche una nuova forma di alienazione. Chi non ha subito la prepotenza di un elettrodomestico, per cui ha ragione sempre lui, scagli il primo monitor. A tal proposito inventai la battuta secondo cui anche la moglie cessa di avere sempre ragione, quando è seduta alla console.
“Cosciente del proprio fallimento, Adamante si vuole liberare del televisore portatile che rappresenta insieme la speranza e il fallimento. Cerca di romperlo buttandolo a terra, ma il televisore sopravvive e gli rigetta addosso ‘in una furiosa conversazione ininterrotta’ centinaia di frasi e di aforismi popolari e colti che sono frammenti della sua esistenza personale e sociale, espressioni e modi di dire della civiltà dello spettacolo e del boom economico, in un ossessivo chiacchiericcio salottiero che occupa tutto lo spazio del pensiero e appiattisce ogni cosa.” Dopo qualche anno di matrimonio ho scoperto che per sopportare un computer basta raccontargli ogni tanto una frottola. Per la televisione basta spegnerla.
Per il resto del capitolo, invito un eventuale secondo lettore di Gino, e primo mio, di andare direttamente alle due fonti: la narrativa di Ennio e il saggio dell’acuminato e al contempo parabolico reggiano.
Il nono capitolo è Mostri quotidiani, ove si parla di Le ombre bianche, raccolta di racconti, ultimo libro che hai pubblicato, da questa parte delle radici.
“Nei racconti delle Ombre bianche Flaiano mette in fila una galleria di ritratti di mostri quotidiani. Molti sono, come al solito, i mostri che abitano nel mondo della cultura, scrittori, giornalisti, filosofi, che si integrano alla perfezione con i mostri sociali del pubblico, dei ricevimenti e delle cene in piedi, delle conversazioni da salotto, del ‘lettore medio, quello delle statistiche’…”, i quali sono “tutti vittime di quell’idra mostruosa costruita dalla noia, che prende tutti e tutto, entrando ‘come nebbia nelle case, negli uffici, nelle fabbriche, nei luoghi di divertimento, soffiando nelle orecchie nelle orecchie degli uomini i suoi dubbi sulla necessità dell’esistenza.” In quegli anni ero ancora un apprendista uomo, ma non ricordo di aver vissuto tale dramma a casa mia. Eravamo forse troppo piccoli borghesi per aspirare a tanto, per nostra fortuna. Quel mostro probabilmente prediligeva le classi più abbienti e solo dopo alcuni decenni sprofondò in livelli più modesti.
“Se scrivo di questa faccenda è perché sono affascinato dalla forza del vuoto che la ispira e la domina. Dal vuoto delle azioni. Questa gente non pensava, né leggeva, agisca. […] Gli attori erano immagini che si muovevano come ombre; e non ci hanno lasciato nessun messaggio, nessuna disperazione ‘intellettuale’.” Mio padre lavorava, ci parlava, giocava a bocce, leggeva. Mia madre faceva la sarta, cucinava e curava l’orto, mentre mia sorella e io trascorrevamo la nostra infanzia.
“… una mia teoria. Questa: che da parecchi anni, l’Italia è stata invasa da un barbaro autoctono. Si tratta di un’invasione dall’interno.” – che, sempre tradotto, significa che i messaggi ricevuti dall’America ci sta trasformando in alieni a casa nostra: l’italiano “è uno dei mostri quotidiani della società del benessere, tutto proiettato verso il ‘nuovo’”. – che non appartiene alla nostra cultura, né alla nostra ignoranza.
Gino, riconduci il titolo della raccolta a varie fonti. A queste sagge ipotesi, ne aggiungo una, inverosimilmente possibile: il film franco-italiano-inglese Ombre bianche (1960), in cui Anthony (Quinn) veste i panni di un eschimese che compie un assassino involontario sbattendo la testa di un missionario contro la parete dell’igloo: lo sgarbato straniero non intendeva accettare l’ospitalità dell’Inuit, che gli aveva soltanto offerto la moglie come dessert amoroso. Il titolo contiene l’articolo, perché, Ennio, dici che ormai “non lo vuole più nessuno”.
Il decimo e ultimo capitolo è Un cronista. Inizio com’è giusto dall’esergo, la solita frase geniale di Ennio: “Chi vive nel nostro tempo è vittima di nevrosi. Per vivere bene non bisogna essere contemporanei.” In esso, Gino, mi conduci per mano dagli esordi giornalistici di Ennio, datati 1933, in pieno fascismo, fino ai suoi ultimi interventi, del 1972. Il capitolo è così tanto informativo che di più è fisicamente impossibile. Colgo poche cose, non potendo fare altro.
Enzo (Forcella) ti chiedeva scusa per una recensione non favorevole a Diario notturno. Mi colpisce alcune tue osservazioni, Ennio: “… mi fece male alla prima lettura ma infine mi servì molto e ti volli bene per averla scritta. Perché io non cercavo un’approvazione generica, anche se la vanità ne sarebbe stata soddisfatta, ma una voce sincera, che mi incitasse a uscire a un giuoco che mi ero imposto per non sentire il peso di altre noie. Detestavo chi mi trovava ‘divertente’, perché io non mi divertivo affatto e le tue parole misero un po’ di limone nel pasticcio dei consensi inutili. Erano le più giuste e da quel giorno ebbi per te la stima e l’affetto offeso che riserviamo solo alle persone sincere e con le quali il discorso conta.” Mi fa molto piacere, Ennio.
“Ennio osserva, descrive, stigmatizza il processo che conduce a un giornalismo sempre più fondato sull’effetto, la sorpresa e lo scandalo a ogni costo…” – mi domando cosa penserebbe oggi dell’attuale degradazione di tale importante settore della cultura.
“Non basta raccontare al lettore come stanno le cose; bisogna colpirlo, spingendo il gioco al limite.” Non è più un mestiere che richiede un’anima, bensì una mente che valuti se esercitare o no un imbroglio mediatico, confezionando una verità mirata a un fine. Questo fenomeno, oggi, specie con l’arrivo della telematica a prezzi popolari, si è ingigantito, con le sempre più rischiose eccezioni. Ho usato il termine popolari, perché in quegli anni si assistette alla proliferazione di una sessualità spettacolare a prezzi davvero popolari.
“Il 24 luglio 1960 sul ‘Corriere della Sera’ Flaiano pubblica il racconto Il mostro, creatura reale e metaforica dal volto bifronte, da un lato quello dei mass-media dall’altro quello dell’opinione pubblica, inscindibilmente attratti e avvinti nella società di massa contemporanea.” Ormai non si cerca di leggere al fine di capire a quale tribù si appartiene, ma si brama di appartenere a chi ti sa conquistare leggendo. Si lascia all’altro la possibilità di conquistare la tua fiducia. Non si più perdere tempo nella disamina, quel che conta è aderire al più presto a una qualche schiera, per non restare più soli con le proprie incertezze. Non si teme nemmeno di non riuscire a sciogliere i propri dubbi, perché spesso non si arriva nemmeno a scorgere il secondo Aut kierkegaardiano, che già è gradito il primo che è apparso.
Sic transit gloria ignavi (vocabolo presente nel mio latinum latinorum), ché di vera e propria ignavia sovente si tratta.
Siamo giunti alla fine. Gino, questa mia reazione è mirata alla tua azione, che è a sua volta mirata a quella di Ennio. Ma sei tu il corpo gravitazionale verso cui ho fatto confluire la mia. Tu, Ennio, sei uno immenso obbligato solidale.
“Flaiano ha un’intelligenza profonda della vita, che non finisce mai di stupirmi. È stata una splendida esperienza stargli accanto per alcuni anni e in realtà sempre.”
Quel sempre non è antifrastico, immagino.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Gino Ruozzi, Ennio Flaiano, una verità personale, Carocci Editore, 2012