“L’imperatrice” di Liliana Nechita: mani asciutte dalle dita inquiete
Gli anziani sono custodi della memoria e baluardo della tradizione. Essi sono un patrimonio prezioso da proteggere e rispettare: i loro occhi hanno visto la Storia, le loro mani nodose hanno lavorato duramente, le loro bocche narrano racconti di un tempo che fu. Sono il passato su cui poggia il castello del futuro.

E uno scrigno di vita vissuta e di saggezza è Olga, mirabile protagonista de L’imperatrice (Fve editori, 2021, pp. 189), romanzo ricco di emozioni della scrittrice romena trapiantata in Italia Liliana Nechita.
Olga è un’anziana che vive in uno sperduto villaggio della Romania. In gioventù ha sposato un uomo molto più grande di lei solo per sfuggire alla fame. Da lui ha avuto due figli. Rimasta vedova, ella convola a nozze con Constantin, il quale è un marito brutale e animalesco spesso assente per motivi di lavoro ma che, nei rari ritorni a casa, esige da lei l’adempimento del dovere coniugale e la picchia per poi andarsene di nuovo. Da Constantin ella ha altri tre bambini e rimane vedova per la seconda volta.
Gli anni trascorrono tra la cura della casa e il lavoro nei campi; Olga vive il dolore più grande per una madre, ovvero la morte di uno dei figli. Ormai anziana riceve spesso la visita della nuora Elena fino a quando, in una fredda mattina d’inverno, viene còlta da ictus. Da allora Olga imbocca il viale del tramonto ma la Vita, intorno a lei, continua a pulsare.
Olga, l’imperatrice. Così appare la donna per l’incedere regale al braccio dei figli per le vie del paese e per il contegno solenne da antica matrona. Ella è solita dire: «Che se studiavo, diventavo imperatrice», riconoscendosi quegli attributi necessari e tipici di tale figura: l’attitudine al comando, il piglio autoritario e la capacità di governare la propria famiglia nonché di amministrare al meglio le sue pur esigue proprietà.
Di origini assai povere, ella si vergognava dei genitori ai quali riconosce il solo merito di averle imposto questo nome, pieno e tondo. A causa dell’indigenza dei suoi Olga ha potuto frequentare solo le prime due classi. La formazione scolastica le fa difetto, è vero, ma ella è stata dotata da Madre Natura di un ingegno vivace e di una spiccata capacità di fare di necessità virtù.
La sua unica vera maestra è stata la Vita, le cui difficoltà l’hanno plasmata, i cui marosi l’hanno forgiata e resa una donna scabra e pragmatica. Trovandosi sola, senza una presenza maschile accanto, ha saputo essere padre e madre per i cinque figli, uomo e donna: la fatica non la spaventa e addirittura è in grado di erigere dalle fondamenta, con le proprie mani, la casa in cui abita.
“All’apparenza burbera e spinosa come un cactus, mia suocera era in realtà dolce e soffice come un cozonac.”
Dalla scuola della Vita Olga ha appreso quali sono le priorità: esse prevedono di anteporre alle esigenze del cuore quelle della sopravvivenza, la quale è il fine verso cui tendere quotidianamente ogni fatica ed energia.
Gloriosa quercia, Olga affonda le proprie radici nella terra, in quella terra generosa e prolifica che la sfama e le elargisce i propri doni. Una terra che richiede cura e dedizione. E Olga non la lavora, no; ella la coccola, la ama, dialoga con essa come con una madre e ne conosce tutti i segreti. Nel mondo dell’anziana i sentimenti vanno serbati nel cuore e poco espressi.
“Era sola da sempre, aveva allevato cinque figli, era stata picchiata dalla grandine e dagli uomini, quindi adesso mordeva per prima.”
Eppure anch’ella ha amato; dopo i due matrimoni infelici ha conosciuto l’Amore che fa ardere e consumare e per cui ancora si strugge: “il biondo”, come è solita chiamarlo, occupa sempre i suoi pensieri. Ama la prole in silenzio, quasi di nascosto; severa ma equa, premia del proprio affetto chi merita e non esita a maledire uno dei suoi figli causa di guai e dispiaceri. E sotto quella scorza ruvida il suo vecchio cuore nutre una tenera predilezione per la nuora Elena, moglie di Luca.
Elena è nata a Bucarest nel 1968 e ha conosciuto la povertà e i disagi del regime comunista. Nella sua infanzia ella avvertiva un senso di inadeguatezza e, affamata d’amore, era convinta di dover faticare molto per essere accettata. È cresciuta accompagnata da tante paure, quella di non essere abbastanza ordinata, di non applicarsi a sufficienza negli studi, di non correre abbastanza veloce a scuola.
Fare tutto bene e rapidamente è il suo imperativo. Adulta, la mattina lavora in un ufficio nella Capitale e il pomeriggio non esita a salire su un pullman e raggiungere la cara suocera per aiutarla nelle incombenze domestiche. È una donna dolce e mansueta, tutto il contrario della cognata Ica, arcigna e sempre in guerra con Olga.
Elena e Ica sono due figure opposte e speculari: al silenzio riflessivo della prima si contrappongono le urla della seconda; alla mitezza dell’una fa da contraltare l’arroganza dell’altra. Mentre Ica è un animale urbano, Elena, pur figlia della metropoli, ama immergersi nella pace della campagna, in un villaggio dimenticato da Dio e dagli uomini e in una casa che sorge in una via senza nome. È quasi una donna-angelo, una presenza rassicurante e solida che si prodiga per il benessere della famiglia e di quella suocera che per lei è quasi una madre.
Olga non può ricevere la Comunione a causa del livore che nutre verso Ica; al contrario vive con Elena un rapporto idilliaco e privilegiato. La nuora, questa nuora, possiede le chiavi per aprire il cuore dell’anziana; grazie alla sua mitezza ha saputo farsi accettare e amare da Olga che la accoglie come una figlia in casa sua.
L’inclusione di Elena nel tessuto della famiglia matriarcale si esprime attraverso il suo coinvolgimento nei lavori agricoli. Olga è solita portarla con sé nei campi ed Elena, docile come sempre, sia pur maldestra, ne ripete i gesti e sopporta i morsi della fame e della sete sotto il cocente sole estivo per compiacere la suocera e renderla orgogliosa di lei. L’investitura di Elena a pupilla di Olga avviene attraverso un episodio dal forte valore simbolico; l’anziana, esperta conoscitrice delle proprietà delle erbe, tramanda il suo sapere alla nuora, quasi come un’antica strega trasmetteva le proprie arti a colei che ne sarebbe diventata erede.

In un mondo semplice come quello contadino l’Amore si declina come cura verso i propri cari. Far da mangiare, garantire un ambiente domestico dignitoso, tenere in ordine i vestiti dei familiari: questi i gesti ordinari eppure affettuosi delle donne. Così Olga coccola Elena con le sue zuppe di verdure, la riscalda con una tazza di vino rosso bollito. La nuora la osserva rapita mentre cucina, i suoi occhi si abbeverano dell’immagine di quelle mani piccole e scurite dalla vecchiaia e dalla fatica. Mani asciutte dalle dita inquiete che quando impastano sembrano giocare. La condivisione del desco suggella l’unione delle due donne. Così quell’Amore ricevuto Elena lo rende a Olga; quando quest’ultima cade malata, la nuora non esita a dividersi ogni giorno tra città e villaggio, tra la casa e i campi. Ella accudisce amorevolmente la suocera, ormai ridotta a un tronco inerte, sobbarcandosi anche i compiti più gravosi. Amore che genera Amore.
L’imperatrice si inscrive in una dimensione rurale; la città, con i suoi clamori, con la sua frenesia e i suoi ritmi impazziti, è un’eco lontana. La metropoli è l’universo del cemento e delle fabbriche, dei negozi illuminati e dei mezzi di trasporto. È il trionfo della modernità. Ma a pochi chilometri, nei villaggi che si stanno spopolando per fornire manodopera alla nascente industria, la vita è diversa. Qui la Natura fa il suo corso indisturbata, prepotente. La vita scorre scandita dai lavori agricoli, dall’avvicendarsi delle stagioni e dalle feste comandate. Sono queste le coordinate sulle quali i contadini regolano l’esistenza individuale e collettiva. La Storia sembra essersi arresa alla ciclica ripetizione di rituali arcaici che sono il cemento della comunità.
Nella Romania postcomunista la metropoli è rimasta disabitata da Dio; in campagna, invece, i Cieli ne sono ancora la dimora, le chiese sono affollate e le nonne sanno tutto ciò che occorre fare in occasione del Natale e della Pasqua. Esse baciano le icone, accendono ceri, pregano per tutti, offrono cibi in onore dei defunti. In un mondo in cui l’unica fonte di sostentamento è l’agricoltura, si innalzano preghiere per la salute delle vigne e degli animali, si bruciano incensi, si benedicono i campi e i raccolti.
In questo universo elementare poco si sa della felicità; la vita passa tra le cose già fatte e quelle che aspettano di esserlo. Le vie del paese sono attraversate da carri trainati da cavalli e carichi di paglia o mais; si macina il grano, si contano le pecore, si producono grappa e marmellata nei cortili delle case. Le mani dei contadini sono deformate dall’abitudine di stringere gli attrezzi da lavoro. L’unico conforto, l’unico sollievo, l’unica salvezza è Dio, quel Dio rinnegato negato e ucciso dal regime ma tolto dalla croce dalla gente del villaggio e portato in processione.
Written by Tiziana Topa