“Epigrafe per un libro condannato” di Charles Baudelaire: una poesia de “I Fiori del male”
Di seguito si potrà leggere la poesia intitolata “Epigrafe per un libro condannato” di Charles Baudelaire, una analisi della stessa ed in chiusura la poesia in lingua originale.
“Epigrafe per un libro condannato”
Lettore pacifico e bucolico,
Sobrio ed ingenuo uomo dabbene,
Butta questo libro saturnino,
Orgiastico e malinconico.
Se non hai studiato retorica
Da Satana, lo scaltro decano,
Buttalo! Tu non capiresti nulla,
O mi crederesti isterico.
Ma se, senza lasciarsi affascinare,
il tuo occhio sa tuffarsi negli abissi,
leggimi, per imparare ad amarmi:
Anima curiosa che soffri
E vai cercando il tuo paradiso,
Compiangimi!… Se no, io ti maledico!
“Epigrafe per un libro condannato” è una lirica che si incontra ne “I fiori del male”, e con la quale si deve fare i conti se si vuole dialogare con il poeta parigino Charles Baudelaire (Parigi, 9 aprile 1821 – Parigi, 31 agosto 1867). La traduzione quivi presentata è inedita e, rispetto ad altre traduzioni, cerca di restare il più possibile fedele al testo senza stravolgimenti nei versi, senza modifiche dell’ordine in cui il poeta si è espresso.
Pubblicato il 25 giugno del 1857 dall’Editore Auguste Poulet-Malassis, “I fiori del male” subì dopo pochi giorni, il 7 luglio, una denuncia per oltraggio alla morale pubblica e religiosa da parte della direzione della Sicurezza pubblica francese. Autore e casa editrice furono costretti a pagare una multa ed a sopprimere sei liriche. Quattro anni più tardi, nel 1861, fu pubblicata una seconda edizione con la soppressione delle sei liriche e con trentacinque nuove poesie, una delle quali è proprio “Epigrafe per un libro condannato”.
Opera diamante dell’Ottocento, “I fiori del male” segna l’inizio di ogni avanguardia europea e Charles Baudelaire il poeta più chiacchierato dai suoi estimatori e dai suoi denigratori.
Similmente all’incipit con la lirica “Al lettore”, Baudelaire si rivolge nuovamente a colui/colei che leggerà il libro in una chiamata di complicità, di corrispondenza, di comprensione della cruda realtà della condizione umana che deve adagiarsi in finzioni e convenzioni per poter boccheggiare. Baudelaire ha avvertito il lettore di ciò che “I fiori del male” contiene: l’uomo cosciente dei propri vizi e del proprio destino che si mostra stanco e, dunque, non disponibile alla continua menzogna ed al nascondimento di sé perché è cosciente dell’assedio della Noia.
“I fiori del Male” non è una semplice raccolta poetica ma un libro con un intento strutturale: l’architettura costruita da Baudelaire è ben evidente; la stravaganza che anche l’amico e critico letterario Charles Augustin de Sainte-Beuve gli rimproverava fa parte di questa impalcatura in un’epoca di grandi geni. Ogni poeta, ogni scrittore doveva mettersi in mostra cercando una qualche originalità. Baudelaire fu il poeta strano, terribile, il flâneur[1] che vagava per la città e sostava nei locali a guardare la folla (si consiglia la lettura della lirica “A una passante”).
Il 15 maggio del 1871 in una lettera al poeta francese Paul Demeny, Arthur Rimbaud scriveva con evidente rimprovero e rammarico sul parigino di non aver cercato di squarciare il velo ma di essersi raggomitolato nell’ambiente artistico: “Baudelaire è il primo veggente, il Re dei poeti, un vero Dio. Tuttavia egli è vissuto in un ambiente troppo artista; e la forma tanto vantata in lui è meschina: le invenzioni d’ignoto richiedono forme nuove”.
Senza esagerazione questo biasimo ricorda una lamentazione di San Tommaso[2] al Cristo:
“Egli disse: – Signore, molti sono intorno al pozzo, ma nessuno è dentro il pozzo.
Gesù disse: – Molti si soffermano fuori della porta, ma soltanto i solitari entreranno nella camera nuziale.”
Nella terza edizione del libro (1868) “Epigrafe per un libro condannato” occupava la posizione CXXXIII, quindi proprio all’inizio della sezione Fleurs du Mal. Nel 1865 viene precisato che la lirica era stata pensata come poesia-prefazione per la seconda edizione della raccolta, ma per la prima volta il sonetto appare nel 1861 pubblicato ne “Revue européenne”.
“Epigrafe per un libro condannato” nella prima quartina si rivolge al lettore sobrio e bucolico che non guarda il mondo per com’è, che non analizza la connessione tra gli eventi ed i demoni che vivono nell’uomo. I dèmoni greci, i daimon (dal greco antico δαίμων, con il significato di “essere divino”), che hanno una valenza diversa dai demòni della tradizione cristiana. Il daimon è uno dei concetti più antichi della tradizione filosofica greca. Ne “Le opere e i giorni”, Esiodo scrive:
«Poi, dopo che la terra questa stirpe ebbe coperto,/ essi sono, per volere del grande Zeus, dèmoni/ propizi, che stanno sulla terra, custodi dei mortali,/ e osservando le sentenze della giustizia e le azioni scellerate,/ vestiti di aria nebbiosa, ovunque aggirandosi sulla terra,/ dispensatori di ricchezze: questo privilegio regale posseggono.»[3]
Baudelaire, per due volte, consiglia di buttare il suo “libro saturnino”, di non tenerlo in casa, perché quel tipo di lettore che non si arrovella di domande e che non ha studiato retorica da Satana non potrà mai comprendere ciò che il poeta ha voluto mostrare con le sue liriche.
Saturno, il dio, il pianeta, al tempo del poeta considerato nefasto perché accostato ai malinconici ma che ebbe la sua grande importanza in epoca greca e romana. Basti pensare ai Saturnalia, festività che iniziavano il 17 dicembre, nella quale giornata gli schiavi potevano sedere a tavola con i loro padroni. Macrobio ne “Saturnali” cita Lucio Accio: “La maggior parte della Grecia, e soprattutto Atene, a Saturno/ celebra feste, che da loro sono denominate Cronie,/ e festeggiano quel giorno: per campi e per città quasi tutti/ banchettano in letizia e servono ciascuno/ i propri schiavi e tale costume passò di là ai nostri parimenti,/ sicché gli schiavi mangiano a tavola con i propri padroni.”
Saturno che promuove la trasgressione, l’interrompersi della regola ma anche la tecnica dell’agricoltura. Saturno, il Crono dei Greci, un dio che viene anche immaginato come il metallo, quel piombo che in alchimia simboleggia la nigredo. Quale tra queste celeri vie interpretative sia stata di ispirazione per Charles Baudelaire per identificare la sua raccolta come “libro saturnino” non si verrà a sapere perché tutte le vie possono essere valide ma anche perché esse potrebbero essere state solcate dal poeta ad una ad una e, dunque, unificate in una sola via. Di certo si sa che Paul Verlaine prenderà spunto per il suo “Poemi saturnini” del 1866.
Come ne “Al lettore” Baudelaire cerca nel lettore un complice, un fratello, qualcuno con cui condividere l’abisso nel quale si è stati.
Perché se l’occhio nostro non si è rivolto all’abisso non potrà mai comprendere l’esperienza di cui parla il poeta e la lettura sarà inutile, non posseduta. In tanti ritengono che la poesia sia un vezzo, un gioco, un passatempo, e sì, è vero, per tanti lo è: si dimostrano superficiali verso l’arte principale che ci fa dominare le parole e che ci rende, allo stesso tempo, succubi. Le parole. La retorica. L’udire frasi, versi, singole parole che echeggiano nella mente, sussurrate da una voce che non è totalmente sovrapponibile a quella dell’Io.
Satana, risponde Baudelaire. Un po’ per tradizione cristiana nella quale fu il serpente a convincere Eva alla disubbidienza al creatore con la mitica mela del sapere, un po’ perché avrebbe di sicuro colpito i lettori dediti alla superficie, che continuamente Baudelaire stravolgeva per quel concetto espresso in apertura del voler strabiliare con l’originalità (il rimprovero di Rimbaud) e con l’autenticità del mostrare ciò che gli altri occultano (gli altri = i lettori superficiali).
Satana. L’ebraico Śāṭān, considerato una sorta di angelo del male in contrapposizione al bene, è stato tradotto in greco con Διάβολος ed in latino con diabŏlus con il significato di “colui che divide/scaglia/getta via”. La differenza tra daimon e diavolo è evidente: i daimon si identificano con ciò che è presente nel corpo degli esseri viventi e la loro natura non è prettamente benevola o malevola, mentre il diavolo è contrapposto al bene operando una divisione e divenendo il suo opposto.
Baudelaire nella seconda metà della lirica si rivolge direttamente a coloro che non occultano, a coloro che mestamente vivono la vita consci dell’orrore che questo implica. Si rivolge a coloro che hanno voluto mangiare la mela o che non hanno potuto sottrarsi al boccone per sorte, per volontà di Ananke (Ἀνάγκη). Ed infatti il parigino ricorda a chi legge di mettere da parte la fascinazione che è tipica, ma piuttosto di comparare il tuffo nell’abisso, quello sguardo di colui che indaga il sé.
Il 22 settembre del 1907 il poeta e giornalista greco Costantino Kavafis (Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1863 – Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1933), annota:
“Stasera ho letto di Baudelaire. E l’autore del libro che ho letto sembrava spaventato dai “Fleurs du Mal”. È passato molto tempo dall’ultima volta che ho letto i “Fleurs du Mal”. Se la memoria non m’inganna, non sono un’opera così spaventevole. Mi sembra che Baudelaire fosse chiuso in una prigione di voluttà molto piccola. All’improvviso la notte scorsa; o mercoledì scorso; e molte altre volte, ho vissuto, ho compiuto e ho immaginato, e in silenzio ho sperimentato, piaceri di gran lunga più sofisticati.”[4]
Racconta di un autore che ha letto Baudelaire restandone spaventato e confronta il suo ricordo di lettura de “I fiori del male”. Lo spavento che propriamente ha indicato Baudelaire, anche e solo per l’incontro in lettura di parole come “Satana”, nell’insignificante lettura di coloro che non scavano nella riflessione dei significati del simbolo.
Kavafis, il celebre autore di “Itaca”, non prova spavento per Baudelaire e, nel 1907, ritiene che il parigino fosse “chiuso in una prigione di voluttà molto piccola”, lui, Kavafis, che nella sua vita avvertì un senso di chiusura e segregazione con accesi contrasti tra passionalità carnale di matrice omossessuale ed il bisogno di ascesi interiore.
Nell’ultima terzina: “Anima curiosa che soffri/ E vai cercando il tuo paradiso,/ Compiangimi!… Se no, io ti maledico!” è presente un’esagerazione del poeta, il quale inizialmente consiglia di gettar via il libro e successivamente promette di maledire il lettore sofferente che non comprende il suo dolore e che non è portato per il compianto, per la compassione.
In lingua originale:
“Épigraphe pour un livre condamné”
Lecteur paisible et bucolique,
Sobre et naïf homme de bien,
Jette ce livre saturnien,
Orgiaque et mélancolique.
Si tu n’as fait ta rhétorique
Chez Satan, le rusé doyen,
Jette ! tu n’y comprendrais rien,
Ou tu me croirais hystérique.
Mais si, sans se laisser charmer,
Ton oeil sait plonger dans les gouffres,
Lis-moi, pour apprendre à m’aimer ;
Ame curieuse qui souffres
Et vas cherchant ton paradis,
Plains-moi !… sinon, je te maudis !
Written and translated by Alessia Mocci
Note
[1] Per approfondire si consiglia la lettura del saggio “Angelus novus” del filosofo tedesco Walter Benjamin (Berlino, 15 luglio 1892 – Portbou, 26 settembre 1940) che ha portato avanti un’ottima descrizione tra i tre tipi di flâneur prendendo ad oggetto Baudelaire, Edgar Allan Poe ed Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, forse, quest’ultimo, è stato sopravalutato ma si deve ammettere che “La finestra d’angolo del cugino” è utile per trasmettere l’idea di un diverso tipo di osservatore della folla.
[2] Dal Vangelo di Tommaso ritrovato nel 1945 fra i famosi manoscritti di Nag Hammadi, non è stato riconosciuto dalla Chiesa, è una raccolta di detti attribuiti al Cristo che circolavano in forma orale.
[3] Traduzione di Cesare Cassanmagnago per Bompiani.
[4] Kostantinos Kavafis, Note di poetica e di orale, Aiora Press, traduzione di Maurizio De Rosa, Atene, 2017, p.59
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