“Il baco da seta” di Robert Galbraith: un’altra indagine di Cormoran Strike
Pare sia sparito nel nulla uno scrittore famoso, quell’Owen Quine i cui ultimi libri appartengono al genere ‘così brutto da essere bello’. E s’ipotizza di tutto, anche che se la stia spassando con una bella pollastrella, motivo per cui la Leonora, la sua rispettabile moglie, incarica Cormoran Strike delle indagini.
Si tratta di un libro forte, di un noir, che sconfina nello splatter.
L’ultimo e inedito romanzo di Quine s’intitola Bombyx Mori, che “è il nome latino del baco da seta.” Strike riceve da Robin, la sua segretaria un’informazione raccapricciante su come “si ricava la seta dai bachi”: “Si fanno bollire, così non danneggiano il bozzolo cercando di uscirne. Sono i bozzoli che sono fatti di seta. Non è molto carino, ti pare?”
E pensare che i nostri vecchi e féven filóss, stesso etimo di filugello, la sera, nelle soffitte in cui erano allevati questi bombici del gelso (altro nome ancora). Fér filóss voleva dire chiacchierare amabilmente dopo cena nella stanza in cui erano allevati i bachi da seta, quando le fatiche del giorno erano quasi un ricordo che si ripresentava puntualmente ogni mattina. E poi li ammazzavano, quegli utili insetti, come del resto si faceva con le galline e i conigli.
Galbraith, come la sua imago J. K. Rowling, ha la facoltà che non riesco a invidiare, essendo così eterogenea dalle mie attitudini alla scrittura, di saper creare a ogni piè sospinto un mondo intero, con tutte le sue sfaccettature ed eventualità. Un esempio:
“In pratica quasi tutti quegli spazi erano stati usati come depositi: materassi vecchi, passeggini, elettrodomestici e quelli che sembravano mucchi di vestiti sporchi erano esposti agli elementi, come se armadi pieni di ciarpame fossero stati sezionati per mostrarne il contenuto al pubblico.”
Io avrei scritto materassi vecchi e altro ciarpame, di più non sarei riuscito a scorgere e a riprodurre. La mia impressione è che certi scrittori abbiano celato in sé un elaboratore potente in grado di ricreare una biodiversità immaginifica che quasi straborda dalle loro inesauribili memorie di massa.
Galbraith sa essere acuto anche in certe descrizioni che inducono a pensare che il mondo è più strano di quello che sembra, ma è proprio siffatto.
“L’esperienza aveva insegnato a Strike che un certo tipo di donna era insolitamente attratta da lui. Le caratteristiche comuni di questo tipo erano l’intelligenza e l’intensità intermittente di una lampadina avvitata male.”
Cosa significa questo? Tutta testa ma con una lampadina fuori uso? A occhio sono gli esseri più pericolosi perché sanno come prenderti ed essere imprevedibili nelle loro reazioni intermedie e nelle loro azioni finali. Solo una di queste poteva innamorarsi di Strike e tradirlo segretamente col suo ex fidanzato e poi mollarlo senza un’apparente ragione, se non quella derivata da qualche bisticcio di troppo.
La donna è sempre un mistero, soprattutto quella che crediamo di conoscere come le nostre tasche (a volte bucate). E a descriverle in questo caso è un autore molto sensibile alla questione femminile.
Quine aveva un nemico, un certo Michael Fancourt, la cui moglie aveva scritto un romanzo che fu dileggiato in una parodia pubblicata in una rivista da un anonimo, e che scelse d’infilare “la testa nel forno, stile Sylvia Plath”, ponendo in modo così gassoso fine alla sua esistenza. Quine fu sospettato da tutti, specialmente da Michael, di essere l’autore dell’articolo.
Grazie alla sua sagacia e a qualche aiuto del destino, Strike si reca in una casa che è in comproprietà di Quine e di Michael, che pare una garçonnière con cui i due già solidali, ora antagonisti, potevano incontrare gente piacevole all’insaputa delle loro rispettive mogliettine.
Tra gli oggetti vari (per sapere cosa esattamente occorre leggere attentamente il romanzo), Strike rinviene qualcosa d’interessante: “una carcassa, legata, maleodorante, marcia e sbudellata, giaceva sul pavimento anziché pendere da un gancio metallico da macellaio. Ma quello che sembrava un maiale squartato indossava abiti umani.”
Fin qui tutto normale, ma “Strike ebbe la sensazione di trovarsi in un tempio, scosso da conati di vomito, testimone di un sacrificio rituale, un atto blasfemo di profanazione.”
Il momento richiede un minimo di meditazione trascendentale.
“Sette coperti – piatti e posate – erano stati deposti intorno al corpo in decomposizione, come se fosse un enorme pezzo di carne in un vassoio.”
Tralascio altri particolari un po’ per evitare lo spoiling, ma soprattutto perché ne ho già abbastanza, avendo tra l’altro appena desinato.
Il particolare più significativo è che “gli intestini erano spariti, come se fossero stati mangiati.”
Un lampo, ignoro quanto significativo: nel primo romanzo con Strike, il committente era il colpevole. “Richard Astis, ispettore della polizia”, amico ed ex compagno di guerra del nostro investigatore, gli fa: “Allora, sei stato assunto dalla moglie per cercare il morto… Diamo per scontato che il corpo sia dello scrittore, quel tale…”
La moglie di Quine parrebbe una dei primi sospettati, almeno per due indizi. A Strike aveva detto di non aver pensato più da tempo alla casa e di non aver mai letto alcun libro del marito prima della sua pubblicazione. Bombyx Mori è ancora inedito, anche se completo in ogni sua parte.
Leonora chiede quindi a Strike di continuare le indagini, anche perché si è accorta che i poliziotti “pensano che io sappia qualcosa”.
Due parole su Robin. È una cara ragazza, si vede che adora il suo goffo e ingombrante principale, ma sta cambiando carattere da quando lo sta frequentando quasi giornalmente: “… prima di conoscere Strike, Robin era sempre stata la prima ad arrendersi e chiedere scusa durante un litigio, ma la sua natura conciliante sembrava essere stata cambiata da quello stupido lavoro del cazzo..”
Al che, e forse c’entra poco, è proprio in questo momento che mi alzo e vado a cercare mia figlia Anna. Pure questo è un fatto mio, ma lo rendo pubblico. Era mia intenzione leggere il terzo libro di Carlos Ruiz Zafón, ma la mia cogente consanguinea, che non vedevo da un mesetto, mi ha pressoché imposto di leggere il secondo romanzo di Galbraith.
Trovo la cogente che, presa da un’inquietante afa, sta boccheggiando a letto, fingendo di leggere un libro che le avevo suggerito. Le dico che Strike ha trovato il corpo di Quine e che… mi pare di ricordare… che, in Il richiamo del cuculo, il cliente di Strike era il colpevole del finto suicidio della modella e, se tanto mi dà tanto… La cogente scoppia in una sghignazzata e poi aggiunge: Innanzi tutto la Rowling non è così ingenua… Replico: certo, ma è furba come una faina… Altra risata omerica di mia figlia.
Scuotendo il capo torno nella mia stanza-pensatoio a ricordarmi che, nei libri della Christie, a pagina 18 viene trovato il cadavere; a pagina 43 al lettore pare di aver individuato l’assassino; a pagina 159 si scopre che il tuo sospettato ha un alibi di ferro; a sette pagine dalla fine, invece…
Con Galbraith potrebbe essere lo stesso, anche se le dimensioni ipertrofiche del romanzo, 555 pagine, diluiscono il tutto in un marasma di parole, di accadimenti, considerazioni e descrizioni.
Il nostro amato investigatore sta leggendo ora il manoscritto di Quine e si chiede: “Poteva un uomo con una simile padronanza della lingua, per quanto a Strike il suo stile non piacesse, essere classificato come pazzo?”
Bisognerebbe chiedere a Pierre Klossowski, sempre pronto a giustificare i geni delinquenti…
“Ai sei personaggi che Strike aveva riconosciuto – Succuba, la Zecca, il Tagliatore, Arpia, Vanaglorio e Impudicus – si unì a quel punto Epicoene. I sette convitati si misero intorno a un ampio tavolo su cui erano posati una grande caraffa dal contenuto fumante e un vassoio da portata che poteva contenere un intero uomo.”
Come se stessero predisponendo un pasto rituale.
“L’eroe del suo romanzo muore nello stesso identico modo in cui lui è stato ucciso: legato, squartato, inondato di acido. Nel libro addirittura se lo mangiano.”
Ormai, per me, i principali sospettati sono: 1) la vedova e 2) l’antagonista di Quine. A meno che non ce ne sia un terzo… che però non mi pare sia ancora apparso e siamo al Capitolo 19, a pagina 180. A meno che non sia… Non so. Aspettiamo prima di giudicare.
Prescindendo dal caso fin troppo umano (che sconvolge equamente Robin e me) dell’australiana “che ha scuoiato l’amante, lo ha decapitato e ne ha cucinato la testa e le natiche, per poi cercare di servirle ai figli di lui”, pur concordando sul ragionamento che “quando le donne si incazzano, si incazzano davvero”, direi che siamo troppo in là nel racconto perché un’autrice astuta ma diligente come la Rowling non abbia ancora presentato al popolo l’assassino/a.
All’improvviso mi coglie un lampo, che mi bruciacchia un numero imprecisato di neuroni, miliardi di sinapsi comprese.
Pagina 124 del Capitolo 21: “Il mio papà è morto” – a parlare è Orlando la figlia di Quine e di Leonora che presenta seri problemi di comportamento. Quando Strike dice: “Sì, lo so. È molto triste.”, Orlando ribatte conferma che “Anche Edna ha detto che è triste.” – da sola lei forse non ci sarebbe arrivata, però lo dice “come se avesse sperato in qualcosa di più originale.”
Qualche pagina dopo la medesima “ragazza arrossì intensamente. Lanciò un’occhiata alla madre, poi uscì dalla cucina. Stavolta sbatté dietro di sé la porta, che non si chiuse ma si riaprì di rimbalzo. L’investigatore sentì qualche passo sulle scale, poi uno strillo incomprensibile.”
Tipico di una personalità schizofrenica. “Adesso è arrabbiata” – è Leonora a parlare “in tono piatto”. Ci dev’essere abituata. Anche Quine lo era, probabilmente.
Torno alle parole della mia cogente: Innanzi tutto la Rowling non è così ingenua…
Non lo è affatto, no, ed è una delle scrittrici meno improvvisate che esistano, maschi compresi ovviamente, se è vero che già nelle prime battute del primo libro di Harry Potter aveva previsto che il tal grassottello e goffo aspirante mago sarebbe stato un eroico e smilzo combattente alla fine del settimo.
E se la causa prima del delitto fosse stata la…?
Finora non sono mancate le ragioni di tipo economico e quelle relative a vendette per giustificare l’omicidio, ma non si è ancora parlato di passione. Una passione, una kam’a, può riguardare anche un amore materno (o paterno). Di sicuro la persona più cara a Leonora è la giovane e inconsulta figliola. Questo non significa che Leonora sia l’assassina, ma…
Nel frattempo, la cogente interrompe la mia lettura e mi dice che si trova indecisa fra due nuovi libri da leggere: il quarto di Galbraith oppure Delitto e Castigo di Fëdor.
Mi chiede se sia in grado, alla sua giovane età, di capire il capolavoro del russo. Mentendo (io non lo compresi troppo quando lo lessi a un’età maggiore della sua) le dico di sì. È preoccupata del fatto che qualora non fosse in grado di digerirlo, sarebbe poi costretta a rileggerlo a distanza di anni e la cosa le rincrescerebbe. Anche a me scoccia rileggere, per le medesime ragioni sue: ci sono troppi capolavori da inseguire col lazo e da accalappiare.
Dostoevskij è facile, le dico, sempre mentendo, ma è pesante.
In che senso?, mi chiede.
Nel senso che per dire qualsiasi cosa ci mette un casino di tempo! Come la Rowling!, non riesco a trattenermi dal dirle. Poi torno alla lettura:
“… Robin non aveva ancora sviluppato i meccanismi di autodifesa dei professionisti incalliti, come dimostravano i suoi tentativi di parlare in modo oggettivo di un uomo cui erano state strappate via le budella.” – è la seconda volta, caro Galbraith, che mi fai pensare alle budella scomparse. Perché? Consultata a proposito la mia cogente, di cui talvolta ho attestato una fine tendenza al sofisma, esse sono state mangiate. Da chi, le chiedo, da un cane?
“Non è stato un crimine passionale”… dice Robin…
Vorrei però ricordarle che se i criminali sono vari, ne basta una di persone razionali, l’altra potrebbe essere chiunque.
Ancora: “Il fattore decisivo in un caso del genere sarebbero state le viscere: l’ultimo pasto e via dicendo. Ma gliele hanno estirpate dal corpo, questa non l’avevo mai vista, e tu? L’assassino che si porta via chili di intestino.”
La moglie della vittima ha un fisico esile. Strike pensa “alla stazza della vittima e alla difficoltà di maneggiare un corpo come quello.”
Un vicino della casa del mistero “dichiara di avere visto un donnone col burka entrare nella casa il pomeriggio del quattro, con un sacchetto del vicino takeaway halal. Lui dice di averla notata perché la casa era disabitata da molto tempo e che lei è rimasta per un’ora, poi se n’è andata.” – quelle parole arcane indicano un cibo islamico d’asporto.
Ancora un cenno sull’adorabile segretaria: Robin è una persona molto attenta e volenterosa e “la faceva arrabbiare il fatto che Strike, l’unico che avrebbe dovuto capire, non riconoscesse in lei ciò che tormentava anche lui.” – quell’ansia che ti prende prima di arrivare alla conclusione di un caso.
“Strike era in lieve ritardo, cosa insolita per lui. Robin ingannò l’attesa familiarizzando con i controlli del veicolo. Le piacevano le macchine e aveva sempre adorato guidare. All’età di dieci anni era in grado di condurre il trattore della fattoria dello zio, a patto che qualcuno l’aiutasse a togliere il freno a mano.”
Questo passaggio risulta del tutto inutile ai fine del plot, ma essenziale per comprendere la scrittura di Galbraith. La sua memoria è diacronica, sa andare avanti e indietro, purché gli si conceda il tempo sufficiente per simili scorrazzate. Il motivo per cui lo scrittore ha fatto ritardare Strike è mirato a permettere a Robin d’impratichirsi dell’auto (una “Toyota Land Cruiser”), ma soprattutto per consentire questo ricordo, essenziale dal punto di vista psicologico. Mai c’avrei pensato, io.
Solo a pagina 301 del Capitolo 28 scopro che la demente Orlando “ha ventiquattro anni”. Io sono un tipo un po’ distratto e a volte I read in a hurry, e mi chiedo se quel dato fosse stato già trasmesso al lettore. Ma non credo.
Un particolare che desta ilarità, a pagina 316 del Capitolo 29: “Le calvizie di Chard era solo una delle tante superfici riflettenti nel salone, insieme al vetro, al legno lucido e all’acciaio”: la cosa fa riflettere anche il sottoscritto.
“… se Owen è stato ucciso in quel modo, se l’assassino ha copiato il libro… il numero dei sospetti si riduce, non è vero?” – occorre conoscere il nome dei primi lettori dunque.
“Robin si accomodò sul divano in finta pelle, che per qualche ragione non emetteva pernacchie quando era lei a sedersi. Forse, pensò Strike, era una questione di peso.”
Donna leggera dal punto di vista fisico, ma assai tenace e precisa. Come la Rowling stessa.
Strike s’imbatte in una strana tipa che lo vuole accoltellare, e che poi le dice che Quine l’ha tradita: “… ha detto a tutt’e due, a me e a Kath, che eravamo nel suo nuovo romanzo e che io ero ‘una bella anima perduta’, così ha detto. E ha fatto finta di leggermene un pezzo, un giorno, al telefono ed era… magnifico e poi invece io l’ho letto e lui… aveva scritto quella roba…”
Capita che uno scrittore cambi tutto, ne sa qualcosa Manzoni, ma ci dev’essere una ragione. In un thriller la cosa emana però un cattivo odore.
Philip Midgley, che presto nei documenti si chiamerà Pippa, dice che Quine la trattava “come una seconda famiglia”. Lei gli aveva “raccontato tutto” di sé e delle sue dure catene familiari. Si sentiva perciò tradita e offesa nell’intimo… Voleva accoltellare Strike perché indagava per conto di quell’orribile moglie di Quine, che si sarebbe accaparrata tutti i soldi.
Pagina 447, in chiusura del Capitolo 40: “Come un coperchio che comincia ad avvitarsi, una moltitudine di fatti separati cominciava a ruotare nella mente di Strike. E tutto andava al posto giusto, in modo incontrovertibile. Strike esaminò la sua teoria da ogni lato: era perfetta, congruente, solida. Il problema era che ancora non sapeva come dimostrarla.”
A pagina 462 del capitolo 42: “è stato progettato con mesi, se non anni, di anticipo. A pensarci bene, è opera di un genio, ma è troppo complicato, e sarà questo a incastrare l’assassino. Non si può tessere la trama di un omicidio come se fosse un romanzo. Nella vita reale non si possono tirare tutte le fila.” – come se fosse un romanzo.
Nell’esergo del Capitolo 47 (morto che parla) Galbraith cita un passo tratto da Il diavolo bianco di John Webster: “Ah, ah, ah! Tu ti intrappoli nel tuo stesso lavoro come un baco da seta.”
È mia convinzione (o sogno, o finzione), che ognuno vive nel suo e solo quando si sente in trappola, tenta di uscire. Il cosmo è una fitta rete di ragnatele e di bozzoli da cui i bachi cercano di celarsi e poi, al momento giusto, di uscire, per intersecarsi con gli altri e a comunicare loro la propria diversità. Io affermo che la Rowling è complessa e ciarliera, la cogente dice lo stesso di me, io di muglierema. Così è, se vi pare.
Ora un esempio di scrittura prospettica: “Strike si era posizionato in modo da vederli nel riflesso delle portefinestre. Due Elizabeth Tassel lo fissavano da sopra il menu, mentre due Nina Lascelles lo ignoravano deliberatamente e due Daniel Chard dal cranio lucido facevano cenno ad altrettanti camerieri, per mormorargli qualcosa allo specchio.” – il sospetto è che qui sia indicato un paio di colpevoli dell’assassinio di Quine.
Getto nel mucchio anche questo indizio, non so quanto probatorio (Strike sta discorrendo con Michael): “… voi due eravate ancora in buoni rapporti quando lei ha avuto gli orecchioni, tanto da farci un riferimento sarcastico nei Fratelli Balzac. Il che rende ancora più starna l’accusa fatta attraverso il personaggio del Tagliatore, non le sembra? È come se fosse stato sottoscritto da qualcuno che ignorava la sua sterilità. Non le è venuto in mente niente di tutto questo, quando ha letto il libro?”
Sono tre ormai i percorsi narrativi da tenere a mente contemporaneamente: quel che si sa o si crede di sapere dell’evento tragico reale, la tragica esecuzione di Quine; la trama che coinvolge i personaggi del manoscritto di Bombyx Mori e quella che si riferisce a una misteriosa versione originale del suddetto romanzo, a cui taluni hanno accennato.
L’ipotetico assassino potrebbe avere rielaborato il tutto, per creare alcuni effetti coincidenti con quello che è successo in realtà. Quest’ipotetico traduttore potrebbe essere l’assassino. O l’assassina.
Giungo ora alla fine della lettura e tutto si è chiarito. Tralascio di commentare quanto la mia opinione sia stata confermata da Strike. Il tacere è in certi casi bello, nonché salutare. Anche se non è sempre facile.
A una velocità che sovente lambisce i 300 km orari mi sto allontanando dalla cogente, come sovente mi capita. Per cui le comunico tramite messaggini che sono giunto al The end della storia (nel frattempo lei è seppellita da un paio di metri di neve raskolnikoviana):
- Alla fine ti è piaciuto?
- Sì.
- Davvero?
- La Rowling è una narratrice super!
- Più o meno di Dostoevskij?
- Mi avvalgo della facoltà di non rispondere…
- Sei il solito!
- Lei scrive in maniera impressionante e al contempo preciso.
- La tua osservazione sui cani era giusta, ma perché non ti sei ricordato che aveva un cane?
- Eh! Forse una lettura troppo velocina?
Leggere è gettare un lazo che non sempre va a bersaglio. Oppure è come lanciare un boomerang, che se torna indietro ti può intercettare la capoccia.
La cogente si ricorda che, a metà lettura, le avevo detto che avevo ipotizzato che un cane poteva divorare le viscere del povero scrittore. Ma la mia era soltanto un’idea come un’altra.
Questo è il fascino della Rowling: giunge alle più grandi complessità partendo dalle cose semplici, costruendo un edificio letterario che serve a dissimulare l’idea iniziale, mezzo adottato da tanti scrittori di thriller, che sanno mostrare per ultimo l’ovvietà di quel che a poche pagine dalla fine pareva pressoché improbabile.
Fantastica è la prestidigitazione di quest’autrice, anche per la sua capacità di entrare nella mente del lettore e di fargli percepire tutti gli aspetti della questione con onesta e savia leggerezza, un dato alla volta, senza alcuna fretta, confondendola con i suoi troppi dati.
È il lettore a cui tocca di finire d’imbrogliare le carte, per seguire un suo percorso intuitivo, anziché tutti quelli immaginabili, fra cui necessariamente è quello che conduce alla soluzione. D’altronde, come si fa a non scegliere autonomamente il proprio colpevole?
Si potrebbe compilare la cronistoria di tutto quel che appare significativo e rileggere le proprie note, senza mai sposare una tesi anziché un’altra, per giungere necessariamente alla certezza finale.
Ma allora tanto vale aspettare le ultime pagine del libro! E condividere gli ultimi sforzi di Strike e alla fine abbracciarlo, dicendogli: Anche stavolta ci siamo riusciti, vecchio mio!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Robert Galbraith, Il baco da seta, Salani editore