“Deserto fiorito” di Antonio Martone: l’anima è una continuità eternamente spezzata
L’ossimoro presente nel titolo mi fa pensare all’etimologia di quella parola: oksỳs e mōros, acuto sciocco, razionale e irrazionale, logica e fantasia.
Antonio Martone insegna filosofia politica presso l’Università di Salerno, ma è anche pittore e, solo ora lo scopro, autore di racconti. Che sia anche lui un ossimoro vivente? Esamino ora i racconti uno a uno, cercando di comprendere quel che li anima.
Cani neri: l’amore al tempo della protesta giovanile. “Il sessantottino si sentiva colpevole anche quando cercava di appartarsi con lei.” lei era un corpo, oltre che una mente, che doveva appartenere, ancor prima che a se stessa, all’Altro. “Con quale diritto toglieva al mondo il corpo di una donna…?”
È una concezione di tipo religioso, che crea il solito dissidio tra un io e ciò che desidera: il tutto oppure un oggetto specifico, quale può essere una splendida ragazza “con i suoi capelli lunghi che giocano sulla fronte, al soffio di ogni parola, con le lunghissime ciglia.”
Una via di mezzo? Forse non è prevista in tempo di rivoluzioni, quando occorre scegliere la propria battaglia.
“L’amava, ne era sicuro, perché l’aveva amata. Il fatto di averla amata una volta, faceva sì che potesse amarla per sempre.”
Sempre/mai è unico schizofrenico avverbio di tempo consentito dall’idealismo. L’idealismo ha un difetto, la sua durata fatalmente limitata, connessa all’energia destinata al suo formarsi che, come tutto, prima o poi si dilegua.
“Il tempo era passato e lui non aveva mai accettato che passasse: questa è la verità.”
Anche la verità è un concetto temporale, che appena si affaccia, subito scolora e disperde la sua forza, svanendo nel Nulla, da cui, presto, si formerà un altro brevissimo concetto che parrà eterno fino a quando non avrà compiuto il suo destino.
La donna idealizzata si scopre incinta e gli espone la sua doxa: “Io credo che il padre sia tu, ma non ne sono sicura.”
Insieme stavano tentando di costruire un mondo che ancora non c’è. Ci sarà mai, poi?
“Lui era un compagno di lotta e lei era una donna libera.”
In un recondito punto del suo cosmo, lui la vede come mai aveva immaginato che potesse diventare: “alcuni cani neri di grossa taglia si contenevano il corpo di quella che era stata la compagna della sua giovinezza.” – che era stata, ma ora il tempo a disposizione era giunto al termine.
Rocco e Reagan: poche cose sono più fraintendibili della parola amicizia, che deriva dal sanscrito kam’a, passione, come anche amore.
Tu, io narrante, racconti di Rocco, il tuo finto amico, l’amico che simula una pur distante intimità con te, sempre presentandosi e negandosi, e che tu ricambi della stessa moneta, anche se talvolta vi mostrate i denti e li digrignate.
Scorgo in voi una volontà di mutua distruzione che non vi fa onore. A lui non gliene frega nulla, dell’onore, ma a te sì, vero?, perché è quello che ti fa scrivere, e perché diversamente saresti da un’altra parte, a succhiare pezzi della vita altrui.
Gli anni sono gli Ottanta, i più disprezzati da tutti, ma che tutti vorrebbero rivivere, perché era facile, allora, sentirsi migliore degli altri.
Esistevano tre miti pieni: “Dio, Padre e Famiglia”, non facilmente sostituibili.
“Il sessantotto combatté una guerra feroce contro questo mondo.”
Quel movimento idealistico e politico non mancava certo di valori, ma peccava in capacità di costruzione. Non difettavano gli ingegneri, come Marcuse e altri, ma erano così distanti e complicati! E c’era “bisogno della droga e dello sballo.”
La beat generation qualche decennio prima aveva propugnato l’allargamento della coscienza, che necessitava di quegli artifici chimici.
“Ad un’assolutizzazione del pieno, era succeduta un’assolutizzazione del vuoto.” – questo è il bello e il macabro della droga, che, per un pur breve tempo, ti toglie di mezzo tutti i problemi, fino a che c’è posto solo per lei.
“Rocco, di questa generazione, costituiva un’interpretazione grigia e incarognita, ma ne era pur sempre un’interpretazione.”
Una frase periodicamente ti gettava in faccia, vuota e piena al contempo, intrisa di invidia accidiosa, “sei un piccolo borghese”. Che significa: non sei né carne, né pesce. Hai poche risorse nella vita e ti dovrai sempre dannare a trovarne di nuove. Sei una semi nullità che non raggiungerà mai un’unità.
Questa è una tua frase che mi spaventa: “Le persone a cui ero stato legato – e Rocco era fra queste – no, non ero stato io ad amarle. Era stato un altro, un altro che non aveva capito con chi avesse realmente a che fare.”
Ti paragoni a Edipo, che era cieco, ma giungi a dire che odi la tua incapacità di “guardare senza sanguinare, e forse perfino con dolcezza, a quell’io tanto sprovveduto che un giorno, sì, eravamo noi.”
Non accettiamo il passato perché non riusciamo a osservare, senza tremare, il presente. Rocco è un caso a sé, “sapeva trovare in chiunque qualcosa di sbagliato da consentirgli di sentirsi moralmente migliore di quel qualcuno.”
Non si rendeva conto che quando cerchi il male nell’Altro, è perché non sopporti il tuo. Quando cessa l’osservazione quel processo, il tuo male di vivere torna a rigirarsi nella tua anima e ad amplificarsi.
“Da ragazzi, scherzando, mi aveva detto che avrebbe preferito andarsene – chissà mai perché – in un giorno festivo di un inverno piovoso.”
Cerco di carpirne il senso. Chi vive una settimana ricca d’impegni, aspetta la domenica per poter pensare alle cose inutili da un punto di vista sociale, uscire, fare una passeggiata, andare in una città d’arte, al mare. Se piove, tutto si ferma. Resti in casa a patire l’ingiustizia meteorologica.
Se per te ogni giorno vale l’altro, una domenica segnata dalle intemperie, ti fa sorridere al solo pensiero di quei disgraziati servi del sistema a cui è stato negato il diritto alla vacanza.
“Rocco fu – come dire? – un anarchico dei poveri. Un anarchico senza idee e senza compagni” – un anarchico onanistico.
“Lottava contro il potere perché era la sua maniera di avvicinarsi al potere.”
Disprezzava quel che non riusciva a raggiungere, come faceva la volpe che non arrivava all’uva.
Ora che Rocco non c’è più, la sua immagine si è stabilita dentro di te, e mai più ti lascerà.
E Reagan, cosa c’entra? Si dice che quegli anni reaganiani fossero improntati a un “liberismo radicale”, dove i poveri e i ricchi aumentavano la loro distanza sociale, così i primi non avrebbero infettati i secondi coi loro problemi. Il bonario ex attore era una figura politica come tante altre, non troppo peggiore né migliore di quelli che l’hanno preceduto e seguito. Forse più cinico, destrorso e rassicurante.
L’ombra della libertà: “Zoe faceva di tutto per impressionarlo e per saldarsi al suo corpo, perché sentiva che non lo aveva preso del tutto.” In quella kam’a di cui si diceva sorge inevitabilmente questa necessità fisica, di unificare l’Altro a sé, più che sé all’Altro.
“In lui, si vedeva ad occhio nudo, c’era un’ombra assai spessa che – lo aveva capito ormai – ben difficilmente avrebbe potuto vincere.”
Si era instaurato un amoroso conflitto fra lei e quell’ombra, in cui era lei a soccombere. Ed era l’ombra a decidere se concederlo a lei, oppure no. E quando sottrarglielo. La follia umana esercita la sua influenza tanto nelle cose minuscole quanto in quelle quasi infinite.
L’amore avrà un suo senso solo se avrà la caratteristica dell’assoluto: “Puoi farti sentire”, se tu lo vuoi, ma solo: “quando vorrai me più del mondo stesso.” Un altro aspetto della demenza passionale: si predilige una parte microscopica e si rigetta il resto.
Kam’a è sempre a tempo determinato e dura lo spazio di un mattino: “Guardò il corpo accattivante di alcune turiste che transitavano da lì e prese atto che la sua libertà era ritornata.” Detto in diverso modo: “Aloisio era diventato di nuovo preda della sua libertà”.
La vita è un mistero egoistico, che si trascorre nella ricerca “di un qualcosa che lo liberasse da quell’insopportabile matrimonio con sé stesso che si sentiva condannato a rispettare finché morte non li avesse separati.” Nella buona e nella cattiva sorte.
Piazza degli eroi: “Quando sono stanco faccio fatica ad addomesticare il mondo.”
Non ti rimane allora che appendere la tua anima ai ricordi. E dopo che avrai abusato di loro, potrai anche dar loro un calcio nel culo, imprecando come si fa con una puttana. Anche se la vera nonché santa meretrice sei tu.
Coi ricordi ci si può divertire a fare il giro del mondo, in un attimo sei su un treno che “nella notte si dirige verso l’Ungheria”. Anzi, fra poco “m’accorgo che stiamo per raggiungere Udine”.
Tuo padre è in agonia, Rossana “si allunga sul comodino accanto e prende l’accendino.”
All’improvviso, la vedi: “Sì, è proprio lei: i capelli neri di Alessia interrompono il blu della notte.”
Tuo padre morente ti chiese, quasi ti ordinò, “Sii felice!”. Fu una condanna a vita: “Da allora, stupidamente, continuo a chiedermi se sono felice.” L’etimo foelix significa contento di sé e delle proprie azioni e realizzazioni.
La psicologa: uno invecchia “quando non si riconosce più nelle immagini, ormai per nulla somiglianti, che lo ritraggono al centro di scene felici…” – invecchiare è non saper riconoscere le tappe del proprio percorso esistenziale, del proprio invariato cambiamento.
La morte di Rachele, la donna che ami, a causa di un incidente stradale, ti può far abbandonare ogni sorta di fede. Tutto diventa dubbio e pericolante. Beniamino incontra Angela, psicologa che l’aiuta, come può, a ritrovare un equilibrio. Fino a che la sua energia cesserà, come tutto ‘n coppa a ‘sta terra. Te lo dice senza alcuna reticenza, ma tu non riesci a esserle grato per tanta sincerità.
Beniamino, su!, ora esci e va’ a raggiungere la tua Rachele. Ohhhh! Sdeng! Ahhhh!
E tutto finisce per te. Non per Angela che riprenderà, già da domani, “ad ascoltare, attentamente e con grande pazienza” le anime che la sua professione le permetterà di scandagliare.
Lettere d’amore: la lontananza, facendoti soffrire, ti rende a volte felice. Due giovani che si amano si devono separare. Lui deve salpare su una nave che lo condurrà in un luogo lontano dove potrà cercare quella fortuna che a volte basta cercarla per non trovarla.
“… il ricordo era per lei refrigerio nelle giornate più calde ed era calore quando la neve cancellava i calori.” – Nulla, più di kam’a, sa armonizzare gli opposti.
“Un giorno gli parve di sentirne la voce” – la sua solitudine si amplificò fino a scoppiare, producendo una strana forma di energia. E, all’improvviso, “davanti ai suoi occhi apparvero segni bizzarri impressi su stropicciati pezzi di carta. Si innamorò di quei simboli…”, grazie ai quali la distanza fra i due cuori sembrò quasi annullarsi.
“Aveva imparato a scrivere! Aveva finalmente imparato!”
Cominciò a scriverle delle lettere e continuò a farlo finché non poté finalmente tornare da lei.
Gli anni passarono… felici? Esiste domanda più assurdamente essenziale? Già nel porla, ci si accorge che non vi sarà risposta e che però essa sarà data.
“Sul loro volto era caduta, inesorabile, quella polvere antica che gli esseri umani chiamano tempo.” Finché un giorno come tutti gli altri l’immagine di lei fu sepolta per sempre.
“Stavolta era lei, era lei che doveva partire” ed era lui ch’era rimasto ad aspettarla.
“L’indomani, il suo volto era sorridente e sembrava sereno: nessuno seppe mai vedere il dolore che teneva stretto nel cuore.”
Finché, un altro giorno uguale a tutti gli altri “la solitudine lo prese più forte alla gola.”
E ancora sentì il bisogno “d’imparare un nuovo alfabeto. Per mesi, all’insaputa di tutti, quel vecchio si strinse nel silenzio più intimo.” Era la sua nuova forma di scrittura, l’unica che, tanto leggera, poteva volare in alto, fino a lei.
Lo spettro di Martina: lei, Martina, lascia lui, Santiago, per Cosimo, il suo amico più caro, ma cosa c’è di più insolitamente banale?
C’è differenza fra la sofferenza che prova un giovane nel fulgore della sua giovinezza e quella in cui incorre un anziano nel grigiore della sua anzianità? Dipende, mi pare, da come ci si sente in quel momento, l’età psicologica intendo.
Il primo la ritiene un’ingiustizia imperdonabile, il secondo una logica conseguenza del decadimento, “quando la speranza è quasi de tutto oscurata dalla nostalgia del passato e non ci sono più orizzonti che possano aprirsi.”
Non si possono nemmeno chiudersi, rimangono così, come un cancello difettoso che rimane sospeso a metà.
Interessante questione: “… l’amore è un sentimento assoluto! Non ci si innamora per passare il tempo. Non lo si fa per fare sesso. Il sesso è un’attività che per alcuni può essere ricreativa. L’amore no. Ricreativo non lo è affatto. L’amore è piuttosto creativo. Creativo di una nostra immagine del mondo e di un nostro posto nel mondo.”
L’amore dà l’illusione della felicità: ti pare, quando sei innamorato, di essere in grado, come un dio, di produrre il miracolo che è in grado di trarre dal Nulla qualcosa che prima, senza di voi due, non esisteva. L’ennesima lucida follia!
La fine di un amore ha una funzione dispersiva: si libera l’energia accumulata di cui non si sa più che fare.
“Martina, a quanto pare, grazie alla sua assenza, aveva saputo trasformare un sedentario in un nomade, costantemente inquieto e desideroso di novità.”
Buon viaggio, caro. Mi raccomando, non mandare cartoline, ché prima o poi mi trasferirò anch’io colà.
Il viaggiatore: chi non lo è stato, non lo sarà, non lo è in ogni momento della sua esistenza?
Sei infermo a letto, ed ecco che scopri che la tua è una fissità rapida, in quanto la Terra, il sistema solare e l’intera via Lattea ti sta conducendo dove non si sa, forse alla morte cosmica, conseguenza inevitabile secondo principio della termodinamica. Ma si tratta di un’inevitabilità evitabile, se a vincere sarà la tendenza a riunificare e a singolarizzare la pluralità, in modo da ridurre il tutto in un punto cosmico immensamente piccirillo.
Non mi va ora di saltare come una bertuccia in cattedra e di discettare di Giordano Bruno e dei multiversi di Hugh Everett III. Mi limito a dire che questi ultimi complicano il discorso enormemente, anzi, infinitamente. Però sarebbe bello che in un altro cosmo Antonio Martone si divertisse a reagire a una mia silloge di racconti come io sto facendo con la sua!
Questo è il racconto più assurdo della raccolta. Che poi non è del tutto vero che lo sia. Nulla è del tutto vero, nulla è del tutto illusorio.
Il viaggiatore incontra la donna più amichevole e solidale della sua storia, anche della mia, e nulla va male e bene, e tutto va bene e male. Questa kam’a! Se non ci fosse, bisognerebbe inventarla, però, se potessi, mi appassionerei ad ammazzare il suo inventore. Se fossi io quel tanghero, forse mi suiciderei.
“Il golfo è sempre al suo posto, incastrato da secoli in quell’angolo di mondo. Vi rimarrà anche quando il viaggiatore e la donna non saranno più a Artasidddh e anche quando ambedue saranno morti…”
E vi saranno anche quando esisterà tutt’altro di quel che v’è oggi, ma composto da tutto quello che c’è oggi: panta rei. Anche, alla lunga, il golfo stesso.
Una volta a Reggio Emilia c’era l’oceano. Una disgraziata balena, che è stata chiamata non so perché Valentina (invece lo so: fu ritrovata nell’abitato di San Valentino, a Castellarano), si arenò in un luogo arcano che divenne visibile nel 1997, ed è ora gentile ospite ai musei civici della città.
“Forse su altri universi, entro una delle infinite galassie, invece, l’abbraccio fra il viaggiatore e la donna è sempre l’abbraccio fra il viaggiatore e la donna.”
Me l’hai strappata anche se proprio, ti giuro, non volevo, l’ormai sempre nuova e sempre stanchevole citazione di Keats: A thing of beauty is a joy for ever!
Tót à fîn, tutto compie il suo giro dell’oca e, tornato al punto d’inizio, sancisce il termine della propria esistenza.
Ora, avverbio metafisico, “la donna del treno, la Samira rediviva, era sparita dalla stanza e lui si ritrovò con un immenso desiderio insoddisfatto. Ancora una volta fu solo con la sua mente. Col suo tormentoso passato e il suo incerto futuro.” Incerto per lui o per il futuro stesso?
“La sua forza vitale si sciolse e lui scivolò in quella dimensione maledetta che tante volte lo aveva risucchiato nei suoi vortici: gli sembrò di essere diventato uno dei rifiuti prodotti dall’infinito dei mondi, dai mondi infiniti.”
Múndus in latino è l’ornamento, ma di che, non certo di noi scimmiette, non solo di noi. Anche di noi?
“Gli fu chiaro che tutti i suoi sforzi vitali erano stati soltanto movimenti per giungere in quel punto. Quella dimensione – quanto gli era chiara ora – costituiva la sua origine e il suo destino.”
Al Fato, stabilito dall’origine dei tempi, nessuno può ribellarsi, nemmeno gli Dèi. Il Destino è una chiara invenzione umana (anche per il Fato è lecito avere dei dubbi), che consente la possibilità di una minima influenza personale, il che appare logico. Se tutto mi condiziona, io che sono una parte del tutto, lo condiziono.
“In un solo istante, percepì i colori di tutte le stagioni della sua vita. Nella sua mente si ritrovarono”:
- “tutte le frasi d’amore che aveva pronunciato”
- “tutte le stanze d’albergo in cui aveva soggiornato”
- “le case in cui aveva vissuto e così pure i campi”
- “i boschi, le montagne, le città, i pomeriggi, le sere, le notti e tutti i mattini”
Ormai solo, “visse l’istante più felice della sua vita: divenne consapevole che la sua esistenza era stata perfetta come un’opera d’arte dipinta da Dio.”
La morte è sempre l’ultimo nostro atto ri-produttivo.
“In quello stesso momento il viaggiatore smise di viaggiare!”
Lo specchio del tempo: “Quando si cresce il tempo trascorre piano ma quando si invecchia va fortissimo!” – grande notizia! Significa che sto ancora crescendo!
Antonio, non so se ricordi quell’episodio di Star Trek in cui Kirk e Spock s’imbatterono in una strana genia di esseri, in cui gli anziani erano bambini e viceversa.
“In città avevo messo su una fabbrica di cornici…” – chiusa per la crisi, ovviamente. Come disse una volta un tanghero di cui è virtuoso scordare per sempre il nome, con la cultura non si mangia.
“Non c’era neppure un centimetro di quello spazio che non mi ricordasse qualcosa! Rividi la mia stanza da piccolo. Proprio in quel lettino, il mio cuore…” – sì, non temere, è proprio “lo stesso cuore che ho ancora nel petto!”
In La stanza dei coralli, Valeria Munari scrive che la memoria è puttana ma salvifica. Da cosa ci può salvare, se non da noi stessi?
Torni in paese, incontri una tua vecchia fiamma e dopo un po’ di conversazione “le feci volare sulla testa i petali di rosa che m’erano rimasti nelle tasche. Quelli però s’erano raggrumati a causa del sudore, diventando duri come pietre.”
L’ormai sfatta Aurora “mi insultò duramente lasciandomi attonito e avvilito.” Tira innanzi, guaglio’!
Tornato nella casetta, “passai davanti allo specchio grande, vidi apparire la mia immagine riflessa.” e scorgi “un uomo che mi somigliava ma trent’anni più giovane. Non c’erano dubbi, ero io da ragazzo. Accanto a lui scorsi l’ombra di un uomo anziano che pure mi somigliava, ma trent’anni più vecchio.” Tre te stessi, di cui solo uno esterno allo specchio.
“Volevo raccogliere le tre figure…”
“Avrei voluto strappare quelle tre generazioni alla necessità di vivere…”
“Volevo impedire a quel ragazzo di…”
“Volevo sottrarre a quel vecchio il rimpianto degli…”
“Volevo evitare a me di…”
“Avrei voluto qualcosa che non poteva essere…”
Smettila di volere e tutto si appiana.
“… precipitai nel delirio…”, ricordati che nel delirium tremens stat veritas,
“Accadde così che la scena dello specchio si animò” – diffida del movimento immoto, è lì che si nasconde l’illusione…
“Il mio sguardo sconvolto vide il vecchio alzarsi e andare incontro al ragazzo…”
Basta farsi una canna e le cose iniziano ad agitarsi. Non accade invece il contrario, che qualcosa che sta scorrendo s’immobilizzi all’improvviso. Non so però se tu hai più esperienza di me.
Mi preoccupa il giovane che “rimaneva impassibile: fissava un punto imprecisabile. Sembrava guardasse nel più profondo del vuoto.”
Il vecchio riuscì nel suo intento, abbracciò il ragazzo, che “si andava dissolvendo fino a sparire dallo specchio”. Il vecchio presto lo imitò. Quando una particella s’imbatte nella sua omologa antimaterica, entrambe si elidono, svanendo, producendo un’energia istantanea.
Arlette: “I due genitori di Arlette” vivevano in una metropoli, in cui “percepivano gli accadimenti e le distrazioni della città come una forza che li portava via dall’intimità con se stessi.”
Si trasferirono in campagna, dove “Arlette si trovava assai bene”. I due genitori stavano bene da morire, purtroppo assai presto, lasciando Arlette sola.
La solitudine, come l’affollamento, ti può rovinare la vita oppure salvarla, dipende da tante cose.
La ragazzetta era interessata da tutto quel che si muoveva, anche delle corse ferme forse.
“Ciò che colpiva di più Arlette, tuttavia, era il rumore del vento: somigliava al lamento ininterrotto di un animale selvaggio.” Arlette, ha mai sentito la sigaróla?, quel fischiare simile al rumore della sega o al pianto di una creatura (sighêr in arşân significa sia cigolare che piangere).
“Un pianto consolatore proruppe dal più profondo del suo cuore: si affidò ad esso come ci si affida ad un affetto che si credeva perduto e che si riabbraccia intatto dopo tanto tempo. Con quel pianto, la fanciulla ritrovò in sé la gioia di abbandonarsi al mondo con fiducia…” I dolori felici sono alacri produttori di kam’a.
Cominciò a trascrivere una ricetta e… la scrittura ha a volte, ma solo nel più felice dei casi, un effetto compulsivo. “Doveva scrivere. Doveva scrivere ancora. Questa volta però, non più la ricetta del dolce, ma l’esperienza vissuta nel corso della preparazione.” Si comincia con piccole dosi di scrittura, le si incrementa a piacere e poi non è mai finita.
“Fu un’esperienza intensissima: capì subito come quella scrittura non riguardasse soltanto lei, ma che avesse a che fare…” – la congiunzione ma può condurti dappertutto, oppure bloccarti dove sei sei, e non liberarti più. Queste sono la condizione dello scrittore, essere un navigatore immobile.
Ci si agita dormendo, inseguendo i sogni, che anch’essi ti serviranno nel produrre le nuove scritture.
“Per anni, Arlette visse in simbiosi con la scrittura: ormai, nessuna delle due poteva fare a meno dell’altra.” Se non è kam’a questa!
“Quando riusciva a nominare ciò che le faceva paura e ciò che la ghermiva si mutava in simboli e parole, le sembrava di guardare in faccia il segreto del mondo…”
Nell’attimo in cui si raggiunge l’acme della passione, essa non può che scemare e ridursi al quasi nulla, da cui era scaturita.
La vita è bella perché quel che oggi è forte, domani s’indebolisce inevitabilmente. E accade anche il contrario, ma è più difficile. Esiste sempre quel principio che prevede il disordine cosmico, con l’azzeramento della temperatura di ogni particella, il disperdere infinito dell’energia. Non ne esistono di opposti, in cui tutto si riunifica. Oppure sì.
Il cosmo è nato da un Big Bang che, creando lo spazio, diffonde la materia. Potrebbe un giorno iniziare il suo opposto, il Big Crunch, per cui tutto ritornerà all’unità originaria. Chi non vivrà non vedrà. Altri vedranno per lui. Poi tutti gli occhi spariranno, insieme a tutto il resto.
Mio zio Mario era un grande e arguto chiacchierone. A una certa età non smise d’intendere, ma di parlare. Se gli dicevi qualcosa, ti sorrideva, facendoti capire che aveva inteso il senso delle tue parole, ma egli non volle più aprire bocca fino al giorno della sua morte.
Arlette, a poco a poco, cessò di scrivere.
“La scrittura era un mago”, un vecchio, stanco e svogliato. Voglioso di andarsene. Arlette seguì il suo esempio, ma solo dopo un po’
L’autore ci regala a questo punto uno dei più bei raggruppamenti di frasi di tutto il libro, che non oso trascrivere. Mi limito a dire che ogni tanto immagino di essere a qualche centinaio di chilometri di distanza, nel Cilento e a sognare di spiare l’orto che sta sotto al balcone e a immaginarmi il dialogo che c’è fra le piante e i sassi: chissà dove saranno quei disumani umani, che una volta si facevano vedere anche d’inverno, ora solo d’estate e nei due mesi più caldi!
Le foto del paese antico: il racconto che meno ho gradito, non so perché, forse è quello che mi ha più intristito. Scritto come gli altri, in modo serrato e nudo, ricco di sfumature e povero di fronzoli. Non ne vorrei parlare nemmeno. Ma lo faccio.
Si tratta di un sogno reale e di una realtà sognata, non meno vissuta di quello che accade al sogno stesso. Qualunque sia il disastro onirico raccontato, a me intriga la ragione del suo formarsi e svilupparsi.
Una coppia è sposata nella realtà. Una coppia è sposata nel sogno.
Lo sposo della realtà dice: “… in una di quelle case, fra cianfrusaglie e rottami di ogni genere, ho trovato anche due foglie tagliuzzate da un vecchio giornale ingiallito. Dovrei averle ancora in tasca.”
La moglie gli risponde qualcosa e, chiarendolo, rende ancor più oscuro il discorso.
Il messaggio del vento: “Era sempre stato affascinato dall’aria che si muove impetuosamente. In modo particolare dal soffio gelato d’inverno che urla nella notte, che s’infrange sui vetri delle finestre e penetra attraverso i camini.”
Un uomo, proveniente da chissà dove, forse “del Nord”, sceglie di esistere in un altro. Questo reca l’ombra del sospetto. Perché, ci si chiede. Come se le terre e i paesi ci dovessero possedere a vita.
“In verità, non era sempre certo della sua missione. In alcuni momenti dubitava che il messaggero dovesse essere il vento. Forse avrebbe dovuto recarsi in un’altra città, dove qualcuno gli avrebbe fornito degli indizi da elaborare…”. Finché lo si fa, ci si sente a proprio agio, perché si sta esaminando la vita con lo sguardo di chi sa cosa analizzare, verificare, confrontare…
“Quando l’incertezza diventava disperazione, la stanchezza gli mordeva i polpacci e la paura gli rendeva le gambe pesanti.”
La soluzione a tutto ciò è fermarsi e meditare, ma non si è sempre disposti a tanta saggezza.
“Di solito però, i momenti cupi non duravano molto…”
E il messaggio finalmente arrivò.
“Un rigattiere che veniva da fuori si appropriò delle sue cose e le andò a vendere nei mercatini di altri paesi.”
Qual è la più grande qualità di Antonio Martone narratore: il coraggio pudico.
Qual è il suo più grande difetto: la sua complessa semplicità.
A volte sono proprio i fatali difetti che ci allungano la vita.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Antonio Martone, Deserto fiorito, De Frede Editore, 2020