“Il corrispondente misterioso” di Marcel Proust: alla ricerca dell’anima perduta
Si tratta di una raccolta di nove novelle del grande autore francese, portate alla luce trent’anni dopo la sua morte, e pubblicate in Francia solo nel 2019.

In alcune di esse si adombra un segreto che Proust custodiva dentro di sé. Le novelle, alcune delle quali ispirarono la sua opera successiva, in comune hanno l’aerea ellitticità.
Pauline de S.: amo lo spirito consapevole di Pauline che, pressoché moritura, “sapeva anche che fino all’ultimo mese e salvo imprevisti sempre possibili avrebbe conservato la presenza di spirito e persino una certa attività fisica.”
È sempre bene riservarsi un margine d’imprevedibilità, che non guasta mai. Anche la salvezza è imprevedibile. Solo la speranza non lo è.
Chi assiste al lento degrado altrui, ha tutto il tempo di non riuscire “a prendere sonno”. E scorge che i lineamenti della moritura (e chi non lo è, poi?) “avevano conservato la loro espressione irridente.”
Strano ipotizzare la sua come “una posa, una maschera” oppure se “una parte della sua vita che mi nascondeva non fosse ciò che avrebbe dovuto essere.”
Risultò poi, forse, trattarsi “di un indurimento, di un’aberrazione unica”. Che sia più saggio meditare “sulla morte per lasciare degnamente la vita”?
Marcel, cos’è rimasto del tuo pensiero? Non solo questa scrittura, rivenuta per caso negli anni ‘50.
Il corrispondente misterioso: Françoise riceve una strana missiva: “Signora, è da tempo che vi amo ma non posso né dirvelo né non dirvelo.” – a questo punto, seppur di poco, è giusto tentare di non dirlo, scrivendo frasi sconnesse del tipo: voglio calmare la mia brama di voi, scrivendovi che non riesco a calmare la mia brama per voi.
“È il vostro corpo che voglio e non potendolo avere, nella mia disperazione e nella mia frenesia scrivo questa lettera per calmarmi, così come si accartoccia un foglio mentre si aspetta, come si incide un nome sulla corteccia di un albero, come si grida un nome nel vento o sul mare.”
Christiane, amica di Françoise è, come quella Pauline, moritura. Nel momento del congedo dalla vita le passioni diventano temerarie, poiché l’unico giudizio che si teme è quello dell’amato bene.
Pare sacrosanto a Françoise porre il quesito al prete di fiducia: “Padre, se un uomo morisse d’amore per una donna, che appartiene a un’altra [sic] e che lui avesse avuto la virtù di non cercare di sedurre, se soltanto l’amore di quella donna potesse salvarlo da una morte imminente e certa, lei sarebbe scusabile se glielo offrisse?”
Il ragionamento è capzioso e non ammette che la successiva domanda: “Come avete potuto non rispondervi da sola”. Tradotto significa: no, il sacrificio è un dono ambito da qualunque Dio, e il nostro non fa eccezione.
Chiunque ha la sua storia ir-rispettabile, che tende a evaporare, presto o tardi, insieme a noi: “… prima di essersi decisa per la virtù, all’età delle incertezze aveva una spiccata predilezione per i militari.”
Ricordo di un capitano: “Quei luoghi restano per sempre rivestiti nel piccolo mondo delle mie immaginazioni di una grande dolcezza, di una grande bellezza.”
Nel mio riviverli “all’improvviso li scorgo, come alla svolta di un sentiero in salita si scorgono in salita si scorgono un paesino, una chiesa, un boschetto, nella luce melodiosa della sera.”
Di buono c’è che non parlano mai, ma emettono suoni, il che è diverso, e il tradurli non costa fatica, perché sono soliti, pre-udibili, eterni.
“… il mio allegro cuore di allora è in quel giardinetto soleggiato, nel cortile della caserma lontana eppure così vicina, così stranamente vicina a me, così dentro di me, eppure così fuori di me, così impossibile da raggiungere.” – da identificare, da attestare, da catalogare.
“Non rivedo più con molta chiarezza…” – concetto che non è di questo mondo.
“… il suo viso, ma era alto, un po’ magro con un che di incantevolmente delicato e dolce negli occhi e nella bocca.” – tutto era così squisitamente a me relativo.
“Esercitò su di me una seduzione così misteriosa…” – che non occorre affatto misurare: è della misura corretta, adeguata.
“… e presi a fare attenzione alle mie parole e ai miei gesti…” – che appena occorsi diventavano i suoi.
“… cercando di piacergli e di dire cose un po’ degne di ammirazione…” – di attrarre mentre sono avvolto dalla sua attrazione…
“… o per il garbo, o per la grande gentilezza o dignità.” – i gradi di libertà che ti consentono l’interazione.
“Ovviamente non l’ho mai rivisto e non lo rivedrò mai.” – ma confido che sarà in te per l’eternità dei tuoi e dei vostri giorni.
Lo straniero: “Perché Jacques Lefelde torna ogni giorno allo stesso luogo? Perché un bel giorno la sua tristezza si trasforma in gioia? Il manoscritto si interrompe prima di dare una risposta.”
Così si lamenta il curatore. Non io, perché non ne ho il diritto. Che diritto ho io, ha Luc Fraisse di sapere?
“… mi vide e si voltò subito dall’altra parte e affrettò il passo” – egli ha un animo dolcissimo e cortese, allora perché? “Tutti i giorni incontrai Jacques Lefelde, tutti i giorni lui mi evitò.”
Un bel dì accetta di essere accompagnato, poi ti dice: “Ma mi lascerete all’ingresso del lago, vero? perché ho bisogno di stare solo.”
Egli è innamorato, di chi, di nessuno! Di cosa: del lago!
“Per quindici giorni ne sono stato davvero innamorato. Non sapevo che strada prendere per non incontrare qualche conoscente perché quando non ero da solo, non mi diceva nulla. E il giorno in cui mi avete portato qui era quello della mia partenza.” Più chiaro di così!
“… nulla poteva eguagliare l’esaltazione malinconica che provavo in riva a quelle belle acque di cui ero innamorato e dove quella sera il cielo riposava così triste fra i cigni e…”
Un momento! Perché doveva essere da solo? Forse perché lui solo era la particella che intendeva specchiarsi in se stessa, per sentirsi ancora tale e non solo onda, ma quello che non è più nulla, mera trasformazione di un antico sogno che recherà a un brusco risveglio.
Il destino di due innamorati prevede l’assenza del resto del cosmo. Diversamente tutto quel che importa perde il suo senso.

Agli inferi: Socrate, “quel Maestro, che amò la Giustizia al punto di morire per lei, e per così dire darla in tal mondo la luce, tollerava senza malumore che tra i suoi più intimi amici quelle pratiche oggi vetuste.” C’è chi assicura che il martire di Alopece fosse omosessuale non praticante, come molti cristiani di oggi. Ma chi se ne importa!
“… l’amore come lo concepivano gli antichi era indiscutibilmente una malattia. Come assimilare perciò quelle usanze a un vizio.” – come se fosse un difetto cardiaco.
“Quasi tutti i poeti sono dei pazzi” – quel quasi m’inquieta.
“Sono dei malati dicono i medici, personaggi evidentemente sopravvalutati tra i quali annovero…” – ti prego, non dire a nessuno che lo sono anch’io. Quando sarò pronto, farò outing…
Sai cosa penso? Che ogni uomo possa essere filosofo o poeta. E che ognuno sia omosessuale, poco o tanto, ed eterosessuale, poco o tanto. Si cerca nell’altro l’uguale e il diverso. Quanti si sono coniugati con un essere del tutto difforme da sé, o perfettamente equivalente? Non esisterebbe nessuno di quella specie. Se fossero totalmente uguali si respingerebbero, se fossero uguali si fonderebbero, per poi annichilirsi, producendo energia.
Dopo l’ottava sinfonia di Beethoven: “Sentiamo talvolta la bellezza di una donna, la gentilezza o la singolarità di un uomo, la generosità di una circostanza, prometterci la Grazia.”
Si tratta, secondo la comune aspettativa, di un’onda d’amore che mai finirà di sgorgare dentro di noi. L’attestiamo e in quell’attimo l’energia inizierà a svanire: diventando particella, corpo, materia da riciclare.
“Vi è però un regno di questo mondo dove Dio ha voluto che la Grazia mantenesse le promesse che ci faceva, discendesse fino a giocare con il nostro sogno, e lo elevasse fino a guidarlo, assumendo la sua forma e dandogli la sua gioia, mutevole e non afferrabile…” – e lì si cela l’inganno, il cercare il contatto, quello che t’annulla il sogno e ti denuda la speranza.
Non si riesce a convivere con l’incorporeo, perché siamo grevi dalla nascita e c’è chi lo chiama peccato originale, che forse nemmeno Cristo in croce potrà riscattare.
Possiamo sempre avere la fede in quel che non esiste, ché esistendo porre fine a sé.
“Conosciamo in questo corpo esatto, delizioso e sottile il gioco di quelle pure essenze. È l’anima rivestita di suono, o piuttosto la migrazione dell’anima attraverso i suoni, è la musica…” – che muove le stelle e noi intorno a esse.
La consapevolezza di amarla: “… Che lei mi ami o che io non l’ami più. Ma una cosa non è possibile e l’altra non la voglio. Fa brillare sulle mie lacrime una luce come nei primi giorni.”
Tutti ti vedono solo come un uomo, e non scorgono quella “specie di gatto-scoiattolo ricoperto da una pelliccia bianca” che giace sonnacchioso ai tuoi piedi.
“Caro amabile animale silenzioso, quanto mi avete tenuto compagnia durante questa vita che avete misteriosamente e malinconicamente adornato.”
Ognuno ha il suo angelo custode, il tuo mi pare non meno peloso e squittente del mio.
Il dono delle fate: “Spesso nel nostro intimo senza che neppure lo sappiamo giace un dono incantevole.” – immobile, ma non inerte.
“E bisogna che un buon genio illumini la parte dell’anima dov’è nascosto, e ce lo mostri, ci insegni il suo potere.”
Fin qui tutto facile. Chi di noi non ha a disposizione un essere magico che sia in grado di creare la luce assoluta?
Chiunque ce l’ha. Ma risente degli effetti del secondo principio della termodinamica. Tutto ha fine, anche il genio. E occorre procurarsene uno nuovo di zecca che ricrei quel che è andato svanendo nel nulla.
Una fata ti dona “la bellezza, il coraggio, la dolcezza.”
Un’altra ti consolerà delle amarezze che la vita ti riserva: “poiché i più lievi rimproveri, un po’ di indifferenza o di ironia ti faranno spesso soffrire.” Sarà “la fata delle sensibilità incomprese.”
Se la tua creazione fosse gradita significherebbe che non è tua, ma è già da tempo operante nel mondo. Ed è il tempo che tu stai sfidando, è il mondo stesso.
Chi non ha recato dolore al prossimo scagli la sua anima contro il muro e ne faccia scempio.
“Ecco i tristi doni che ti porto, che non ero libera di non portarti, e che purtroppo non puoi gettare via, facendoli a pezzi, che saranno i cupi emblemi della tua vita fino alla morte.”
E uscirà “colei che non esiste ancora ma che nascerà dai tuoi dolori incompresi, dai tuoi affetti misconosciuti, dalla sofferenza del tuo corpo.”
Le fate spariranno, e rimarranno, se lo vorrai. Ne avrai sempre bisogno, oppure mai. Non servono a nulla, ma partecipano a tutto. Dimenticale, se puoi, senza obliarle, se riesci.
“Era così che aveva amato…”: “… e sofferto ovunque su questa terra e Dio mutava tanto spesso il suo cuore che lui stentava a ricordare a causa di chi avesse sofferto e dove avesse amato.”
Un sogno? O forse ognuno delinea il Dio a propria immagine e somiglianza?
Il Dio della diversità, dell’alternanza di luce e ombra, un Essere mutevole e immoto, che t’accoglie presso di sé perché come te è sperduto nel Caos.
Dio “aveva messo in lui il dono del canto e non voleva che il dolore lo annientasse.”
Che legittima ogni fuga per altri più salvifici lidi, ogni tradimento che ti conceda un riparo dal freddo che sta per ghermirti. Ogni tradimento è salvifico, se serve a farti cantare.

In Alle fonti della Ricerca del Tempo Perduto, Luc Fraisse fornisce importanti rivelazioni sulla genesi e sulla prima edizioni della Recherche.
La volonté de métamorphose, opera di Joseph Baruzi non è sconosciuta a Proust e gli permette di chiarire la sua conoscenza dell’opera di Schopenhauer, di cui non accetterà mai il concetto “di Volontà, secondo cui in ciascuna mente si individualizza una forza vitale globale.”
Proust rimarrà sempre un grande e unico individualista. Il mondo emanerà da lui, e non il contrario.
In tale opera Baruzi cita la “memoria involontaria” che, secondo il filosofo tedesco, favorisce la nascita della maggiore opera proustiana, quella che è sepolta dalla memoria cosciente e che, riemergendo, fa rivivere quel che si era apparentemente dimenticato. Io preferirei definirla casuale e caotica, nonché appena un po’ volontaria.
Dentro di noi si scoprono degli abissi in cui è lecito precipitare se si vuol un giorno riemergere con qualche striscia rattoppata e manomessa di Verità, che ci donerà un attimo di salvifica gaiezza, che è necessariamente uno dei fini della creazione.
Un altro sarebbe la sopravvivenza: “Morire? Ma questa idea stessa che sto per mettere nel libro dove rimarrà, non è forse una parte di me? Quindi questa parte non morrà.” – così Marcel scriveva in “un abbozzo destinato alla conclusione de Il tempo ritrovato.”
Interessante e, in qualche modo, acuminata l’informazione che “fu dopo la morte di Proust che il ciclo romanzesco venne ricomposto nei sette volumi corrispondenti ai titoli…”
Mi pare che alla fine rientri nella normalità del cosmo, ove tutto è soggetto alla trasformazione, anche la volontà di un genio.
“… Proust sarebbe stato costretto da Bernard Grasset ad amputare di circa duecento pagine il primo volume, Dalla parte di Swann, perché mantenesse dimensioni accettabili.”
Questo avvenne con la piena e ignora quanto spontanea condivisione dell’autore, che in una lettera “datata 12 luglio 1913”, scrisse: “… in base a ciò che mi è stato detto per telefono, adottate la soluzione di 3 libri di 500 pagine.”
Motivo di questo bailamme, Gaston Gallimard lo scrive in una lettera indirizzata a Robert Proust, fratello di Marcel, per cui è: “… ragionevole e conforme ai desideri dell’autore tornare a un’edizione più razionale. Molti lettori si lamentano di non poter mettere in mano a chiunque un libro che altrimenti lo permetterebbe. Ne risulta una complicazione riguardo ai titoli che crea una certa confusione e nuoce alle vendite.”
Pertanto “il frazionamento di Sodoma e Gomorra fra il seguito di La parte di Guermantes e i tre volumi dell’anno successivo non risponde necessariamente a un progetto estetico ragionato, da parte di Proust, come talvolta si è sostenuto…”
Dalla nube dove Marcel continua a tenerci d’occhio, forse scuote il capo, oppure no.
Totò, che gli è appresso, strizzandogli l’occhio, lo rassicura dicendogli: “Nun te preoccupà, Marce’, ch’è la somma che fa il totale…”
Non ho però capito che fine abbiano fatto quelle duecento pagine! Quante se ne sono salvate?!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Marcel Proust, Il corrispondente misterioso, Garzanti, 2021