Meditazioni Metafisiche #35: Buddhità, illuminazione, l’apertura del Terzo occhio
Secondo le filosofie indiane l’uomo, prima di incarnarsi, sceglie di apprendere durante la futura vita alcune lezioni. Quando nascerà da donna, la sua parte divina, consapevole del progetto di vita, organizzerà assieme alle parti divine delle altre persone tutte quelle esperienze necessarie all’apprendimento di queste lezioni.
In linea con questo pensiero, possiamo dire che la nostra vita sulla terra corrisponde a un grande progetto per conoscere alcune cose, ma soprattutto noi stessi. È il concetto indiano di atma-vidya. Prima di tutto la parte non divina o inferiore dell’uomo si pone in ricerca, cioè si domanda: Chi sono io? Nelle filosofie indiane tale domanda è detta atma-vicara. Quindi inizia la ricerca. In tutto ciò che facciamo l’io inferiore cerca se stesso e finirà con il trovarlo solo quando si ricongiungerà con la propria parte divina o io superiore. Pertanto possiamo dire che tutto nella nostra vita serve al ricongiungimento tra io inferiore e io superiore attraverso una conoscenza profonda di noi stessi. Vale a dire quando, attraverso le esperienze, avremo capito chi noi siamo. Chi è l’io inferiore? Deve capire di essere uguale all’io superiore. Questa identità è la divinità che è l’uomo stesso. È questa la buddhità o illuminazione, l’apertura del Terzo Occhio. La risurrezione del Cristo Interiore. Secondo le correnti spirituali, Cristo non è un uomo storicamente esistito ma il simbolo dell’uomo in quanto tale che raggiunge la perfezione, cioè la reintegrazione nella divinità. Carl Gustav Jung, che si era fatto portavoce delle grandi correnti spirituali dell’umanità, diceva che chi guarda fuori sogna, mentre chi guarda dentro si sveglia.
L’uomo deve scoprirsi uguale a Dio. I grandi saggi dell’umanità insegnano che la divinità non sta fuori di noi, ma siamo noi stessi, anche se l’io inferiore non se ne ravvede per il momento. Quindi la nostra vera realizzazione sta nella conoscenza non di qualcosa di nuovo ma di ciò che è sempre stato. Non si tratta di aggiungere qualcosa, ma di rimuovere l’ignoranza (avidya). La massima ignoranza è credere che le cose siano molteplici, invece tutto è Unico (advaita), c’è un solo Tutto.
Quando scordiamo la nostra natura divina, relegando nell’inconsapevolezza il nostro io superiore, iniziamo a soffrire. Per le filosofie indiane la sofferenza nasce dalla identificazione dell’io inferiore con aspetti che non sono veramente noi stessi.
Lo stesso universo tutto – dei, angeli, uomini, animali, piante, oggetti – ha una natura divina, della quale non sa sempre, anche se ha una sorta di consapevolezza non cosciente. L’universo è in toto un grande Essere che si evolve e, per la concezione ciclica del tempo tipica dell’India, passa dei cicli, delle andate e dei ritorni: prima tutto vive (veglia di Brahma), poi c’è una pausa (sonno di Brahma), quindi di nuovo passa alla veglia.
Alla fine della dissoluzione di tutti i mondi, alla fine della creazione, Shiva danzerà la sua danza. Alla prima danza aveva creato i mondi, alla seconda li annienterà facendoli rientrare nel non essere. Shiva è una divinità contraddittoria nel pantheon indiano, essa infatti sembra conciliare gli opposti, quindi Shiva è anche il dio degli asceti. L’asceta, infatti, concilia materia e spirito: vive in questo mondo materiale ma in una dimensione spirituale più trascendente.
Shiva probabilmente è una divinità antichissima, deriva dalla civiltà della Valle dell’Indo: di quell’età sono alcuni sigilli con la sua raffigurazione. All’arrivo degli indoeuropei, cioè gli arii, che fondarono il periodo vedico e quindi la civiltà indiana come noi la conosciamo, Shiva scompare. Infatti, questa divinità non è presente nei Veda, il testo sacro della religione induista, anche se c’è l’aggettivo shiva, che significa “positivo”. Shiva ricomparirà dopo il periodo vedico e viene adorato ancora oggi in India, forse per una connessione popolare con quella linfa vitale delle origini, quando ancora gli arii non fecero il loro ingresso in India.
Non ci sono tracce storiche degli indoeuropei, quella popolazione che anticamente soppiantò le autoctone portando una nuova civiltà tra India e Europa. Ma ci sono delle tracce: infatti, molte lingue di quelle zone hanno notevoli tratti comuni, per il fatto che derivano da quell’unica parlata degli indoeuropei. Se in latino pater familias, “padre di famiglia”, ha un genitivo singolare arcaico in –AS e una terminazione uguale compare anche in sanscrito, questo vuol dire che latino e sanscrito hanno una comune origine, non spiegabile storicamente, in quanto derivano entrambe da un’unica lingua, non attestata: l’indoeuropeo.
Probabilmente gli indoeuropei soppiantarono le popolazioni autoctone perché avevano una grande maestria nell’arte di lavorare i metalli, cosa che permise loro di fabbricare armi più resistenti. Gli studiosi favoleggiano o ipotizzano che ci sia un riflesso di questa abilità quando nell’Iliade Omero pone grande attenzione alle armi. Inoltre, gli indoeuropei probabilmente introdussero anche il carro da guerra, che a differenza del singolo cavaliere e del singolo fante aveva un potere di sfondamento e di distruzione ben superiore. E gli studiosi fanno un parallelo con il fatto che nelle letterature indoeuropee si parla spesso dei carri, ora Platone per indicare l’anima, ora in celebri racconti delle Upanishad indiane simili a quelli di Platone, ora nella Bhagavadgita, la parte terminale del Mahabharata, il più lungo poema epico indiano, nella quale ci sono immagini di carri: il protagonista Arjuna rappresenta l’uomo nella sua interezza, il carro su cui si muoverà per fare la battaglia è il corpo, mentre l’auriga Krishna è l’anima.
Addirittura l’Iliade, in cui i greci (indoeuropei) attaccano Troia (popolazioni autoctone), serberebbe l’eco mitica della conquista indoeuropea dell’Europa.
Gli indoeuropei erano nomadi e nella cultura delle popolazioni non stanziali vi è spesso il culto della parola. Per questo i Veda sono così importanti per la cultura indiana fino ad oggi. Ci sono ancora cantori che li imparano a memoria per tramandarli ai posteri. Pensiamo anche alle significazioni del mantra OṂ, il più famoso e il più potente. La forma OṂ deriva dalla monottongazione di AUṂ (quando in sanscrito il dittongo originario AU divenne O) e AUṂ sarebbe il simbolo esoterico del collegamento con il Brahman, l’origine di tutto. Infatti, la A indica il mondo manifesto, la O il mondo di mezzo dei Buddha, la Ṃ (che in sanscrito è detta anunasika, una nasalizzazione che gli studiosi spiegano foneticamente in modi diversi) allude al mondo non differenziato dell’origine. Quindi quando si pronuncia OṂ si sta esprimendo una sillaba sacra che costituisce un veicolo esoterico per collegarsi con il Principio, l’origine, Dio. Cioè ciò che noi stessi siamo. È un mantra per riscoprire la nostra natura divina.
L’uomo o meglio l’io inferiore tende per natura ad interagire con gli altri, tuttavia in maniera spesso anche disfunzionale. La relazione interpersonale è spesso problematica. Incomprensioni e aggressività accompagneranno la persona dalla nascita alla morte. Certamente le motivazioni psicologiche sono molte, tuttavia da un punto di vista spirituale l’aggressività è sempre un ostacolo allo sviluppo animico.
L’aggressività non è un sentimento né un’emozione, ma un comportamento, che ha origini differenti. Alcuni, infatti, distinguono tra rabbia e aggressività. Quest’ultima è un modo di essere che si manifesta come parolacce, percosse, e altro. La rabbia è di solito lo stato emotivo che sta dietro il comportamento aggressivo, ma non sempre solo la rabbia. Altri, invece, fanno rientrare nella parola aggressività degli elementi molto diversi, dai comportamenti alle risposte emotive e agli stati cognitivi di ostilità verso le persone.
L’aggressività può essere causata soprattutto da:
- Rabbia;
- Frustrazione;
- Dolore (chi soffre tende ad isolarsi ma anche ad essere aggressivo);
- Paura;
- Imitazione (in televisione, a scuola, in carcere);
- Interesse (rapina, omicidio, guerra);
- Sviluppo fisiologico (attacco al seno, fase del morso, morso interazionale);
- Ma anche dalla felicità (particolarmente evidente nel bambino, che quando è iper-attivato inizia a dare pizzicotti ai compagni);
- Gioco (soprattutto nel bambino e negli adolescenti, ma anche attività simulate degli adulti: arti marziali, boxe, tiro al volo, e così via);
- Funzione sociale (nel bambino abbiamo il conflitto tra pari, ma tra adulti: stabilire le distanze, stabilire la gerarchia, affermare sé stessi).
L’aggressività, inoltre, non è un monolite ma ha uno sviluppo con l’età del soggetto. Il neonato dimostra una aggressività verso il seno della madre cui segue un periodo depressivo per il senso di colpa. Esiste anche la “fase del morso” durante la fase orale della psicoanalisi, che è un comportamento di scoperta del mondo. Bisogna distinguere questo dal morso interazionale del bambino un pochino più grande: non c’è volontà di far del male ma di esprimere una propria esigenza (entrare in un gioco di gruppo, ottenere un gioco: infatti, quando compare il linguaggio la fase del morso interazionale scompare). In seguito il bambino in età scolare ha un’aggressività diversa, come differente è quella dell’adolescente, poi dell’adulto e infine dell’anziano.
Una tematica molto complessa è anche quella del bullismo. I bambini sotto i dieci anni non fanno del male per far del male ma non hanno l’intenzionalità cognitiva per capire, il bambino può picchiare i compagni per ottenere qualcosa o per patologie come l’autismo. Inoltre, secondo recenti studi i bambini sotto i dieci anni regolano i rapporti con gli altri attraverso la forza. Invece il bullo decide di fare del male in maniera disfunzionale. Quando i bambini delle elementari hanno tra di loro un conflitto cercano di risolverlo di solito con uno scontro fisico. Allora se l’adulto cerca il colpevole o li punisce entrambi, sta facendo qualcosa di illecito secondo la natura del bambino, in quanto tale conflitto tra pari è funzionale alla crescita. Se il bambino impara le regole del litigare bene passando attraverso la fase transitoria delle “botte” nel conflitto tra pari, ricorrerà in seguito molto meno alla violenza in quanto avrà imparato le regole della negoziazione.
Ma dal punto di vista della psicologia spirituale, le cose starebbero in maniera diversa. I maestri spirituali insegnano che le anime o io superiori sono tutti collegati in maniera eterica. Quindi la chiave per avanzare nella evoluzione è stare sempre più in collegamento con le altre anime. Ciò è possibile solo con l’amore. Ne consegue che ogni emozione, sentimento, atto aggressivo ledono il rapporto di amore che ci lega alle altre persone. Come diceva Empedocle, l’amore unisce e l’odio divide.
L’io inferiore ama gli altri egoisticamente, cioè in funzione di sé. Per l’io inferiore valgono le parole dello stoico Crisippo, per il quale non può esserci nessun desiderio se non ci fosse prima di tutto l’amore di sé, ragion per cui “il principio primo viene dalla predilezione che ciascuno ha per sé”, principium ductus esse a se diligendo (fr. C. e. 182 von Arnim).
L’io superiore invece ama gli altri oltre sé stesso e anzi a proprio discapito, tralasciando sé e fondendosi con le altre anime. L’amore superiore è anelito alla unità, cioè fusione tra Io e Tu e Noi. Ritorno all’Uno primigenio. Secondo Cusano l’amore richiama talmente l’unità divina che tutto è pervaso di amore, senza il quale nulla potrebbe esistere. Per la riflessione indiana amore (karuna) e conoscenza (prajna) sono la stessa cosa: per amare devo possedere l’altro dentro di me conoscendolo, e viceversa.
La Cabala insegna addirittura che anche semplicemente sparlare degli altri fa entrare in noi una carica di male che blocca la nostra evoluzione.
Secondo le visioni spirituali, noi proveniamo da Dio e dovremo ritornare a Dio dopo questa breve parentesi terrena. Il cristianesimo, ma non solo, insegna che Dio è amore. Quindi la dimensione fondamentale dell’essere uomini è quella dell’amore. Un Dio di amore ci chiama alla vita e noi dobbiamo contraccambiare amando Lui e i fratelli.
Tutto parla di Dio e tutti i popoli ne hanno parlato. Se riflettiamo, dire che l’umanità e la civiltà è frutto del caso, è come dire che battendo a caso su una tastiera ne esce la Divina Commedia. Tutto ciò che vediamo è solo apparentemente finito, in realtà poggia in Dio. Pascal scriveva (Opuscoli 19): “Dati qualsiasi movimento, qualsiasi numero, qualsiasi spazio, qualsiasi tempo, ce n’è sempre qualcuno maggiore ed uno minore: in modo che tutti sono sospesi tra il nulla e l’infinito, stando sempre infinitamente lontani da questi due estremi”. Ma Francesco d’Assisi si lamentava che “l’Amore non è amato!”.
Marsilio Ficino (Teologia platonica II, 13): “Se Dio è soddisfatto di sé, ama se stesso, di certo ama le sue immagini e le sue opere. L’artigiano ama le sue opere, che ha realizzato a partire da una materia estrinseca. Molto di più il genitore ama il figlio, che ha generato in forza di una materia intrinseca, seppur ricevuta da altro nutrendosi. Dio ama con fervore assoluto ogni sua opera, amat Deus ardentius sua quaelibet opera, perché non ne ha tratto da altro la materia, se non da lui stesso che l’ha creata e le ha dato forma, per cui lui solo è stato la causa della sua opera nella sua interezza. Se Dio ama a tal punto le sue opere, vuole il loro bene. Ma ciò che vuole, Dio lo ottiene”.
Per le concezioni orientali il dio è il padre di tutte le cose e il sovrano, suo intermediario, dispensa alla comunità i benefici divini. Il faraone riceveva il cosiddetto Protocollo regale (nkb.t) con i cinque titoli regali, tra cui figlio di Ra, cioè il rappresentante del dio solare e creatore di tutto. Si tratta certamente di una prerogativa divina, regale e benevola al tempo stesso. In un testo si legge che compito del faraone è “far prosperare il paese come nell’età primordiale mediante i piani di Maat”. Nell’antica Mesopotamia il re era “immagine” (in accadico tamšilu) del dio, perciò aveva il compito di promuovere crescita, fertilità e benessere del paese, per questo spesso il re era esaltato con toni “messianici”. “Re” in accadico è šarru, con una radice semitica che significa “canto”, come se questa figura fosse colui che era più cantato, osannato tra gli uomini: nel mondo mesopotamico il canto non era espressione di arte né di interesse individuale ma di celebrazione divina. In cinese il “re”, wang, viene espresso da un carattere formato da tre linee parallele orizzontali unificate da una linea verticale: le tre linee indicano il Cielo, l’Uomo e la Terra, che sono unificati dalla funzione regale, la quale permette che il Cielo dia i suoi benefici a tutto quello che esiste.
Qualcosa del genere si ritrova anche nella concezione stoica del potere politico. Dione Crisostomo definiva lo stato ideale “governato da un re secondo la legge in completa amicizia e armonia”. Quando un antico parlava di amicizia, non si riferiva a ciò che intendiamo noi oggi, ma a un rapporto amoroso quasi filiale, se non di più. Nella Orazione I, 38 Dione definisce il sovrano nomos empsuchos, “legge vivente” o “incarnata”: l’idea è quella stoica del sovrano come vicario di Zeus, identificato con il logos che mantiene tutto.
Il cristianesimo contempla la nozione spirituale di “comunione dei santi”, per la quale i fratelli nella fede sono intrinsecamente uniti. Pregare i santi è da secoli nella chiesa un potente mezzo per ottenere le grazie da Dio. Teresa d’Avila diceva che Dio ha concesso a Giuseppe, il padre putativo di Cristo, di essere il protettore degli uomini in tutte le circostanze della loro vita.
La seconda dimensione di amore che gli uomini scoprono è quella della famiglia. Sigmund Freud intuì dall’analisi dei sogni dei pazienti, ma anche mediante il lavoro di ipnosi, che le persone amavano nell’infanzia il genitore del sesso opposto, e odiavano quello dello stesso sesso. Freud, andando a teatro, notò un parallelo con il mito greco di Edipo, il re che uccise per sbaglio il padre e sposò la madre senza avvedersene. Quindi chiamò queste dinamiche inconsce “processo edipico”, in seguito Jung parlò di “complesso di Edipo” per il maschietto e “complesso di Elettra” per la femminuccia (la quale ama il padre e odia la madre).
Per Freud il bambino crescendo toglie dalla coscienza il complesso di Edipo, ma si tratta di sentimenti che l’adulto continua ad avere inconsciamente. Tecnicamente Freud parlava di vari livelli di “rimozione” del complesso di Edipo (da quella fisiologica a quella patologica): tutta questa sfera emotiva viene scacciata dalla coscienza e continua ad esistere nella dimensione inconscia, dove è avvertita meno fortemente ma è sempre esistente.
Jung non era perfettamente d’accordo con l’idea di Freud. Jung, infatti, sosteneva che tutto ciò che viene rimosso ha addirittura una forza maggiore per la vita dell’adulto, non solo, ma scriveva anche che il complesso di Edipo ricompare prepotentemente quando l’individuo attua una trasformazione di sé.
Alexander Lowen dal canto suo estese la psicoanalisi alla sfera corporea, sulla scia di Reich, quindi scoprì che il bambino riversa sul corpo le emozioni edipiche. Vale a dire che il bambino per non sentire la eccitazione verso la madre (e la bambina verso il padre) trattiene il respiro a livello del petto oppure a livello dell’addome.
Uno dei grandi meriti di Jung è stato quello di scoprire come i contenuti inconsci possono manifestare la loro presenza anche attraverso la proiezione, cioè quando facciamo vivere una nostra parte inconscia su una persona o un oggetto. Lowen, mutuando da Jung il concetto di proiezione, scoprì come il complesso di Edipo, se non adeguatamente risolto nell’adulto, viene da questi proiettato sulla sfera relazionale con evidenti compromissioni operative.
Lowen analizzò in particolare le separazioni amorose tra adulti. Egli scoprì che il bambino ha l’immagine di una Madre Buona (perché lo allatta), ma anche quella di una Madre Cattiva (quando questa si allontana). L’adulto fa rivivere l’edipo sul partner in questa maniera: quando si innamora della donna proietta su di essa la Madre Buona, dopo il matrimonio proietta sul partner la Madre Cattiva e allora iniziano i problemi coniugali con esito la separazione.
Lowen osservò altresì che molte persone hanno un comportamento seduttivo verso tutti, ma alla fine non completano con l’atto sessuale. È un comportamento tipico delle donne. Per Lowen questo si giustifica perché la donna (ma anche l’uomo) sta cercando nei vari personaggi il genitore del sesso opposto: è per questo che poi non si giunge al rapporto sessuale.
Per Lowen l’edipo sarebbe presente anche nei casi evidenti di fallimento lavorativo. Il successo sul lavoro sarebbe visto dalla persona come un incesto, vale a dire come il raggiungimento sessuale della madre. Allora, per via del senso di colpa di amare la madre, l’adulto boicotta inconsciamente ogni successo sul lavoro con la conseguenza che esso non si realizza mai.
Secondo Erich Fromm, le dinamiche inconsce fusionali e edipiche che le persone sentono inconsciamente devono essere superate dall’amore maturo. L’uomo proviene dalla natura (cioè dalla famiglia, che ama edipicamente), però deve maturare. Come fa a staccarsi dalla natura, cioè dall’amore edipico nei confronti della madre (o del padre)? Mediante l’amore maturo. L’amore edipico è un affetto di dipendenza verso il genitore, invece l’amore maturo è un affetto libero, nel quale si è pari nel dare e nel ricevere. Questo amore evoluto è una vera e propria “arte” che l’umo deve imparare con l’esperienza.
L’amore è l’elemento più importante della nostra vita. Non possiamo stare bene senza amare una persona, ma anche un animale o una idea. Proprio per questo l’amore può essere anche patologico.
Parliamo della gelosia patologica. Quando amiamo un partner, è normale una certa dose di gelosia e di controllo. Ma la gelosia diventa morbosa o patologica quando una persona si sente talmente male senza controllare il partner dal non riuscire a controllarsi. Facciamo un esempio. Se in una coppia si controlla a volte il cellulare, rientra nella norma. Ma se una persona chiama in modo assillante il partner e fa una scenata se questi non risponde sempre, senza alcun motivo oggettivo per farla, si sta trattando di gelosia patologica, che non ha nulla a che fare con l’amore, e necessita sempre di un intervento clinico.
Esiste anche il narcisista patologico. Il narcisista patologico non ama il partner ma si lega a lui in maniera morbosa per compensare un’autostima assente. Il narcisista si sente talmente inferiore da pensare che il partner gli appartenga e in ciò compensa la sua inferiorità. Il narcisista pensa che il partner sia sua proprietà e così pensando lo tratta come vuole. Violenza psicologica, violenza fisica, istigazione al suicidio, e così via. Se io possiedo un vaso, posso anche romperlo, è cosa che appartiene a me e ci faccio ciò che voglio. In questa maniera ragiona il narcisista: se il partner è cosa mia, questi non ha diritti e mi comporto come mi pare, anche in maniera lesionista.
Abbiamo poi lo stalking. Lo stalker controlla ossessivamente la vittima, la segue, e attua comportamenti violenti verso la persona o le sue cose. In criminologia lo stalking indica una fattispecie criminosa ben precisa, che esula da comportamenti “da innamorati”. Se una persona viene lasciata dall’amata, è normale che faccia qualche telefonata, invii qualche messaggio, la voglia ancora vedere ogni tanto. Dopo un certo periodo però la persona lasciata lo capisce, se ne fa una ragione e smette di cercare quella donna. Lo stalker invece perseguita con messaggi assillanti la donna o l’uomo amato (per esempio 10 messaggi al giorno), si fa trovare sempre sotto casa o al posto di lavoro, buca le gomme, riga l’automobile, uccide o fa trovare animali morti, e così via. Nello stalking quindi la vittima è terrorizzata, abbiamo a che fare con un fenomeno veramente criminale, che nulla ha da condividere con il giusto dolore di un innamorato lasciato dall’amata. Lo stalker non vuole permettere l’abbandono o il rifiuto e si ostina in questo atteggiamento portando avanti una condotta assillante, minacciosa e molesta.
Una donna che incontra un uomo diciamo così instabile preferisce a volte mantenere la relazione nonostante i soprusi e le violenze. Le ragioni sono molteplici. Può capitare che una donna sia stata frustrata da bambina e quindi si sia convinta di non meritare l’amore di nessuno, allora da grande si lega a partner dai quali dipende affettivamente in cerca di quell’amore che sa di non meritare, quindi pur di averlo è disposta anche a sottomettersi e a soffrire. Una donna del genere può andare alla ricerca inconsapevole di uomini che le facciano violenza psicologica o fisica per confermare questo costrutto presente nella mente.
Written by Marco Calzoli
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Rubrica Meditazioni Metafisiche