“La vita autentica” di Vito Mancuso: l’interazione che si nutre d’antagonismo
Premessa: normalmente commento i libri che leggo in itinere, poche ore dopo aver sottolineato alcune parti significative, senza spezzare troppo la lettura, né troppo poco. In questo caso non ci sono riuscito.

Nella quarta di sovraccoperta, leggo che Lucio Dalla ringrazia Vito Mancuso perché “mi ha fatto capire la vita, con grande tenerezza.” – mi unisco ai ringraziamenti.
Vito non solo è chiaro, è davvero tenero e, soprattutto, onesto intellettualmente. Fa capire le cose che scrive, è non-heideggeriano, in questo e in tanto altro.
Tutte le volte che mi è capitato di leggere una sua opera (questa è la sesta volta), egli è stato così amichevole che ha stimolato in me una sportiva voglia di antagonismo, nel senso migliore del termine. Lui è lì, perso tra quei simboli neri che adornano la candida carta, e io qui, riparato da un paio di occhiali da presbite. Anche stavolta è andata così, con la differenza che ho dovuto aspettare la fine per iniziare, e ora nella (sua) fine è il mio principio, tanto per citare a sproposito il titolo di un thriller di Agatha Christie.
Il motivo non è semplice. O forse sì. Da tempo cerco di formulare un mio giudizio su cosa sia la vita autentica, anche se forse userei un’altra espressione (il senso dell’esistenza?) e ora vorrei capire bene dove il filosofo e teologo andrà a parare.
I cinque libri precedenti, specialmente l’ultimo, I quattro maestri, mi sono però serviti per farmi un’idea. Il presente saggio, La vita autentica, editato ora nella collana Letture, è del 2009, e forse conosco già le basi teoriche e dialettiche su cui è stato edificato. Però non sono riuscito a scriverne nulla, qualcosa me l’ha impedito fino all’ultima pagina.
Inizio dalla prima sottolineatura.
“… due paradigmi opposti fra loro: il paradigma della sacralità, per il quale la vita è un dono che discende dall’alto e quindi non è disponibile da parte del soggetto che la riceve, e il paradigma della libertà, per il quale la vita emerge dal basso e quindi è pienamente disponibile da parte di chi lo esperisce.”
Riesco a non condividere nessuna delle due interpretazioni. La vita non discende dall’alto e non emerge dal basso, caratteristiche che non esistono, in assoluto, nel cosmo. Nel senso relativo sì: io abito al terzo piano e se scavalco il balcone piomberò in due o tre secondi al suolo, grazie (si fa per dire) alla forza di gravità (che non è poi una forza, ma un’interazione) che mi condurrà colà. Tra l’altro essa è la principale responsabile di tante piccole fregature che hanno costellato la mia vita, anche se le devo il privilegio di essere al mondo, ove starò ancora non so per quanto tempo. Anche il tempo è una probabile illusione, ma senza di esso non saprei più vivere.
Nel Siracide (Ecclesiastico) è scritto che l’uomo è destinato a dominare “sulle bestie e sugli uccelli”. E si dice che il giusto non sarà mai abbandonato.
Nel Qohelet (Ecclesiaste), si dice che gli uomini “di per sé sono bestie” e che la sventura è sempre dietro l’angolo. Tutto è vanità e Niente di nuovo sotto il sole: sono le due espressioni che mi colpirono in quella torrida estate in cui, ancor giovanetto, lo lessi.
“Chi tra i due autori biblici ha ragione?”, si chiede Vito.
Jacques Monod scrive: “… l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso.”
Christian de Duve obietta a un’altra frase di Monod, secondo cui “l’universo non era gravido di vita, né la biosfera era gravida dell’uomo”: “Io considero questo universo non come uno ‘scherzo cosmico’, bensì come un’unità dotata di significato, fatta in modo di generare la vita e la mente, destinata a dare origine a esseri pensanti in grado di discernere la verità, di apprendere la bellezza, di sentire amore, di desiderare il bene, definire il male, sperimentare il mistero.”
Da che parte sto? Vito parteggia per Christian, per cui avrei disponibile solo il posto accanto a Jacques. Preferisco rimanere in piedi, da solo. L’uomo non è un unicum, il mondo è in perenne stato interessante, e la morte è un continuo e necessario aborto. Sul caso e sul bene, al momento non mi voglio esprimere.
Amo una citazione da un discorso del fisico Premio Nobel Steven Weinberg: “quanto più l’universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo.” – ma non mi va di accettarla in toto.
Singolarità, Big Bang, fine delle trasmissioni, entropia assoluta con particelle (oppure onde?) prive di energie; ovvero Big Crunch, Singolarità. Sento che lo scopo è qui, dentro di me.
“Nelle leggi della fisica vi sono esempi molto singolari di coincidenze numeriche che paiono essere accordate tra loro per rendere l’universo abitabile”.
Se Vito ha scritto e io, dopo averlo letto, ho iniziato a reagire, è dovuto a una serie di casi quasi improbabili: l’inclinazione dell’asse terrestre, la distanza dal sole, il tipo di atmosfera, la formazione dei nostri rispettivi zigoti, e così via.
Il principio antropico vorrebbe spiegare tutto e invece non dice nulla che già non si sappia: essendo qui a discuterne, significa che sono qui a discuterne, e così sia.

C’è poi quel numerino, il 137, che per Richard Feynman, il fisico più gioviale di tutti i tempi (senza che gli sia uscita l’ernia per esserlo) è il numero scritto dalla mano di Dio, in grado tra l’altro di collegare la quantistica alla gravità, queste due acri nemiche. Il 137 è coinvolto in numerose equazioni fisiche che al momento non ha senso riportare. Questa cifra desta davvero simpatia!
Ti apprezzo, Vito, quando scrivi: “Vi sono mille elementi per negare un senso alla vita-natura e ve ne sono mille altre per riconoscerlo, ma è necessario tenere sempre presenti entrambe le prospettive.”
La ragione “incontra necessariamente la contraddizione”. È un “principio contraddizione” che occorre tenere sempre a mente.
Il principio libertà, secondo la tua opinione, è attestato dalla varietà dei giudizi umani (vedi Jacques, Christian, te, me, mio zio Mario, eccetera). È una teoria non comprovata ma affascinante, però di tipo religioso.
“… consentendo a ciascuno l’esercizio della libertà è il mondo migliore di rispettare la vita.” – è quello che mi auspico, anche se ignoro se sia il migliore.
“Io ritengo che non sia scendendo al livello dell’infinitamente piccolo, là dove sono le sorgenti dell’essere, che possiamo sperare di risolvere la questione della libertà, ma salendo più in alto, laddove la libertà è all’opera.”
Dove volgi la tua attenzione quando parli dell’infinitamente piccolo? Al di sotto o al di sopra dello spazio di Planck? Al di sotto, nessuno, nemmeno il più geniale scienziato, può esprimere alcun ragionamento. Solo al di sopra di esso valgono le comuni leggi fisiche.
Due teorie antitetiche si osteggiano (come nel caso di Jacques e di Christian), occupandosi non della verità, illusione filosofica, ma dell’esame della realtà, la relatività generale inventata da Einstein, la quantistica da Einstein e da Planck.
Carlo Rovelli, insieme ad altri studiosi, sta tentando di armonizzarne i contrasti, ma è visto da taluni fisici come un sikh, incompreso e inviso tanto dagli islamici quanto dagli induisti. La meccanica quantistica si occupa di atomi, e piccolezze analoghe. La relatività è efficace nell’osservare le interazioni tra i corpi molecolari. Non è stato però riscontrato finora fin dove arrivi esattamente l’una e dove inizi l’altra. La libertà, come la verità, se c’è, è celata. Di palese è rimasta soltanto la contraddizione.
La “meta” di cui parla Einstein, “la società di esseri umani liberi e felici che si prodighino con costante sforzo interiore per liberarsi dal retaggio degli istinti antisociali e distruttivi” è quella che io vorrei perseguire, ma ignoro l’eventuale senso sotteso.
“… la vita è tanto più umana quanto più è libera…”, questa frase tu la dai per scontata, io no.
“L’esercizio del dubbio in Cartesio è funzionale al raggiungimento di una certezza interiore che sa vincere i dubbi perché prima li ha affrontati da sé, a uno a uno, e ora quindi non teme di discutere con serenità le questioni più difficili.” – il dubbio è paradossalmente l’ancora di salvezza che ti permette di proseguire il viaggio. Per me esso è inseparabile da una certezza che definirei peripatetica, che cammini stabilmente insieme a me, e che, nel suo percorso, nel suo evolversi, mi muti permanentemente.
Sono certo che cambierò idea su ogni cosa, minimamente, oppure del tutto. Una certezza granitica e ineffabile non fa per me.
“… ma solo lo spirito, infatti, che è in grado di comprendere lo spirito” – assai più delle neuroscienze. La frase m’inquieta e m’astengo dal commentarla.
“Che la coscienza e la libertà esistano, è la vita a mostrarlo: questo è il dato che va assunto re, se ne si è capaci, spiegato.” – io non sono capace. Anche Hilary Putnam avrebbe delle difficoltà: in Ragione, verità e storia si chiedeva quanto fosse possibile accertare che noi non siamo dei semplici cervelli in una vasca, tipo Matrix.
“La coscienza” e quella che tu definisci “la libertà che ne promana” non è comprovata. O forse occorre definire cosa significhi coscienza.
Esiste una coscienza relativa, la tua, la mia: ma che essa sia libera (e assoluta) è un tuo sogno. Che io sento mio, ma non riesco a darlo per certo. È una forma di certezza peripatetica: oggi c’è… ma domani?
Marco Aurelio era un illuminato (non so come abbia trovato il tempo di svolgere il mestiere d’imperatore), quando scriveva: “Ricordati che ciò che muove i fili della tua esistenza è nascosto dentro di te, ed è energia, vita e, se così si può dire, uomo” – della frase apprezzo ogni sillaba, ma soprattutto quel se così si può dire.
Io ignoro se si possa dire, anche Marco Aurelio, a quanto pare.
“L’uomo autentico è l’uomo libero, l’uomo che costruisce la sua vita su un fondamento interiore tutto suo, sulla sua consapevolezza e autonoma personalità.” Sperare non costa niente.
“L’autenticità e il suo contrario riguardano l’uso della libertà, in primo luogo il controllo della mente e del linguaggio che ne esce.” A che prezzo? Quanto dura? Siamo sotto garanzia?
“Ma come si controlla la mente? Riportandola al reale. Fermandola al reale. Inchiodandola sul reale.” – che è come dire destarla, disincantarla, realizzandola.
Un po’ come quell’energia dolorosa che si chiama kundalini, che è dentro di noi, ma al cui risveglio… Brrr! Dicono che sia divina, che faccia molto male quando esce da dove è rintanata. E pare che, come un cobra, ti prenda alla gola!
Il narcisista osserva Sé e non l’Altro. Si ritira dal mondo e magari legge. Un libro lo si può chiudere, l’Altro no. È una scelta che può portare ovunque, anche al Nulla, anche all’idiozia.

Heidegger: “Eingentlichkeit, Uneingentlichkeit”, autentico, non autentico.
Autenticità come “appropriarsi della cosa vuol dire anche, più radicalmente, assumerla dentro il proprio progetto di esistenza”: Vattimo.
“Ne viene che l’uomo deve assumere la morte come unica possibilità autentica e che l’autenticità dell’esistenza si esprime come ‘anticipazione della morte’. Il concetto di autenticità viene definito mediante quello di morte.” – come dire che la vita si sconta morendo, capovolgendo il famoso verso di Ungaretti. È un concetto grandioso che però non mi dice nulla. Forse non è per me, oppure non lo comprendo.
“Devo fare di tutto per guadagnare la mia anima spirituale, per salvaguardare la mia libertà, perché lo scopo della mia esistenza di uomo consiste esattamente in questo.” – devo faticare però, mica è gratis.
Forse l’anima costa quanto il mondo intero? Non sono disponibile a tale olocausto.
Sai convincermi che la verità consiste anche di bugia, come la memoria è composta di oblio, come la parola è costruita sul silenzio. Tutto questo perché il mondo è discontinuo. Esistono le bugie a fin di bene, e le verità che conducono al male. Su questo non ho nulla da obiettare.
Occorre armonizzare “l’esteriorità (le parole che uno dice, le azioni che uno compie) e l’interiorità (le intenzioni che lo animano, i sentimenti che prova davvero)…”
Ciò che è un uomo, oltre al resto “è ancor più la sua speranza, cioè la tensione complessiva della sua vita e il sapore che ne deriva all’intera personalità, la musica che fuoriesce quando lui si presenta e che gli altri percepiscono, che lo si voglia oppure no.” È un’ottima e precisa descrizione dell’esistenza.
Mi doni una speranza: “Ma per una vita autentica è necessario credere in un Dio? Sono convinto di no. Ritengo, però, che non sia possibile una vita pienamente autentica senza credere nel bene e nella giustizia.” – poi, spieghi, occorre capire come e perché.
Ti chiedi anche se perché è così importante essere autentici.
Perché, ti chiedi “ha ragione Kant a parlare di un imperativo categorico che ordina di fare il bene, e non Nietzsche ad affermare la volontà di potenza?”
Poni l’ulteriore (e ultima?) domanda: “ognuno di noi è definito dall’equazione Io = Io oppure dall’equazione Io = Noi?”
Interessante la tua risposta: “la mia tesi è che la relazione con il mondo sia costitutiva, originaria, essenziale per l’Io, il quale esiste in quanto frutto delle sue relazioni. Ovvero: Io = relazione.” Fantastico. Hai trovato l’assassino. Concordo su tutto!
“Chi fa il bene compie l’azione più logica perché riproduce l’opera ordinatrice del processo evolutivo. Il bene è compimento razionale dell’essere.” Qui non sono né in accordo, né in disaccordo. La mia certezza peripatetica è ora con te, ma non so se ci rimarrà.
Giungi a dire che, partendo da queste premesse, non neghi che possa esservi una guerra giusta. Forse (è una mia aggiunta) anche un omicidio virtuoso e un suicidio legittimo? Qui non ti seguo del tutto, ma in parte sì.
“Nel mondo io vedo una logica perché una logica c’è, ma la dichiaro impersonale, perché l’attenzione a una singola persona non c’è”. – No, non c’è proprio.
A volte, sai, mi chiedo non perché esista io, a cui è andato tutto maledettamente bene nella vita e poi quel derelitto bimbo nero, scheletrico, col testone e che dalla foto mi urla: Perché a me no?
Avevo sette, otto anni, e mi trovavo quel giorno dai miei zii in campagna e all’improvviso, i miei genitori mi dissero che dovevano tornare immediatamente a casa. Mio cugino Giorgio, di un anno o due più giovane di me, forse per curiosità, aveva ingurgitato della benzina e stava molto male. Morì quello stesso giorno. Perché? Perché è toccato a lui e non a me?
“La vita appare così in una prospettiva che le dà stabilità, ma non la immobilizza, che le permette di muoversi ma seguendo in una direzione. Il punto fermo di tipo dinamico fa della vita una continua interpretazione, ma con un coerente criterio interpretativo. L’esistenza diviene libera ama anche anarchica, non cioè priva di arché, di un principio guida con cui camminare.”
Citi l’Ulisse dantesco e la sua “virtute” e “canoscenza”. E concludi: “Impostare tutte le relazioni sulla base di questi valori è la più grande fortuna che possa capitare nella vita.” Non so cosa sia la fortuna. Ma ho imparato a differenziare tra Fato (assoluto) e Destino (relazionale). Del primo tutti, compresi gli Dei, sono tenuti a subire i comandi, senza alcuna possibilità di interazione. Il secondo invece permette a quell’ente ameno che è l’uomo di partecipare in un qualche modo alla sorte del cosmo e quindi alla propria.
Due particelle, venendo a contatto, interdipendono fra di loro per l’intera loro durata. Il fenomeno, si chiama entanglement, ed è stato provato sperimentalmente. Se un grado di libertà, per esempio lo spin, muta in una, nel medesimo attimo muta nell’altra. Non ha senso dire nel medesimo attimo, però è stato verificato che il doppio fenomeno avviene come se l’informazione fosse trasmessa a una velocità maggiore di quella della luce, fenomeno che rientra fra le impossibilità fisiche. Quale è la ragione di tutto questo? Nessuno lo sa. Il trio Einstein-Podolski-Rosen, opposti a Bohr, ci persero la testa, ma non trovarono soluzioni. Così è, se vi pare. La relazione fra le due particelle è, in questo senso, assoluta, non dipendendo dalle loro caratteristiche spazio-temporali.

Si tenga presente che nella singolarità precedente al big bang, tutto era entangled. Nulla era esterno a Nulla. L’Uno era l’Uno. Il Nulla era il Tutto.
Acceso e spento. Onda e particella. Gravitazione e fuga superluminale. Energia e massa. Duplicità. Di questa duplicità pare che il mondo non possa fare a meno. È un continuo avvicinarsi, sfuggirsi, cercarsi, allontanarsi.
Questa, caro Vito, è la mia Speranza. Che non vi sia un Fato a me assolutamente esterno, ma un Destino Unico, Relativo e (al momento) Incerto, con la Fede che non esista il dentro e il fuori, ma l’Eterna Unicità.
Nel frattempo cercherò nell’altro un Fratello, confidando di trovarlo!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Vito Mancuso, La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, 2021