“Sade prossimo mio” di Pierre Klossowski: un marchese piccolo piccolo
Il saggio è preceduto da Il filosofo scellerato, altro studio di Pierre Klossowski incentrato sul Divino Marchese.

Da esso cito: “La trasgressione resta, indipendentemente dall’interpretazione data da de Sade, una necessità inerente alla sua propria esperienza. La trasgressione non deve né può mai risolversi, e non soltanto che viene assunta a testimonianza dell’ateismo: l’energia deve costantemente superarsi per verificare il proprio livello. Non appena cessa d’incontrare ostacoli, essa cade al di sotto del livello raggiunto. Una trasgressione deve generarne un’altra…”
“Chi si ferma è perduto”, diceva Mussolini. Non conta tanto dove andare, ma non cessare di proseguire il cammino, non recedere mai, non decedere. Bisogna sempre reiterare il crimine, perché è nella sua riproduzione che si ricava il suo senso.
Qui la morale c’entra, ma poco, sempre in un secondo tempo, oltre il fatto principale: la galileiana riproducibilità, che conferma la regolarità dell’azione sperimentale.
“È evidente che de Sade non cerca affatto di conoscere l’origine della perversione in rapporto alle norme, né come queste norme si sarebbero corrotte nell’individuo. La considera un fenomeno dato
(costituzionale o congenito), che va spiegato razionalmente come tutto ciò che la natura manifesta.”
Il tempo in cui il Divino Marchese visse era siffatto: orribile come l’universo in cui credette, fino all’ultimo, di vivere Pasolini, il quale aveva tutta un’altra natura rispetto a de Sade e ai contemporanei propri e altrui. Un eroe che si ribellò a tutte le ingiustizie, fino all’ultimo respiro.
“De Sade situa il suo personaggio nel mondo quotidiano: ossia lo trova nel cuore delle istituzioni, nella causalità della vita sociale”, lui, che casuale non è mai.
“In tal modo il mondo stesso appare il luogo in cui si attua la legge segreta della prostituzione universale degli esseri. Posto ciò, de Sade pensa la controgeneralità già implicita alla generalità esistente; non per criticare le istituzioni, ma per dimostrare che sono esse stesse a dimostrare il trionfo delle perversioni.”
Marx andò oltre: partì da una critica e tentò di mutare le condizioni della società. Nessuno fra i due filosofi le ha cambiato granché, ma uno, fra i due, almeno ci ha provato.
“De Sade inventa un tipo di perverso che parla a partire dal suo gesto singolare in nome della generalità.”
L’ha rinvenuto, non l’ha creato. Probabilmente ci conviveva. Questo è un giudizio che non conta più di tanto, anche se è partendo da esso che ho deciso di leggere il saggio di Klossowski.
“… i personaggi di de Sade, malgrado le affinità che si scoprono riguardo al gesto unico (di sodomia), si sentono ogni volta in dovere di proclamare l’assenza di un Dio garante delle norme…”, che i loro atti testimoniano sperimentalmente.
“… il segno chiave rappresentato da questo gesto ricompare nel suo luogo autentico: la società segreta. Qui il gesto diventa un simulacro, un rito che i membri della società segreta spiegano unicamente con l’esistenza del garante assoluto delle norme.”

Il gesto rappresenta quest’assenza ormai certa. Si tratta di una forma di religiosità, non dissimile dalle precedenti. Dio non esiste, lo scellerato sì. E la società corrotta ne è la prova.
In maniera analoga, Don Giussani in Perché la Chiesa, scriveva che essa era la prova dell’esistenza di Dio. Padre Aldo Bergamaschi scuoterebbe invece la testa dicendo, com’era sua eroica costumanza: ecco che tutto scade irrimediabilmente al rango di religione!
“La reiterazione è la condizione indispensabile affinché il mostro rimanga al livello della mostruosità; se la mostruosità è puramente passionale resta malsicura.” No, signori, occorre calcolata e atarassica freddezza, se si vuol edificare un Inferno in Terra che regga nei millenni, come accade alle antiche cattedrali.
“Essa solo può mantenerlo in uno stato di trasgressione permanente…”, ed è facile qui rammentare la rivoluzione permanente di trotzkiana memoria.
“Il rappresentarsi un corpo diverso dal proprio è in tutta evidenza specifico della perversione…”
Dissento, caro Pierre: è l’uomo che ha codificato questa esigenza (chissà quanto naturale) dell’Altro. Sull’argomento potremmo discuterne a lungo con Edward O. Wilson, autore di Le origini profonde delle società umane.
“… benché il perverso senta l’alterità del corpo estraneo, quello che sente più intensamente è il corpo altrui come se fosse il proprio…”: come succede a un esercito invasore, a un virus che attacca un organismo. Per cui “il perverso abita in primo luogo negli altri…” La potenza diventa pre-potenza: “È all’interno e al tempo stesso all’esterno.” – condizione ideale per chi vive il sé come se rappresentasse il cosmo intero.
“… l’immagine dell’atto da compiere si ri-presenta ogni volta non soltanto come se non fosse mai stato eseguito, ma neppure mai descritto. Reversibilità di un identico processo che inscrive la presenza del non-linguaggio nel linguaggio, ossia l’esclusione del linguaggio a opera del linguaggio stesso”
È quindi autorizzata qualsiasi atrocità letteraria. Come dire: non è colpa mia se sono orrendo nelle mie descrizioni: è il non io che sta scrivendo al mio posto!
Poi comincia l’emozionato ma non troppo, quasi atarassico!, Sade prossimo mio.
Comincia la difesa d’ufficio: “De Sade fece della criminalità virtuale dei suoi contemporanei il proprio personale destino, volle espiarlo da solo in proporzione alla colpevolezza collettiva assunta dalla sua coscienza.” La quale è una bella scusa, a cui alcuni rinunciarono (Buddha, Socrate, Cristo, eccetera).
“Questa probabilità del male che non esplode mai ma che può esplodere in ogni istante è l’angoscia perpetua di de Sade; è dunque necessario che il male esploda irrevocabilmente, che la gramigna prosperi affinché lo spirito la estirpi e la consumi.” – mors tua vita mea…
Veniamo al nocciolo della querelle: “De Sade concepisce il piano della sua grande opera: ‘Le centoventi giornate di Sodoma’, la cui architettura prodigiosa, paragonata a quella delle opere successive, resterà ineguagliata. In quest’opera, che getta le basi di una teoria delle perversioni e ne prepara la metafisica sviluppata soprattutto in ‘Juliette’, si trova l’esatta definizione del problema del male nella coscienza sadiana: la disgrazia di essere virtuosi nel crimine e criminali nella virtù.”
Pare, anzi è una faccenda fisica: ognuno di noi è titolare di alcune quote di massa e d’energia. E = mc2. E il Divino Marchese non fa eccezione (nemmeno Buddha e gli altri campioni di saggezza e di sacrificio sopra citati), per cui panta rei, tutto scorre e si trasforma.
Un’altra metafora dà l’idea del fenomeno: due stelle doppie si scambiano energia e materia continuamente. Il problema è quando qualcuno, che si crede più Divino degli altri, non vuole cedere se non la propria infelicità e manchevolezza, e pigliare tutto quello che di buono possa venire dall’Altro. E Dio, nel frattempo, che fine ha fatto?
“La coscienza del libertino intrattiene una relazione negativa da una parte di Dio, dall’altra con il prossimo. La nozione di Dio e quella del prossimo gli sono indispensabili.”: l’Altro è la stella da spolpare, mentre Dio è soltanto il Responsabile Unico (e ormai passivo) della Creazione.
“Relazione negativa con Dio; la coscienza del libertino non è atea ‘a sangue freddo’…”, ma occorre una “eccitazione”, un “risentimento”: serve energia.

“… il suo ateismo è unicamente una forma di sacrilegio: soltanto la profanazione dei simboli della religione può convincerla del suo ateismo apparente…”, gli dà la forza necessaria per perseguire il suo gustoso crimine.
Dio è indifferente, o almeno così pare al filosofo. “Se le sventure da cui sono afflitto dal giorno della nascita fino a quello della morte provano la sua indifferenza nei miei riguardi, posso benissimo ingannarmi su ciò che chiamo male.” La giustificazione dell’ingiusto comincia ad assumere la sua forma più ricca di splendore. “… sono felice del male che faccio agli altri come lo è Dio di quello che fa a me…” Se Dio è malvagio, e io sono a immagine sua, io devo essere tale. Se non lo sono, la paternità inizia a essere dubbia. Non sia mai!
“È la vista di chi non può godere di quanto io possiedo, e ne soffre, che fa nascere la gioia di poter affermare: sono più felice di lui. Ovunque gli uomini siano uguali e ovunque tali differenze non sussistano, non può esistere felicità.”
Un sillogismo, per quanto acuto e risolutivo, non cessa mai di celare un’intima sciocchezza, fatale destino di ogni logica umana. Io sono più felice di lui è come dire che lui è più bestia che soffre rispetto a me. Tutto è relativo, assicurò un giorno l’Ebreo errante.
Nulla è assoluto, o forse soltanto la velocità della luce nel vuoto. Ma di essa si sa troppo poco, come dello stesso Dio, questo sconosciuto.
E se io aiutassi il prossimo a essere meno bestiale? “… farei loro gustare un istante di felicità che li renderebbe uguali a me, privandomi in tal modo di tutta la gioia del confronto…”
De Sade, prossimo mio… che ne è ora della tua obesa massa corporea? Come la distribuisti in quel trentennio di reclusione? Quanti sadici vermi hai infine sfamato e deliziato? Che ne è delle vittime che sognavi di violentare?
Violenza, da vis-roboris, forza… le forze esistono e prima o poi cessano di agire, muoiano, si trasformano, rinascono, in ossequio al primo principio della termodinamica
“… mi piace far provare loro quella particolar cosa che turba e sconvolge così crudelmente la mia esistenza…” – gli voglio donare la mia estinzione, acquisendo la loro esistenza, diventando loro, dopo averli sempre di più annullati… ma devono sempre restare, almeno un poco, e magari farli riprendere un po’ ogni tanto, come si fa con l’erba dei prati: da calpestare, certo, non da bruciare per l’eternità.
“Ammettere la materia allo stato di movimento perpetuo come solo e unico agente universale, equivale ad acconsentire a vivere come individuo in uno stato di movimento estremo.” E la morte? “È uno stato di movimento estremo…”, degno dell’estrema unzione. Poi, tutto si ferma. No! Non è vero! “I corpi si trasmutano… si metamorfosano: ma non sono mai in stato di inerzia.” Il male accelera questa trasformazione: è dinamico e cinetico.
Nel riprodursi, l’uomo si arroga il diritto di togliere alla Natura la sua funzione trasformativa e questo è un Male, un agire contro di essa, un disonorarla.
Uccidere gli uomini diventa un atto di ossequio alla natura, in quanto la si libera di quella materia che ne limita l’espressione, per cui lei “vorrebbe l’annientamento totale delle creature scagliate, al fine di godere della facoltà di metterne al mondo di nuove.”
L’aspetto ridicolo del ragionamento si mostra nella sicumera con cui il filosofo è certo di conoscere l’opinione di quell’essere che non è mai nato, e che noi chiamiamo Natura perché fa nascere, ma di cui Nulla sappiamo. L’assassino scellerato “non è altro che lo strumento delle sue leggi…”.
Si tenga presente che esse non sono nati insieme a Lei, ma nel cervello di qualche bipede tutto sommato implume.
Altra illusione, per non dir peggio: “Sono quindi i delitti dell’uomo che, recando turbamento all’influenza dei tre regni, le impediscono di raggiungere un punto di predominio, mantenendo nell’universo quell’equilibrio perfetto che Orazio chiamava rerum concordia discors.”
Chi ha mai colto questo equilibrio perfetto? Nemmeno il sommo poeta latino, immagino.
“Il delitto è quindi necessario al mondo: ma i più utili sono indubbiamente quelli che sconvolgono maggiormente, quali il rifiuto di riprodursi o la distruzione…”.

Esageriamo: “… non saranno mai abbastanza gli assassinii sulla terra in rapporto all’ardente sete che ne prova la Natura.”
Ecco da dove nasce l’adorazione feticistica nei confronti della sodomia… Non ci si arrischia in tal modo a fare germogliare alcunché ma solo a produrre nuova energia…
“Il principio di vita in tutti gli esseri non è altro che quello di morte…” Alleluia!
Vita è Morte, il primo e l’estremo atto che dapprima produce e poi rinnova, riorganizzandosi “nelle viscere della terra”.
La strada di de Sade “apre quella a cui arriverà Nietzsche: l’accettazione del Samsara – dell’eterno ritorno dell’uguale.”
Tutto chiaro, ma quel che importa è che Qualcuno è ovviamente e (in)naturalmente più uguale dell’Altro.
“Che cosa sono, vi chiedo, tutte le creature della terra al cospetto di uno solo dei nostri desideri? E per quale ragione mi priverei del più blando di questi desideri per piacere a una creatura che per me non è niente e per la quale non provo il minimo interesse?”
Il tutto eccetto me è poca cosa rispetto al me, specie se lo sto divorando a quattro ganasce, sorseggiandone piacevolmente il sangue e gli effluvi più o meno involontari.
L’errore del cosiddetto animo buono (leggasi: meno captivus) è “di accordare alla sua vittima lo stesso grado di realtà che a se stesso”.
Captivus, prigioniero di un ente, che si vocifera sia il diavolo. Cosicché chi non ha simili catene, potrebbe essere più libero? L’alternativa sarebbe vivere coi cattivi e rischiare la propria libertà, o fuggire laddove nessuno ti può nuocere. Ma anche lì saresti come in prigione. Non rimane che l’eroica autodifesa, fisica e psicologica.
“… il godimento che mi procurava il contatto negativo con l’altro dev’essere prevenuto quanto il rimorso. Giacché il rimorso è qui soltanto il rovescio del godimento ed entrambi costituiscono un comportamento diverso dei medesimi impulsi.”
È essenziale che “la reiterazione possa valere come una negazione della distruzione stessa, fino a svuotarla di ogni contenuto, a quegli atti reiterati risponde il numero, la quantità di oggetti sacrificati.”
In ultimo, Klossowski ex-agera più del normale, paragonando il Divino Marchese ai dottori della Chiesa medievale e alla loro delectatio morosa, cioè il piacere fuori tempo, come se fosse un’imposta non ancora versata all’Agenzia delle Entrate.
“Si ritrova sempre, all’origine, il divorzio cosciente da Dio e la perdita del sentimento dell’eterno, che non ha comunque raggiunto l’unione effettiva dell’anima. Ma poiché l’anima fatta per l’eternità non si può alienare, la perdita del sentimento dell’eterno si traduce nella noia eterna dell’anima.” Per dimenticare la propria ferita intima, non rimane che fantasticare delle altrui lacerazioni. Similmente si comporta l’uomo avvilito dal proprio fato che irride un tapino che incontra per strada, oppure una persona di valore che ha qualcosa che non va (magari una pettola che gli esce dalla cinta), fatto che congiunge l’altrui virtù e la propria miseria.
Arma potente, in questi casi, è l’immaginazione capace di creare situazioni irreali, eppure possibili; impossibili, eppure reali. In un film, diceva mia mamma, anche i cani possono parlare. E in quel sacro spazio-tempo, li si può far guaire all’infinito.
“La coscienza di de Sade si trova di fronte alla propria eternità…”, che non è più in grado di gestire, e questo crea un’angoscia inumana. Nell’unità universale, “vi scorge come in uno specchio l’infinito riflesso di diverse e molteplici possibilità perdute per la sua anima. L’oltraggio da infliggere a Dio consisterebbe dunque di cessare d’essere quell’anima da cui egli ha tratto dal nulla, ritornando istantaneamente a tutte le eventualità contenute nel nulla, preliminari alla vocazione dell’anima, a una pseudoetenità…” Non più immortali nell’anima, i personaggi del Divino Marchese “si candidano alla mostruosità integrale.”
È doveroso finire questa disamina con le sagge parole di quell’impietoso e atemporale Signore: “Concepivo orrori e li eseguivo a sangue freddo: potendo non rifiutarmi niente, per quanto dispendiosi potessero essere i miei progetti di depravazione, li realizzavo all’istante.”
No. Ho deciso di chiudere il discorso con una mia sadica intuizione: Dio c’entra, eccome, ma quello a cui aspirava il Divino Epigono è il Potere temporale Illimitato che, come ha spiegato Pasolini, appartiene solo a chi è Anarchico Assoluto, cioè colui che comanda a tutti e non obbedisce a nessuno, ma soltanto a Sé e a cui, per mantenersi in auge, è essenziale governare in un clima di Terrore. Lui è il Maiuscolo, gli altri no!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Pierre Klossowski, Sade prossimo mio, SE, 2017