“Execution in Autumn” di Lee Hsing: Far East Film Festival 2021, Sezione Classici Restaurati
Per l’imprescindibile sezione del Far East Film Festival dedicata ai classici restaurati, quest’anno la scelta di Oubliette Magazine ricade su un altro lungometraggio taiwanese, completamente differente dal secondo cimento di Hou Hsiao-hsien avvicinato durante la scorsa edizione.
“Execution in Autumn” (“Qiu jue” in mandarino) è il terzo e ultimo film con cui Lee Hsing (aka Li Hsing) ha vinto il premio per la miglior regia ai Golden Horse Awards e il secondo dei sei che tra il 1965 e il 1980 si sono aggiudicati il riconoscimento più ambito: gli altri sono “Beautiful Duckling”, “Land of the Undaunted”, “He Never Gives Up”, “The Story of a Small Town” e “Good Morning, Taipei”.
Scelto per rappresentare il Paese agli Oscar del 1973 al posto di un titolo destinato a conservare una ben maggiore notorietà (“Dalla Cina con furore”, il terzultimo cult con protagonista Bruce Lee), è un dramma rurale ideato allo scopo di assicurare una solida presa sul pubblico, costruito con diligenza e improntato a sani principi morali.
L’ambientazione è essenzialmente dicotomica ma non suddivisa secondo uno schema simmetrico: a farla da padrone è la prigione dove viene rinchiuso Gang (Ou Wen), reo di aver ucciso tre persone, fra le quali una neomamma (il cui pargolo peraltro non è dato sapere che fine faccia), mentre nella casa dove lui ha vissuto un’intera esistenza sua nonna (Fu Pi-hui) ricorre ad ogni mezzo pur di scarcerare il nipote.
Sin dal principio è chiaro a ognuno degli spettatori che le colpe dell’uomo vanno espiate secondo giustizia: l’accusato non si pente del proprio gesto e anzi se ne vanta, il funzionario del tribunale, incapace di farlo rinsavire, non riesce a ottenergli alcuna grazia e la corte emette conseguentemente una sentenza di morte. La stagione però è ormai conclusa e si approssima l’inverno; ancora 200 anni prima della nascita di Cristo, il Gran Cancelliere Xiao He aveva decretato che le esecuzioni delle condanne dovessero avvenire nel rispetto del ciclo della Natura.
In tal modo, restano ancora diversi mesi per riscattare la stirpe dei Pei, che perdendo il suo unico erede finirebbe per estinguersi. In assenza dei genitori di Gang, deceduti prematuramente senza aver messo al mondo un secondogenito, costui può sperare unicamente nell’interessamento della nonna, la quale per averlo cresciuto tra mille vizi si addossa ora la responsabilità dell’accaduto ed è a sua volta additata da un individuo che, giunto all’età adulta, non si riconosce tuttavia in grado di distinguere il bene dal male.
È questo l’assillo che innerva l’intero arco narrativo, la cieca ottusità con cui l’assassino si rifiuta prima di rivalutare e dunque correggere la propria condotta (non solo in merito al delitto, ma anche ai diversi tentativi di fuga e agli ulteriori attentati alla vita dei suoi carcerieri), poi di accettare un destino tragico al quale sino all’ultimo, sino all’inverosimile, crede di poter e di dover sfuggire in virtù esclusiva delle negoziazioni attuate da altri in suo favore.
Il principale fattore di avvizzimento di un’opera che conserva altrimenti una non comune lucentezza esteriore, rivalorizzata dal restauro compiuto dal Taiwan Film and Audiovisual Institute nel 2020, risiede proprio nella ciclica riproposizione, senza rilevanti oscillazioni e aggravata dall’unitarietà di una location tutta sbarre e ceppi, delle ragioni irragionevoli di Gang, messe a tacere alquanto tardi dall’unica figura realmente salvifica.
Ella porta il nome di Lian (Tang Pao-yun), orfanella cresciuta in casa Pei come membra effettiva della famiglia, la quale, realizzando il disegno della matriarca, fa breccia nel cuore indurito di colui che ne diviene marito e nel volgere di una notte oserà garantire una discendenza (non senza essersi in più occasioni rifiutato, un po’ per orgoglio e fiducia nel proprio rilascio, un po’ per amore dell’avvenire incerto della moglie e della prole).
Eccettuando il ristagno del percorso verso la redenzione, obiettivo raggiunto senza alcuno sconto per pubblico e personaggi, in “Execution in Autumn” trionfa l’elegante messinscena di Lee, impreziosita da fluidi carrelli e inquadrature geometricamente definite che catturano i profili migliori di scenografie credibili e sempre funzionali all’azione e alla lettura del racconto; a enfatizzare ulteriormente la tensione contribuisce, e non da ultima, la vigorosa partitura di stampo romantico vergata dal giapponese Ichirō Saitō, l’ultima della sua trentennale e prolificissima carriera.
Voto al film:
Written by Raffaele Lazzaroni
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Rubrica Far East Film Festival