“La carezza della memoria” di Carlo Verdone: l’autobiografia di un amante della solitudine
Dalla peste boccacciana del 1348 al recente lockdown del 2020, la reclusione forzata è occasione per novellare, favellare, raccontare e raccontarsi.

Negli animi più nobili l’isolamento favorisce un processo di introspezione, di raccoglimento onesto di cui la scrittura è naturalmente figlia.
La cornice di una Roma insolitamente quieta e silente, la pace della sua casa – che non è più la casa sopra i portici ma un’abitazione da cui la vista spazia su tutta la Capitale – offrono a Carlo Verdone il destro per regalarci un’altra intensa e sentita autobiografia, La carezza della memoria (Bompiani, 2021, pp. 223, a cura di Fabio Maiello) con la quale egli torna a scavare nel proprio vissuto regalandoci momenti che trascolorano dal comico al lirico.
A metà anni ’70 Verdone versa in una situazione di stasi fino a quando viene notato da due pezzi grossi della RAI che lo scritturano per il programma Non stop. Seguono tre mesi a Torino, dove avvengono le riprese e dove Carlo conosce artisti quali i Giancattivi e i Gatti di Vicolo Miracoli. È la consacrazione.
Nell’ideazione dei propri personaggi Verdone si ispira a tipi umani incontrati nella quotidianità, anche nelle bische. I fasti sessantottini, segnati da sperimentazioni e conquiste, utopie e furore creativo, si spengono nel 1979 con la fallimentare esperienza del Festival dei poeti di Castelporziano. Una delle grandi passioni dell’attore è la musica; un piovoso concerto condiviso con il figlio Paolo sancisce il sodalizio di anime tra il giovane e il padre. Gli impegni professionali non impediscono a Carlo di portare a compimento una ricerca genealogica sulle tracce del nonno Oreste, caduto sul Carso nel 1917, onorando così la memoria del papà Mario.
L’apertura di uno scatolone contenente vecchie foto, biglietti e altri cimeli offre il casus per un viaggio della memoria; un viaggio interiore, come i girasoli di Van Gogh, fatto con gli occhi della mente, o meglio, del cuore. La solitudine non è per Carlo una condizione desolante, una cappa opprimente da cui fuggire a gambe levate come fanno tanti suoi amici.
Beata solitudo, sola beatitudo recita un famoso detto; ebbene la solitudo è per Verdone una dimensione beata e beatificante che gli permette, isolandosi dal mondo e dalle sue cure, di riscoprire la pace e la tranquillità nell’intimo. Questo processo di palingenesi è reso possibile dal ricordo, dal potere rigenerante e vivificante della memoria. Esso è la naturale geminazione espressiva della solitudine.
“Mi pare di aver trovato una sorta di antidoto, una risposta al bisogno di tornare a un presente sereno attraverso la contemplazione del passato”.
D’altra parte la parola ‘memoria’ in latino esibisce la radice del verbo memini, perfetto che ha valore di presente, a dimostrare che le azioni del passato si riverberano e continuano a vivere nel presente. La memoria è un cavallo alato che parte alla ricerca di un vissuto grazie al quale Carlo è quello che è ora, hic et nunc. Ogni cimelio di quello scatolone gli restituisce un’emozione, un brivido, un segmento di vita sopito ma mai dimenticato.
“Io vivo di ricordi, perché sono l’unica prova che ho vissuto e che non sono solo esistito. Ogni ricordo è legato a un colore, il colore della stagione in cui la vicenda è avvenuta. […] Il ricordo è sempre un conforto, una certezza, l’illusione di una vita che continua, fatta di momenti in cui la quiete della memoria riesce ad ammorbidire anche quello che non vorresti ricordare, purificandolo dal dolore. Nessuno te lo può rubare, non può essere inquinato o manipolato. È il tuo film più vero, più autentico. Il film della tua vita”.
Contro il velo del passato premono con forza volti che, seppur offuscati dalla dimensione del tempo, finiscono con il riacquistare un valore plastico, una fisionomia viva e un respiro attuale. Non un sudario quindi, ma il filtro della memoria che restituisce personaggi, anzi persone in carne e ossa che continuano a vivere nell’amato ricordo di Carlo. Ognuno di loro ha lasciato una traccia nell’esistenza di Verdone, un quid che li rende indimenticabili, una scintilla d’immortalità.
Indelebile è il profumo di Maria F., graziosa prostituta dal fascinoso occhio a mandorla. Il tenero affetto che lega Carlo alla ragazza è un fiore non còlto, puro e innocente nella pienezza di una gioventù inquieta. Maria resterà per sempre nella memoria di Carlo come un bocciolo, come l’amore platonico sfiorato con il pensiero e vissuto fugacemente in un paio di pomeriggi romani. “Gli amori eterni sono quelli irraggiungibili” – si dice –; proprio quel rapporto interrotto in fretta – troppe erano le difficoltà – rendono Maria immortale nel ricordo di Carlo.
Dalle brume del passato emerge poi l’elegiaco Guglielmo, giovane rampollo di una famiglia della nobiltà decaduta. I discorsi elitari e anacronistici lo rendono poco popolare; non così per i fratelli Verdone i quali solidarizzano con lui. Guglielmo è un ragazzo solo che assapora la felicità per troppo poco tempo. Nel matrimonio con la graziosa Lorena darà tutto se stesso ma un destino crudele e beffardo si prenderà gioco di lui con un triste funere mersit acerbo.
C’è poi la dignitosa signora Stella, malata terminale che riceve la visita consolatoria di Carlo. Ella è stata una modella e giornalista; il corpo martoriato dal male reca ancora le vestigia di un’antica bellezza. Ma non è questo a colpire Carlo, no. Stella è piuttosto una figura dall’alta caratura morale, una donna che si è immolata per amore e per un amore puro e sconfinato ha sacrificato i propri sentimenti pur di non infangare il nome dell’amato. Una donna eroica, una campionessa di virtù che lascia a Verdone una grande lezione di abnegazione.

E infine tra i ricordi di Carlo irrompe l’impertinente Beniamino, l’autista del padre Mario. Egli conquista i piccoli Verdone con i suoi modi esuberanti. Simpatica canaglia, accattivante e disinibito, se è un mito per i bambini non è visto di buon occhio dalla signora Rossana il cui intuito femminile si dimostrerà infallibile.
A differenza di La casa sopra i portici, dove il narrare è incentrato sulla famiglia, ne La carezza della memoria anche i luoghi assurgono al rango di entità viventi. Tre sono le città che hanno segnato la vita e la carriera di Carlo.
A fine anni ’70 Torino lo accoglie, giovane esordiente nel campo televisivo. La città sabauda è una vecchia signora aristocratica ben lontana dai colori e dal calore della Capitale. Verdone si sente un estraneo tra gli estranei, a cominciare da quel portiere dell’albergo in cui alloggia che non manca di palesargli – pur nell’aplomb di ruolo – una certa antipatia. Eppure questa città che inizialmente si presenta come matrigna si rivelerà una madrina benevola con il figlioccio.
Praga è la meta di un viaggio con Mario nel 1973. Trasferta dai risvolti tragicomici, è vero, ma formativa per il giovane. Nella magica atmosfera della capitale ceca, ad un simposio di intellettuali Carlo conosce il professor Digrin che gli schiude le porte di una grande passione, quella per la fotografia, con consigli illuminati.
Nel 1981 Carlo calca il palcoscenico del teatro Niccolini di Siena, città paterna. “Conquista Siena! Anche se è dura da espugnare…” gli raccomanda Mario. Ma Carlo riesce nell’impresa e, da vero gladiatore, si impone nel luogo che, in qualche modo, gli ha dato i natali. La quadratura del cerchio è completata, il prodigio è avvenuto: Verdone è ormai un artista osannato e omaggiato.
Come già La casa sopra i portici, anche La carezza della memoria è una autobiografia non strutturata in prospettiva diacronica ma secondo uno stream of consciousness che restituisce fragmenta del vissuto pubblico e privato di Verdone.
Tali fragmenta sfuggono al rischio di un’esposizione slegata e caotica; ché anzi il caos è composto in un kosmos, un’ordine superiore tessuto sapientemente attraverso il filo di una memoria lucida e amorevole. Collante che organizza i capitoli in un tutt’uno armonico è uno sguardo benevolo e commosso.
La prosa di Verdone è scritta nel presente, guarda al passato ed è proiettata verso il futuro. Se ne La casa sopra i portici la famiglia è il nervo centrale della narrazione, in La carezza della memoria essa è pur presente come la rete di salvataggio dell’equilibrista. Piuttosto lo zoom si allarga e in questa nuova opera il mondo esterno irrompe nell’atmosfera ovattata di casa Verdone-Schiavina. Amici, colleghi, i figli, fan bizzarri e luoghi contribuiscono a fare di La carezza della memoria un testo aperto, in cui centrale è il rapporto con l’altro e con l’oltre. Oltre i confini di casa, oltre quella dimensione intimista che pure è il tratto stilistico del carattere e della prosa verdoniani.
Written by Tiziana Topa