“La felicità degli altri” di Carmen Pellegrino: una catabasi salvifica

Alla famiglia come destino abbiamo preferito la famiglia come scelta, una scelta molto allargata– Carmen Pellegrino

La felicità degli altri di Carmen Pellegrino
La felicità degli altri di Carmen Pellegrino

La felicità degli altri esprime secondo me un genitivo soggettivo in cui gli solo gli altri sono considerati depositari della felicità, nella misura in cui nessuno può, forse, raggiungere la propria.

Questo è il punto di vista di Cloe, l’io narrante dell’ultimo libro di Carmen Pellegrino edito nel febbraio 2021 dalla casa editrice La nave di Teseo.

Cloe è una donna insicura e sofferente, sempre in fuga e sempre preda di relazioni tossiche: questo, del resto, sembra essere il destino di chi, come lei, da bambina non è stata amata. Nelle sue insicurezze da adulta non c’è tuttavia solo la sua storia, ma è in essa è compresa anche quella del suo fratellino della cui scomparsa lei si sente responsabile.

Cloe non è nemmeno del tutto sicura della storia che racconta, perché molte piccole verità le sono comunicate da persone terze, non come attenuante ma come testimonianza sincera d’aiuto. Sono verità che non la sollevano dai sensi di colpa e di questi il più grande è quello che le impedisce di provare a vivere, ad amare e a restare da qualche parte. Cloe riporta la storia degli invisibili, di sé e di suo fratello, due bambini interrotti o meglio, come dice lei di persone che hanno subito un’abscissione, termine tecnico di ambito vegetale ma opportunamente trasposto alla sfera umana ad indicare la separazione fra le varie componenti di un organismo, termine ricercato ed erudito per la sua chiara derivazione  dal latino abscindere, “squarciare, strappare, recidere”; al contempo la narratrice è consapevole che la sua è “la storia di un’anastilosi”, ovvero di un tentativo di “rimettere su le colonne di un tempio” (in greco l’idea della reiterazione è conferita da ἀνά, mentre στύλωσις significa “colonnato”). Anche questo è un lemma tecnico di un ambito ben preciso, quello storico-archeologico, trasferito alla sfera umana, per indicare la ricostruzione di edifici a partire dalle loro parti, le colonne quindi.

La voce narrante, quindi, per sua stessa ammissione racconta di lacerazioni e di ricuciture: anzi essa stessa prova a tessere insieme i  vari fili per riunirli; già in questo, la metafora indotta della narrazione come cucitura è molto platonica, come del resto in generale l’elemento della separazione e della ricostruzione: cos’è infatti, la filosofia per Platone, se non coesistenza di diairetica (separazione delle idee) e dialettica (ri-attraversamento delle stesse per trovare una loro sintesi)?

E chi è il filosofo, se non colui che, venuto alla luce della conoscenza, riattraversa le ombre della caverna per portare luce ai prigionieri? Egli, in realtà, spesso non ci riesce perché i più non sono disposti ad essere illuminati, per pigrizia. Spesso chi tenta di ricostruire, deve essere egli stesso ricostruito e necessita di un aiuto: è il caso di Cloe.

Cloe, nonostante la sua sofferenza e le persone sbagliate che l’hanno da un lato messa al mondo, dall’altro non amata, ha incontrato i suoi benefattori. Nella direttrice del suo complesso e frammentato percorso esistenziale, fatto di fughe, viaggi, traslochi, partenze e ritorni, resta costante il passaggio dal Villaggio, luogo abissale e infimo dell’Infanzia alla Collina, luogo elevato e nobile, per quanto semplice, dove è cresciuta e si è formata nella Casa dei Timidi, grazie a due genitori putativi d’eccezione.

Questi sono due luoghi mitici, il primo nel Male, il secondo nel Bene e non a caso non sono affatto definiti; l’unico luogo definito è Venezia dove Cloe fa un altro degli incontri fondamentali della sua vita: quella con il Professor T. Si tratta di una persona affine a Cloe, perché anch’egli invisibile: simbolicamente è docente universitario di Estetica delle Ombre, trovata geniale dell’autrice che indica un paradosso, in quanto ammette la possibilità che si possa avere percezione dell’invisibile. Sta a noi cercarlo, come platonicamente (e socraticamente) la Verità. La verità spesso è difficile da trovare, perché essa implica un nostro cambiamento non solo mentale, ma anche etico.

Il professore, con cui Cloe stabilisce davvero un’amicizia spirituale e basata su autentiche affinità elettive, le dice:Dia ombra ai suoi pensieri, gliene dia quanto basta, non se ne vergogni”; e ancora: “Capisco, mia cara amica. Ma è tempo per lei di andare incontro alla sua ombra più grande”. Si tratta di un’amicizia maieutica, perché il professore cerca di aiutarla a partorire una piccola grande verità: “Ma se ci pensa, i sensi di colpa sono un inutile sperpero, una presunzione: noi siamo poca roba, quasi niente, ombre degli uomini che passano […] Cosa potremmo impedire al vento di portarsi via tanta vita?”.

Si tratta di un’amicizia in cui non è mai sottaciuto il reciproco grazie. Dice Cloe:Riuscirò mai a ringraziarla, abbastanza, professore?”; e lui: “E di cosa? Sono io a dover ringraziare lei, mia buona amica. Vivevo tra i non visti e lei mi ha reso visibile”.

Carmen Pellegrino
Carmen Pellegrino

Per questo Cloe deve ridiscendere nelle ombre e salvare dall’invisibilità chi altrimenti sarebbe destinato a morire e riportarlo alla vita, che non coincide con quella biologica; in questa catabasi, tanto dolorosa quanto salvifica, la donna comprende che la sua esistenza può e deve ancora essere utile a qualcuno, che la maternità non è un destino, ma una scelta, esattamente come le hanno insegnato i suoi genitori putativi; impara che ricominciare non significa sprofondare, ma ripartire dalla sua vera casa, quella sulla Collina.

Ho pianto leggendo questo libro: per la storia e per come è raccontata, per i temi forti che l’autrice dimostra di saper trattare con competenza e sapienza.

Ma soprattutto, in un’epoca in cui a tutto si chiede di intrattenere e di essere leggero, mi ha colpita lo stile della Pellegrino: la sua è una prosa sintetica, costruita per sottrazione, per selezione.

L’autrice ha condensato in capitoli concentrati ed ermetici la sua narrazione, senza tuttavia impoverirla: si notano quindi e si apprezzano la complessa costruzione ipotattica dei periodi che tiene desti l’attenzione e il pathos; risaltano le sintetiche riflessioni giustapposte al racconto, come  a chiosarne il senso; si percepiscono infine un’accuratezza e una selezione lessicale, quasi filologica che portano l’autrice a scegliere sempre la lectio diffcilior piuttosto che quella facilior: un esempio fra tutti è dato dalla felicissima “far posta alle ombre” laddove ci aspetteremmo, invece, far posto alle ombre. Fa piacere, infine, la bibliografia finale, non dovuta forse, dato che il libro è un romanzo e non un saggio, ma proprio per questo ancora più apprezzata. Essa testimonia la forma mentis della scrittrice che di mestiere fa anche la storica ed è pertanto abituata alla ricerca delle fonti.

Infine, mi piacerebbe porre una domanda alla Pellegrino. Un mio professore del liceo diceva che ogni genitivo è sia oggettivo che soggettivo. A inizio di questa recensione ho però detto che La felicità degli altri contiene un genitivo soggettivo. Ora mi chiedo: imparare a fare il percorso della propria vita a ritroso, per recuperare le altre, consente di imparare a provare felicità anche per gli altri? Consente perciò a quel genitivo di assumere anche una sfumatura oggettiva?

Con siffatta domanda vi invito tutti a leggere questo bellissimo romanzo, giustamente inserito, da qualche giorno, nella Cinquina del Premio Campiello: ne seguiremo certamente l’esito. Intanto porgiamo un grande in bocca al lupo all’autrice. Ad maiora, semper!

 

Written by Filomena Gagliardi

 

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