Fëdor Dostoevskij: artista incomparabile del negativo
Fëdor Dostoevskij nel suo paese è sempre stato messo in ombra da Lev Tolstoj, il cui “Guerra e pace” è considerato l’opera letteraria nazionale. Come mai in Occidente il primo è diventato un autore di culto?
Dostoevskij è uno scrittore antiletterario: chi ricerca la creatività dello stile non deve guardare a lui, ma a Gogol, e chi ne ricerca la perfezione deve guardare al suo coetaneo Flaubert.
I suoi detrattori lo accusavano di scrivere come un giornalista, e lo era: il suo Diario di uno scrittore, che compariva nella rivista L’epoca, da lui fondata, dibatteva brillantemente i problemi dell’attualità. Non fu mai un cesellatore dello stile, né sarebbe potuto esserlo, se si considera che scriveva i suoi romanzi sotto l’assillo delle ristrettezze economiche e dei creditori.
È inoltre lo scrittore meno classico che ci sia, se identifichiamo ciò che è classico con l’equilibrio e la misura, incarnati invece da Tolstoj. Dostoevskij non ha precedenti, e nemmeno veri e propri seguaci, anche se parte della cultura del Novecento, l’esistenzialismo in particolare, si è richiamata a lui. Veramente, un precedente di Dostoevskij c’è, ma non dobbiamo rivolgerci alla narrativa: William Shakespeare, che nelle sue grandi tragedie rappresenta il caos esistenziale. Nessuno dei suoi personaggi è completamente negativo, anche se soggiace al fascino demoniaco del male, e la dismisura delle sue passioni entra in conflitto con una realtà elusiva, che la ragione è impotente a comprendere.
Anche l’opera di Dostoevskij è caratterizzata dalla dismisura, e i suoi difetti, quali la prolissità e l’inverosimiglianza, sono inceneriti dalle altezze vertiginose verso cui spiccano il volo le sue pagine. Le sue storie hanno il carattere del giallo o, piuttosto, del romanzo d’appendice, con la sua consueta galleria di personaggi – esseri loschi e misteriosi eroi, ladri e ubriaconi, prostitute e creature angeliche nella stessa persona – e di situazioni estreme – intrighi, delitti, accessi di follia, stupri, scambi di persona, lettere anonime, rivelazioni improvvise.
Prendiamo, per esempio, Delitto e castigo, che fu pubblicato a puntate nel 1866: quale altro grande scrittore ha così pronunciato il senso della suspense? Non dobbiamo, però, scoprire l’autore del delitto, anzi dei due delitti, perché essi avvengono in diretta davanti ai nostri occhi. Ciò che ci coinvolge è l’interrogativo sul comportamento conseguente dell’assassino, Raskol’nikov: li confesserà o no? Come potrà risolvere il contrasto angoscioso tra la volontà di potenza e il bisogno di espiazione?
Non molto tempo dopo, riconoscendo nel personaggio un’anticipazione del suo superuomo, Friedrich Nietzsche, refrattario alla sensibilità religiosa di Dostoevskij, risolverà agevolmente il dilemma ignorandone il secondo corno.
Di solito lo scrittore russo viene considerato anche un pensatore, talvolta persino un filosofo. Definirlo un filosofo è improprio, e mi chiedo quanto sia corretto definirlo un pensatore. La sua ideologia politica era limitata e reazionaria: avversava la Chiesa cattolica ed esaltava la Chiesa ortodossa del popolo russo, il quale aveva la missione di rigenerare spiritualmente l’umanità. Certo, i suoi romanzi sono di una complessità intellettuale eccezionale, ma le sue idee non eccellono per la loro profondità o originalità (un discorso a parte meriterebbe Il Grande Inquisitore, il racconto composto da Ivàn Karamazov), bensì per l’intensità, che spesso sconfina nel patologico, con cui sono vissute dai suoi personaggi.
Una caratteristica innovativa dei personaggi dostoevskijani è, infatti, la passionalità con cui soffrono non tanto i loro sentimenti (anche ciò comunque è presente, come un lascito del Romanticismo), quanto le loro idee. Esse non sono mai enunciate nella loro astrattezza, ma s’incarnano nella psiche dei personaggi, diventando la loro ossessione, che li sottopone a un drammatico aut aut e li spinge alle azioni estreme del delitto e del suicidio.
In queste anime affette da turbe psichiche ogni moto dell’animo genera il suo contrario: il desiderio di ferire suscita la voluttà di ferirsi e l’ansia dei gesti più elevati è sedotta dal richiamo dell’abiezione. Poiché ogni idea genera quella contraria e ogni sentimento quello contrario, le antinomie diventano un problema morale, che rinvia a un problema metafisico.
A Dostoevskij non interessano i condizionamenti delle classi sociali (per questo, forse, non è mai stato molto studiato dai critici di orientamento marxista), perché le pulsioni, di cui è preda l’animo umano che lui rappresenta, sono trasversali: non deve trarre in inganno la presenza, nei suoi romanzi, di un considerevole numero di emarginati o reietti della società, perché essi entrano in conflitto con questa non per un risentimento di classe, ma per provare a se stessi il proprio libero, persino gratuito, arbitrio. Anche il romanzo maggiormente ispirato all’attualità russa, I demoni, pubblicato in volume nel 1873, solo esteriormente è una rappresentazione, aspramente critica, del movimento nichilista: in realtà, si configura come un rovente dibattito sull’esistenza di Dio e la scelta del male.
Non ci sono mai in Dostoevskij aperture paesaggistiche: è uno scrittore urbano, che rappresenta un milieu simbolicamente solidale con i suoi personaggi, nebbia che intorbida la visione di sé e degli altri, fango che insudicia e impaccia, vicoli sporchi dove un’illuminazione asfittica è assediata da un’ombra malsana, appartamenti miserabili dove fermentano sordide pulsioni.
La soluzione, o meglio la salvezza, per i protagonisti non arriva mai dall’esercizio della ragione, anzi, quanto più essi si arrovellano con i loro sofismi, tanto più esasperano i loro tormenti – come sarà nel secolo successivo anche per i personaggi di Kafka.
La salvezza è nella sofferenza stessa, quando ai loro occhi infine balena che essa costituisce la loro necessaria espiazione. Su questa mistica della sofferenza e dell’espiazione lo scrittore si guarda bene dal dissertare: non esistono digressioni nei suoi romanzi. Essi richiamano la struttura del teatro, perché si nutrono di azioni e di dialoghi, con cui i personaggi dilaniano la propria coscienza e quella dei loro antagonisti, per un bisogno di confessarsi che collide con lo stesso bisogno di questi ultimi.
È teatrale (il pensiero va ancora a Shakespeare) che la voce di ognuno non sommerga quella di alcun altro: lo scrittore rappresenta ogni verità senza che essa possa ambire a essere più attendibile delle altre. Quando, com’è quasi inevitabile nel genere del romanzo, compare la verità dell’autore, la sua voce febbrile viene affievolita dal contrasto delle voci concitate dei suoi personaggi.
L’antro soffocante di questo artefice delle tenebre, lacerate da vampe improvvise, infatti, non provvede risposte, ma attizza dubbi. Tutto nelle sue opere è incandescente, e l’azione, di durata piuttosto breve, non conosce linee rette, ma una tortuosità che aggruma nelle sue spire episodi cruciali, tentati di rivendicare uno statuto di autonomia dalla narrazione. Il lettore, se esce frastornato dal confronto con questi romanzi, non può che invocare l’aria pura e limpida di quelli di Tolstoj.
Written by Antonio Benedetti
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