“Il dolore perfetto” di Ugo Riccarelli: la storia di due famiglie nell’Italia di fine Ottocento
“Il dolore perfetto” di Ugo Riccarelli (Mondadori, Milano 2004, Premio Strega) svolge il nastro trasportatore della storia di due famiglie italiane, aventi peculiarità caratteriali e convinzioni politiche diametralmente opposte e confliggenti.

Il tema, assai sfruttato sin da Ovidio che narrò nelle Metamorfosi le vicende dei babilonesi Piramo e Tisbe cui si ispirò Shakespeare per i suoi Giulietta e Romeo, tuttavia, è il pretesto per trattare con punte di autentico lirismo di giustizia sociale, di sentimenti fra e dentro gli individui e di vicende storiche, sia nazionali che familiari, senza darlo troppo a vedere, con tutta la naturalezza del susseguirsi degli eventi e il saldo sostegno di una strisciante contrapposizione tra le due aggregazioni socio-politiche ed economiche nemiche; delle quali una cessa quasi, sembra, di essere una famiglia in senso affettivo per tramutarsi in feroce macchina per far soldi e l’altra, pur non essendo all’anagrafe definibile famiglia in realtà lo è profondamente (nonostante alcune non marginali crepe interne però, come lo è un figlio, Ideale, che diventa prete senza badare all’ateismo libertario paterno e per questo viene da lui bandito senza pietà).
Una di queste due famiglie, dunque, è quella – per noi lettori priva di cognome poiché non viene mai riferito – del Maestro, un insegnante elementare anarchico proveniente dal Sud (Sapri) che si stabilisce in Toscana nel periodo dell’Unità Nazionale e poi si unisce, come si diceva una volta more uxorio, alla vedova che gli dà alloggio.
In ammirevole armonia con lei – entrambi accettati dalla gente del posto che non sta a sottilizzare sulla tipologia delle convivenze – l’uomo procrea ben presto dei figli dai nomi parlanti: Ideale, Mikhail, Libertà e Cafiero.
L’altra famiglia è la benestante (e spietata) comitiva dei Bertorelli, allevatori di porci e imprenditori in genere, privi di scrupoli e mischiati alla politica per mere convenienze di potere economico, i quali da sempre si chiamano come personaggi omerici: Ulisse, Telemaco, Achille, Elena.
Centrale fra questi la figura di Ulisse, il cui progressivo scadere in una follia ideologica, depravata, aggressiva e implosiva simboleggia la totale perdita di raziocinio e sensibilità di certa imprenditoria italiana rampante e violenta.
Ambientato in una zona non ben precisata della Toscana, non troppo distante dal Tirreno, contrassegnata da nomi di località come Padule (lo stagno nelle vicinanze dell’abitato), Piana, Colle (il paese stesso), il Prataio e via dicendo, in maniera, credo, da evitare claustrofobie localistiche, a cominciare dall’Unità d’Italia e fino al secondo dopoguerra, il romanzo di Riccarelli possiede diversi meriti.
Innanzitutto quello di coinvolgere e immergere emotivamente il lettore sia nell’affabulazione della elegante ma mai aulica lingua letteraria in cui è scritto, sia negli eventi, sovente drammatici e brutali di cui è tessuta la storia.
Una piccola dimostrazione di ciò credo sia presente nel seguente stralcio, in cui si mostra una delle figure più luminose dell’opera, la forte, passionale e intelligente Annina (la quale, appartenente ai Bertorelli, ha sposato Cafiero, figlio del Maestro venendo così ostracizzata dai suoi) in un frangente tremendo:
“… una sera, la stessa del giorno in cui l’anarchico Lucetti attentò alla vita del Duce di Roma, l’Annina, non vedendo tornare Cafiero dal Padule, ormai a buio fatto gli scese incontro lungo la strada con un presentimento angoscioso nel petto. Attorno tutto improvvisamente le parve deserto, con un’immobilità che non preannunciava nulla di buono. Iniziò a piovere, e sotto quel pianto del cielo lei si sentì altrettanto disperata. Ben oltre la fornace vide la bicicletta di Cafiero a terra, accanto al muro. La raccolse e si aggrappò a quel ferro nero come a una speranza, poi chiamò, urlò, mischiò le sue lacrime a quelle della pioggia, riprese a scendere verso il Padule e prima del canale grande lo vide, seduto accanto a un paracarro. Allora lasciò andare la bicicletta e si precipitò da lui, e gli asciugò il sangue con le mani, e gli baciò gli occhi chiusi dalle botte, gli carezzò le mani scorticate, e pure se lei era uno scricciolo e lui una montagna di roccia ormai spezzata riuscì a sollevarlo e ad appoggiarselo alle spalle, a convincerlo con le parole più dolci a muovere lentamente le gambe, un passo alla volta, un bacio dopo l’altro, e in quel modo, come una pietà scolpita da un artista pazzo e crudele, si riportò a casa quello che restava del suo uomo, urlando nella pioggia contro Soldani e il Duce, contro il Re e quel farabutto di Telemaco, e contro la viltà di quelli che se ne stavano chiusi in casa a lasciar morire libertà e compassione che ormai nessuno più conosceva, animali vigliacchi che non erano altro.” (Pag. 215)

Ora, io credo che questo passo dimostri l’ottima leggibilità dei periodi lunghi, se gestiti da penne sapienti: quando l’arco drammaturgico di una scena viene fatto lievitare fino all’acme, interromperne il ritmo sarebbe assolutamente controproducente per tutti sia per l’animo del narratore che è visibilmente coinvolto nell’episodio e sia per la sensibilità del lettore che analogamente si sente presente di fianco ai due protagonisti, Annina e Cafiero, dentro la lugubre notte e sotto quella pioggia pestilenziale e diabolica.
Un secondo, ma non secondario aspetto edificante del “Dolore perfetto” è il suo render conto della Storia politica e civile del nostro Paese senza lesinare responsabilità etiche e morali a chi ce le aveva e prioritariamente al ceto borghese e nobiliare che, in larga parte, appoggiò le sanguinose repressioni antioperaie e anticontadine di fine Ottocento e del 1919 e, subito dopo, sostenne senza tentennamenti il fascismo all’atto della sua ascesa e presa del potere.
Quella borghesia al nero, finanziariamente interessata quanto moralmente misera o insignificante, pertanto, certamente non nella sua interezza ma senza dubbio in grande misura fu la vera colpevole della sciagura del Ventennio… con quel che ne seguì.
Un libro da leggere. Una scrittura stilisticamente interessante e umanamente rilevante e appagante.
Written by Sergio Sozi