“Il silenzio dei giorni” di Rosa Maria Di Natale: Catania, la città nera nella luce accecante

Il silenzio dei giorni”. Chissà perché quel titolo?

Il silenzio dei giorni di Rosa Maria Di Natale
Il silenzio dei giorni di Rosa Maria Di Natale

La mia famiglia ignorava altre forme di esistenza che non fossero quelle possibili a Giramonte.”

Un mondo, un sistema cosmico, almeno apparentemente, chiuso.

Ero felice? Eravamo felici? Ancora oggi non saprei rispondere.”

Ove nessuna esperienza cessa di avere riferimenti futuri.

“Sapevo che ogni evento, anche minuscolo e insignificante, avrebbe potuto rivelarsi utile il giorno dopo, o un anno dopo. Avevo sviluppato un insolito talento per la mia età: mettere insieme le cose accadute, le cose dette o pensate, per osservarle con attenzione. Poi riuscivo a legare tutto e a collegare le storie. Era un gioco divertente e mi faceva sentire grande, potente.”

Un silenzio assordante, la cui eco di rado cessava.

“Ai miei occhi i compaesani apparivano diversi, di una diversità difficile da decifrare anche per me, che pure ero uno di loro.”

Un frattale tra i frattali, all’interno di un frattale immerso in un frattale di un frattale.

“… la polvere lavica. Una volta l’anno, almeno, la Montagna vomitava lava che nelle nostre teste e nei nostri polmoni arrivava sotto forma di finissima sabbia nera.”

Quando, metti caso, due adulti bisticciavano, non bisognava prendersela con gli umani, ma con un che di irrimediabile: “La colpevole era Catania, invece, e la perdizione della città nera con poche arance e con molto disonore.” – è un disonore a chilometri zero, da difendere con le unghie.

Come quello di mandare un figlio a studiare col rischio di far risuonare per anni il detto: “Cu’ di sceccu ni fa mulu u primu cauciu è do’so’”

Catania, questa nera e sconosciuta città… Che mi ha colpito per la determinazione della sua gente, anche se non so cosa intenda dire con questo. Più chiaro e icastico il detto catanisi corna tisi.

Ah, dimenticavo, memoria di due anni fa. Stai passeggiando per strada in una traversale di Via Etnea. Senti un rumore di macchina dietro, sulla destra. Buttati subito sulla sinistra, se vuoi evitare di essere sfiorato da quel bolide.

“L’Etna è una gigantessa nera, fredda di neve solo due mesi all’anno ma con una pancia di fuoco liquido pronta ad aprirsi quando uno meno se l’aspetta.”

Perciò femmina.

“… ci sono strade larghe e lunghe. Ci sono i semafori e…”

E poi la più assurda delle stranezze: “In città non ti conosce nessuno. Puoi camminare senza essere salutato da nessuno…”

Tutto è relativo e panta rei. Non riuscivamo a fare un passo in quella via Etnea senza essere intercettati da questuanti con servizio annesso: tipo poetastri di strada con poesie vernacolari a pagamento, negroni (in realtà brunoni) che desiderano donarti per pochi euro degli elefantini del loro colore, per non parlare dei camerieri che ti invogliano a mangiare nella loro lucànna di lì a qualche ora.

L’io narrante ha un fratello di nome Saverio, che è il vero eroe della storia, almeno finora. Uno che compie gesti, non così eroici, ma difficili sì, e assai capace di “prendere decisioni, anche le più impopolari, e per questo lo invidiavo.

Un esempio da seguire, maledetto dalla sua stessa storia.

“Poco fa ne parlava al femminile. L’Etna come una montagna. Invece è imponente, ben piantato sulla città. Maschio, l’Etna da lontano, mi è sembrato maschio. Credo che quella fosse via Etnea, giusto?”

Chiedersi se quell’Essere vomitante fuoco sia maschio o femmina è come chiedersi se lo sia il Male, o il Bene. La terra su cui scorre la lava diventerà in tutti i casi la più fertile.

In paese la gente poco parla, ma “la magia delle parolacce a Giramonte e in chissà quanti altri paesi popolati da uomini veri come mio padre coincideva con la magia della mascolinità.”

Gli uomini non schietti sono quelli educati, ambiguamente femminei.

“Ci chiedevano di essere maschi ancora prima di diventare uomini…”

La massima fortuna per chiunque era di non dover abbandonare il luogo natio, per essere invece “costretto a immaginarsi in un mondo nuovo.”

In paese si può, oltre che imprecare, anche ciciuliàre, far pettegolezzi, “con sommo compiacimento se di mezzo c’era il sesso”.

Saverio frequenta Matteo, un “crasto”, cioè “un puppu co’ bullu, un frocio con la certificazione”, e subito papà suo provvede alla cura: cinghiate e, come premio di consolazione, una visita non troppo riuscita a una puttana di nome Sofia, forse perché assomiglia alla Loren.

Poi tocca alle femmine, la mamma e soprattutto nonna Mela, che lo sottopone a un rito con “una tiritera bisbigliata un po’ in finto latino, un po’ in dialetto.”.

L’io narrante chiede a Saverio cosa sia successo, ma ne esce poco. “Eravamo fratelli, ma ora tra di noi c’erano i suoi silenzi.

Poi qualcosa Saverio dice, che la nonna: “ha chiesto al Signore che io possa andare a Catania per studiare, e diventare uno importante.”

E aggiunge, poco dopo:Mamma crede che io sia strano.”

Fontana di Rodio - Photo by Stefano Pioli
Fontana di Rodio – Photo by Stefano Pioli

In casa si parla sempre meno, si tace molto, e sempre a proposito.

Mentivo anch’io a mio padre. Avevo imparato a farlo molto bene. Avevo imparato da Saverio.

Lui a Catania e io sperduto tra le voci della fontana.”

Quando il paese è piccolo, la gente è tanto prevedibile quanto misteriosa.

Così la vita intorno alla fontana divenne arcana pure per me.” – la fontana della zia Razia, la zia Grazia, in un angolo che oggi non esiste più.

Stavo pensando alla fontana lignea di Rodio: fatta fuori un triste inverno, per motivi sconosciuti.

Succede quel doveva accadere. Una tragedia per due, Saverio e Matteo, morti uccisi.

“… il tempo trascorse indifferente a tutto quello che era successo.”

Lui rimane quello che è (o non è), mentre tutto il resto muta il suo aspetto.

“… È solo una triste abitudine a rimandare. Tanto prima o poi sarà la storia a venirci a cercare.”

Per prima cosa, a Milano, lo zio Paolo portò l’io narrantea vedere il Duomo”, tappa d’obbligo, una specie d’iniziazione per i profughi di qualsiasi specie.

Tutto cambia quando nulla cambia. Papà e mamma seguono il loro destino. L’io narrante è ora a Milano.

“Pensavo ai filosofi che avevo studiato e alle loro ipotesi sulla morte, ma non erano le stesse lacrime che avevo versato per Saverio.”

Per fortuna “il cancro diede a mamma tutto il tempo a mettere le cose a posto.”

Lascito materno: “… Quant’è pesante questo masso, figlio mio. Sono costretta a spostarlo sul tuo, di cuore, ma lo faccio con la certezza che il coraggio di Saverio sia passato a te già da qualche tempo…”

Tutto questo l’io lo racconta ad Armeni, un collega milanese a cui si sta confidando un po’ troppo, forse. Oppure il suo è un proponimento meditato.

Il racconto dell’io narrante è, per lo più, ma non sempre, questa specie di confessione, che pare quasi la consegna di un fardello che lo sta angustiando da troppi anni.

A cinquant’anni l’io narrante ripensa al “peso troppo forte per un ragazzino” che poteva solo “rimescolarti l’anima e il cervello.”

La nostra vita è spesso costruita sulla cenere vulcanica di chi ci ha preceduto. L’io narrante torna a Catania, un paio di volte in poco tempo, per seppellire gli ultimi morti e poi il suo dolore.

“Adesso però la destinazione non era il paese, ma la città nera, che mi era ancora, incredibilmente, sconosciuta.”

L’io narrante,Giuseppe Giunta, una volta detto Peppino”, ormai era un profugo milanese, quanto lo era catanese e giramontese.

Un profugo ovunque si trovasse. Capace ormai di cogliere le differenze e le similitudini: “Mi voltai a guardarla e ne ammirai l’andatura molto femminile, ma dissi a me stesso che alcune signore si affrettavano alla stessa maniera a Milano come a Catania.”

Poi, Catania non era tanto nera come si ricordava, “niente che richiamasse l’immagine che mi ero fatto della città del peccato. Solo una luce impudica, quella sì, troppo sfrontata per me.”

Meglio tornare subito Altrove, dove la vita luccica un po’ di meno.

Rosa Maria Di Natale
Rosa Maria Di Natale

Nella Nota dell’Autrice si dice che la storia è ispirata all’ammazzamento diGiorgio e Toni, due giovani omosessuali”, ma questa è una storia inventata, che è stato soltanto richiamata da quella vera, e ora non meno reale “della vita che siamo chiamati a vivere.”

Il racconto rimane sospeso dentro di me anche dopo che l’ho finito di leggere. E non sembra cessare più di narrarmi la storia di Saverio, di Matteo, e del fratello che capì poco o nulla di quello che era accaduto, per lunghi anni, durante i quali la vita gli prospettò nuovi orizzonti privi di montagne nere e minacciose.

E quando Giuseppe seppe infine la verità, tutta in un colpo, preferì allontanarsi per sempre dalle sue radici, in cerca di quel che non gli era ancora apparso.

A che pro rimanere a macchiarsi di una terra non più così nera, ma sotto una luce così impietosa? Meglio inseguire quel suo raggio speranzoso e continuare il suo viaggio Altrove.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Rosa Maria Di Natale, Il silenzio dei giorni, Ianieri edizioni, 2021

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *