“La casa vivente” di Andrea Staid: riparare gli spazi ed imparare a costruire

Advertisement

Tutto il mondo è paese e paese che vai usanze che trovi.

La casa vivente di Andrea Staid
La casa vivente di Andrea Staid

L’autore si trova ora in un villaggio Zdao (Vietnam), costruito su palafitte situato a duemila metri di altezza e sta spiegando ai locali che “dove abito io, quando siamo in casa, andiamo a dormire o usciamo chiudiamo quella porta a chiave.” L’indigeno rimane esterrefatto e chiede: “E non avete paura?

Noi non ci riconosciamo nella comunità in cui viviamo e abbiamo paura di quello che si colloca al di fuori del nostro nucleo familiare”.

Capisco entrambe le posizioni. Mi chiudo in casa (tirando la porta, senza però girare la chiave), ma quando scendo in garage a far pesi, appoggio soltanto la porta. Non si sa mai, se mi sentissi male…

L’autore spiega che il cortile delle nostre case è comune, per cui (assurdamente!) nessuno è autorizzato a gestirne gli spazi in modo individuale. Non può mettere sedie, fare comunella con i condomini, ridere, scherzare, gridare. Può anche esistere un regolamento condominiale che non consente un’utilizzazione del cortile diverso dal camminarci sopra per uscire in strada o per tornare alla propria dimora.

Nei giardini condominiali non si possono lasciare le biciclette, non si può mangiare tutti insieme né giocare a pallone, perché non sarebbe decoroso.”

La cosa appare sorprendente a quei palafitticoli:i miei interlocutori mi guardavano come se fossi un folle, e in effetti è piuttosto assurdo che il nostro modo di vivere lo spazio comune coincida con il vietare qualsiasi relazione del collettivo e che tutto quello che abbiamo fatto sia stato creare norme che ci impediscono di viverne il potenziale relazionale e sociale.”

Quando ero ragazzo, il cortile era zeppo di condomini e di vicini di casa di tutte le età. Si poteva giocare a pallone, ma occorreva stare attenti a non gettarlo nell’orto, che non si doveva assolutamente pestare. La cosa occorreva di frequente e scatenava le grida degli anziani e la periodica fuga di noi marmocchi verso altri lidi.

Col progresso è tutto cambiato. Le famiglie hanno spesso meno di due figli, a volte nessuno. Io scendevo in cortile e m’incontravo con frotte di coetanei. I miei figli, per vedere gli amici, dovevano essere autotrasportati dall’altra parte della città.

Si dice che i nordici siano meno comunicativi di noi. Noi oggi lo siamo molto meno dei nostri avi.

Per la maggior parte degli abitanti della città informale, degli ecovillaggi, delle case occupate o per i travellers, la casa non è quasi mai separata dall’ambiente che la circonda; al contrario lo modella, lo ricrea e lo vive in sintonia con esso.” S’influenzano a vicenda.

Cito a mia volta la frase di Borges citata dall’autore, nel primo capitolo, dopo l’Incipit: “Ogni dimora è un candelabro dove ardono in appartata fiamma le vite.” È una ricerca di ordine, contro l’entropia causata dal mondo.

Ancor più centrata è quella di Freud:La casa è una sostituzione del ventre materno, della prima dimora.” Il primo luogo dove l’ordine è essenziale per la vita.

Ora tocca a Heidegger:Nell’abitare risiede l’essere dell’uomo.” Preferirei adoperare il termine esistenza, ma il senso dovrebbe essere quello.

Benjamin:il bozzolo in cui gli esseri umani prendono forma.” – e dove la mutano giornalmente.

Come costruiamo lo spazio ci identifica e modifica i nostri comportamenti in modo concreto…

Anche oggi, dove abito non c’è bisogno di un antifurto. Invecchiando, i condomini si alternano nel controllo del territorio. Nel palazzo a dieci piani dove risiede un amico, nessuno conosce nessuno, nemmeno quelli del proprio pianerottolo. Unico punto d’incontro: l’ascensore, dove basta un Buongiorno o un Buonasera per sentirsi della stessa specie animale. Dove una parola in più sarebbe di troppo.

“Dunque i luoghi che abitiamo costruiscono, in relazione al paesaggio che li circonda, significati simbolici e affettivi che si riflettono sul rapporto esistente tra paesaggio, salute e qualità della vita.” La cosa è lapalissiana, ma non sempre ci si pensa.

“… poiché viviamo in un mondo che ecologicamente è sul margine del collasso, è urgente pensare il nostro abitare, ibridando le partiche del passato preindustriale con i progressi del presente.”

Villa Arianna
Villa Arianna

Vorrei mostrare all’autore la bellezza unica al mondo o quasi dell’antica Villa Arianna, d’epoca imperiale, e poi fargli girare lo sguardo sull’urbe moderna di Castellamare di Stabia, che si staglia sullo sfondo.

La domanda sorge obbligatoria, oltre che spontanea: dove li metteremmo tutti questi abitanti?

“… gli esseri umani ‘fanno’ la società proprio come la società ‘fa’ loro”: come il fisico che, interagendo con la particella, la muta e ne è quantisticamente mutato.

“… l’oggetto si fa così soggetto della partica sociale e in quanto tale è in grado di agire e interagire con gli altri soggetti.” – una specie di animismo culturale, molto intrigante.

“… produrre non è tanto un assemblaggio, quanto una processione…” – parola che ha un sapore fideistico, che vuol dire “camminando su un sentiero in cui ogni passo muove da quello precedente a quello successivo, su un itinerario che non raggiunge mai la destinazione prefissata.”: un’urbanistica permanente?

La casa del futuro non deve stare dentro le mura dell’appartamento, ma espandersi tra gli imprecisati limiti del fogliame dei parchi, del Terzo paesaggio, in città come in campagna, cercando di integrare giardini dai confini labili nella riorganizzazione dello spazio domestico.” Non sarebbe male come ipotesi.

Ora l’autore parla di antropocene, la tendenza deleteria dell’uomo di mutare l’ambiente nel bene e soprattutto nel male. E di capitalocene, che è anche il titolo di un recente libro di Silvio Valpreda, poiché è l’uomo capitalista il responsabile massimo del disastro ecologico.

Interessante è la connessione tra il termine landskap, paesaggio, e ting, riunione”, da un lato, l’unione tra “percorsi di vita e di attività, il ting avvolge il paesaggio”; inoltre: “dall’altro, come origine della legge, si rivolge invece al paesaggio tramite le pratiche da esso regolate, riguardanti il risiedere, l’abitare, e il lavoro nei campi.

È un gioco che avviene fra due fronti: l’uomo e le sue necessità abitative, l’ambiente che, esterno, subisce o accoglie, a seconda dei casi.

È triste constatare che viviamo in un mondo in cui gli architetti e gli urbanisti non sono formati e qualificati per affrontare la sfida dell’edilizia sostenibile…”: che non contano quanto la necessità capitalistica che prevede lo sfruttamento di persone, cose, territori.

“… nell’orientamento e nella distribuzione dello spazio interno delle case degli indiani amazzonici, l’uso dei materiali e la loro identificazione convivono con gli elementi naturali dell’ambiente. È forte la corrispondenza tra il cosmo e l’involucro della casa comune, suggerendo una sovrapposizione di due mondi: uno terreno nella base e un altro ‘superiore’ nel cielo della volta celeste, che copre la terra.”

La vita (quotidiana) non è quella di cui diceva Nietzsche: un ponte fra due nulla, ma quel qualcosa che si tocca col dito fisico e con quello spirituale.

“… lungi dall’esprimere fissità e ripetizione, si trovano inserite nel flusso della storia e nei vortici dei mutamenti.”: panta rei, ovunque sul tetto, o sul terriccio casalingo, e ben oltre la propria dimora.

I paradisi non solo si fanno attendere, ma in genere svaniscono all’improvviso: “… lo spazio indigeno non ha vissuto solo un incontro con l’altro ma una vera e propria colonizzazione e distruzione del proprio habitat.” Il Capitolocene avanza imperterrito, senza guardare in faccia a nessuno.

“La casa prefabbricata non ha più rappresentato un corpo, non è più il meta-animale, la meta-persona che cura, nutre e si occupa dei suoi abitanti, ma si è convertita in un dispositivo di chiusura e di esclusione.”un limite invalicabile in cui la parola d’ordine è Verboten!

“La casa nasce, cresce e muore.”: dopo decine di anni, o di centinaia, o di migliaia. A volte è abbandonata a se stessa. Oppure è bombardata, in senso reale e allegorico. A volte è il tempo che la demolisce.

Nella provincia reggiana, in pianura ci si imbatte in frequenti ruderi da (mai) accomodare, che si stagliano per decenni come antiche rovine, non prive di un certo fascino, ma che destano pietà.

Lo stesso molto più di rado capita in collina, poiché l’uomo di città punta sempre di passare in un Altrove più fresco e magico la vecchiaia (o il weekend). E decide di sistemare la vecchia catapecchia.

Ricordo una baracca in cui campava l’unico sopravvissuto di un bombardamento degli Alleati (socalled), nella via dove trascorsi l’infanzia. A metà degli anni Sessanta, cedette i diritti di costruzione in quella sua area di un grande palazzo (sproporzionato rispetto ai fabbricati limitrofi, in gran parte di due soli piani), in cambio di un appartamento moderno costruito gratis per lui, compreso nel medesimo edificio. Nella via esso si staglia come un gigante, munito di un parcheggio esterno. Quando fu costruito però non si pensò a integrarlo allo stile della via, ma a sfruttare al massimo lo spazio.

Noi capitoloceniani, salvo eccezioni “… stiamo vivendo una limitazione drastica delle esperienze sensoriali…”, esistendo in modo meno relazionale, vedendo, udendo, toccando di meno.

L’autore illustra diverse abitazioni primitive ma sensorialmente privilegiate, in varie zone sperdute del mondo, che vien voglia di andare a visitare, ma non a viverci per periodi lunghi.

“Ho viaggiato in terza classe, hard sit, ovvero panche/letti di legno a castello in scompartimenti condivisi.”

Nel 1991, andando a trovare la mia attuale moglie che abitava ad Amalfi, compivo viaggi avventurosi. Da Reggio Emilia partivo alle 20:00. Dopo oltre due ore di sosta forzata a Bologna, pigliavo un treno per Salerno. A volte dovevo cambiare a Napoli. Ricorderò sempre quella Vigilia di Natale che, di notte, fui costretto a respirare il fiato altrui, tutti addossati a tutti, nello spazio adiacente al bagno, anche per via dell’acqua che penetrava dall’alto, a causa di una crepa che si era aperta nel tetto del vagone, per cui occorreva sciugare con la carta igienica, che presto venne a mancare. Conobbi pertanto una famiglia di calabresi, molto uniti nella vita e, per la circostanza, ancora più stretti l’uno all’altro (e anche a me): padre e madre giovani e tre figli, di cui il medio apparentemente autistico, che muoveva il collo continuamente avanti e indietro. Seppi da loro molti particolari della loro esistenza e loro della mia. Ci salutammo da amici del cuore. Mi mancano molto, insieme a quegli anni perduti, e a volte mi chiedo chissà cosa la vita abbia loro donato e tolto.

Oggi non è più così: ancor prima della pandemia, i posti dei treni veloci erano prenotati e ognuno poteva e doveva pensare ai fatti suoi: “tutti rinchiusi davanti allo schermo di un PC, o di un tablet, o che parlano nel loro smartphone ad alta voce.” – come se gli altri non fossero presenti.

Nel treno “che mi ha portato da Goa attraverso Hospet per poi giungere nella meravigliosa Hampi…”, si sta parlando dell’India, “tutti parlano, mangiano, cantano, sorridono e salutano, si puliscono i denti, mani e piedi e impastano prodotti per digerire al meglio le spezie…”, cose che noi umani capitalpandemici non possiamo nemmeno immaginare.

Quando finirà l’invasione virale, potrò ri-farmene un’idea in do pulmàn che reca da Salerno ad Amalfi, dove una volta a un turista del Queensland feci una stramba domanda: “Are the politicians in your country honest?” La risposta allibita fu: Of course! – diversamente, non li avrebbero eletti. Anzi: forse, non si sarebbero nemmeno candidati. E pensare che molti dei primi abitanti del Continente Nuovissimo erano degli ex forzati condannati all’ergastolo! O tempora o mores!

In Italia esiste la cassa previdenziale INARCASSA, che accoglie e sancisce l’obbligo contributivo per ingegneri e architetti, mentre la Cassa Geometri assolve compiti analoghi, ma è mirata ai geometri che esercitano in maniera autonoma. Ognuna di queste figure professionali non manca mai di controllare l’operato dell’altra, perché non fidarsi del tutto è sempre vantaggioso.

Andrea Staid
Andrea Staid

Nell’India del Sud, le “case galleggianti sono formate da tavole di legno unite tra loro da corde di noce di cocco; la cosa incredibile è che, a quanto si racconta, la costruzione è opera di numerosi artigiani che realizzano queste imbarcazioni senza il supporto di un disegno di progettazione, ma le creano strada facendo, motivo per cui le forme non sono predefinite.” Ognuno è ingegnere, architetto e geometra per conto suo.

La ger rappresenta “ancora l’abitazione preferita dalla maggior parte della popolazione mongola, che ha resistito all’immaginario sovietico del palazzo e dell’appartamento alveare.” Chissà fino a quando sarà in grado di farlo.

All’interno della ger ci sono delle funi che penzolano dal tetto, perché: “quando d’inverno tira un forte vento, è meglio che un componente della famiglia a turno stia attaccato alla corda per far sì che la ger rimanga ben ancorata al terreno.” – l’uomo e la sua abitazione avvinti alla medesima sopravvivenza.

“Una tenda mongola è viva e per questa va curata, va rammendata giorno per giorno e può essere montata e smontata; è sicura, perché difficilmente gli animali riescono a oltrepassare feltro e graticcio: è impermeabile, è calda d’inverno grazie anche alla stufa posta al centro, ma anche fresca d’estate perché le pareti di feltro possono essere arrotolate per far entrare l’aria.”una suite imperiale, da come è descritta.

C’è pertanto un notevole risparmio di combustibili fossili, e una mancanza quasi totale di inquinamento ambientale. Il quasi l’ho infilato per scrupolo.

“Capire l’ambiente dove si vive e costruire in modo differente ci dà la possibilità di unire architettura vernacolare e innovazione.” A volte non basta capire.

“… la separazione fra costruire e abitare ha reso più debole il processo culturale di identificazione fra comunità umane e luoghi.”

È un discorso difficile, in un luogo come quello in cui viviamo, dove costruire nel proprio orto una tettoia per alloggiare la macchina diventa un problema burocratico di ardua fattibilità, così collegato a permessi, autorizzazioni varie, non solo da parte degli uffici appositi, ma anche dei vicini di casa.

Ulteriore problema: “gli homo sapiens contemporanei non sanno più usare le mani e sono assuefatti alla delega che viene garantita dalla tecnica” – che appartiene non più all’individuo, ma alla squadra di tecnici.

“Esiste una concreta barriera burocratica che il sistema statale innalza davanti ai progetti proposti dalle comunità che desiderano creare pratiche di autogoverno, barriera che rende impossibile l’autonomia delle comunità.” si chiama assicurazione sociale.

“… la maggior parte dei volontari arrivano nella stagione estiva…” e “non superano mai le venti persone presenti nello stesso momento.”

A prescindere del numero, occorre che i suddetti siano coperti da una copertura antiinfortunistica, che potrebbe essere molto onerosa. La costruzione di una casa ha a che fare con un numero alto di rischi di incidenti, a volte gravi e invalidanti. Questa grana burocratica è una necessità che si deve e che si può affrontare. Specialmente se “in generale gli autocostruttori non avevano competenze pregresse nel campo edile spesso non sapevano neanche usare un avvitatore, cosa che non preoccupava A.F.”, che “è un’associazione che da anni si occupa di promuovere cantieri in autocostruzione familiare.” La legislazione sociale prevede la possibilità di corsi di apprendistato o di tirocinio, che hanno la caratteristica di essere lunghi e costosi. Infatti: “la preoccupazione era più dal punto di vista psicologico e organizzativo.”

La mia opinione è che deve esserci un individuo responsabile o un comitato di responsabile che abbia le cognizioni tecniche e le capacità didattiche di seguire questi volontari. Altrimenti il rischio è grande, a prescindere dalle questioni burocratiche.

“In cantieri dove non c’è l’impresa, le difficoltà più grandi per gli autocostruttori sono la gestione e la pianificazione.” Non c’è dubbio, ma una questione spinosa, che rischia di mandare tutto all’aria e che per questo va monitorata continuamente, è la sicurezza sul posto di lavoro. A tale necessità si fa cenno a pagina 92, quando si descrive il “perfetto kit stile Ikea”, da parte di un’azienda che non riscuote la stima dell’autore, che la definisce “‘mostro’ del turbocapitalismo”, che viene offerto in un modo che “si può riassumere sempre nello stesso modo ‘Vuoi una casa carina e che costi poco? Te lo impacchettiamo e te la spediamo! E poi ci pensi tu a montarla.’ Pianeta U.M.A.N.A. & C., invece, ritiene che proporre una casa in kit rappresenti una falsa soluzione o comunque una soluzione parziale a un problema che è molto più complesso di quello che appare a una lettura superficiale.” umanisticamente.

“U.M.A.N.A.” è “acronimo di unità minima abitabile naturale autocostruita”. Secondo l’autore, l’offerta IKEA celauna serie di oneri organizzativi, progettuali, logistici, legati alla sicurezza sul cantiere, che gravano sui committenti (che spesso ne sono all’oscuro fino a quando ci battono la testa) e che finiscono per decurtare, e di molto, il risparmio sul costo della costruzione, fino ad annullarlo.” Rimane un mistero, per me che leggo, in quale modo Pianeta U.M.A.N.A. possa risolvere le questioni economiche e gestionali di così tanti miliardi di abitanti.

“Se anche riuscissimo a costruire per ogni senzatetto una casa tipo kit Ikea, magari avremmo dato risposta immediata a una necessità impellente (che non è poco, intendiamoci), ma le persone continuerebbero a vivere male, isolate, sole impaurite.”

Empaticamente avverto il bisogno da parte dell’autore di recare quella felicità che oggi manca alla maggior parte delle persone, ma non capisco ancora come si possa tentare di risolvere o quanto meno di ridurre il problema economico e sociale del gran numero di persone che non possono, almeno in questa vita, a costruirsi una casa dove abitare serenamente.

“Pianeta U.M.A.N.A. & C. vuole aiutare le persone che sono in difficoltà perché non hanno una casa non solo a costruirsi un edificio dove abitare, ma un edificio da abitare nel senso profondo del termine. La casa è anzitutto luogo antropologico, luogo abitato dall’uomo. Abitare, abbiamo visto, non è solo stare ma anzitutto esserci, come ci ricorda Heidegger, che dicendo ‘io sono’ intende automaticamente ‘io abito’…” E i problemi politici e sociali che sono a monte? E l’ingiustizia umana che divide il mondo in infinite categorie correlate al censo?

“Questa concezione di abitare i luoghi si ispira ai principi dell’economia circolare, quale modello economico idoneo a rigenerarsi da solo, attraverso gli scarti di consumo, l’estensione del ciclo di vita dei prodotti, la condivisione delle risorse, l’impiego di materie prime seconde e l’uso di energia da fonti rinnovabili.”

La nota 45 di pagina 98 spiega: “Le materie prime secondo sono costituite da sfridi di lavorazione delle materie prime oppure da materiali derivati dal recupero e dal riciclaggio…”

Torno pertanto alla pagina 68, in cui viene spiegatal’esperienza statunitense delle earthships”, di cui un esempio “è dove i materiali utilizzati dall’industria delle costruzioni vengono sostituiti da semplici lattine di birra riciclate e poi intonacate…” Tutto questo è auspicabile, ma anche possibile nel migliore dei mondi possibili. Ho paura che nel nostro subentrino difficoltà insormontabili. Mancano ancora alcuni capitoli alla fine del saggio e mi attendo qualcosa di rivelatore, che ancora purtroppo manca. Esiste la possibilità di diffondere ovunque i semi di questa filosofia salvifica.

A Reggio Emilia c’è Remida centro di riciclaggio creativo, dove (come si può leggere nei social) gli scarti della commercializzazione e della produzione industriale vengono raccolti da una rete di 200 aziende, e poi organizzati e resi fruibili attraverso un’attività di distribuzione a chi lavora nel sociale e si occupa di educazione, cultura, assistenza. Inoltre promuove il dialogo tra sostenibilità e creatività attraverso formazioni, accoglienze ed eventi cittadini sul tema del riciclo.

Visitare quel luogo è come entrare in un piccolo paradiso, non perduto, ma vigente, seppure in maniera ancora marginale, rispetto alle possibilità civili di ogni centro civile. A Remida ho visto cose che voi capitalocenisti non… Gli operatori remidiani, molti dei quali sono volontari, riescono a trasformare il riciclaggio in opera d’arte, grazie a cui il rifiuto di magazzino diventa l’oggetto prezioso che doveva essere all’origine.

Torno al libro di Andrea Staid: “L’ecologia non può che essere che ecologia sociale, attenta cioè come prima cosa a ‘depurare’ le relazioni da ogni forma di coercizione e gerarchia, per valorizzare la varietà la simbiosi e la libertà.”

Remida di Reggio Emilia - Photo by Stefano Pioli
Remida di Reggio Emilia – Photo by Stefano Pioli

L’aspetto che più amo di questa iniziativa è lo scambio di libri. Quanti ne porti, che vengono subito timbrati con la scritta Salvato da Remida, tanti ne puoi prendere. È questo il campo di battaglia ove l’ecologista deve diventare paladino della giustizia. Tanto per parafrasare un modo di dire usato in altri campi, dove uno vale uno. Tanto un cittadino di uno slum metropolitano, quanto chi abita in una villa con orto e piscina.

Sto ora pensando a Padre Bergamaschi, il teologo francescano di cui seguii le omelie e di cui lessi vari libri. Lui propugnava una divisione delle etiche: a ognuno la propria, purché non venisse mai a mancare il rispetto dell’Altro (inteso soprattutto come cittadino, appartenente a un sesso o a una condizione lavorativa). Le sue idee sembrano collimare con quelle di Andrea Staid: il mondo dove esiste la problematica dell’asservimento, per cui un datore di lavoro dice: se mi fai questo lavoro, ti pago, non può che aumentare l’ingiustizia e la confusione sociale.

“La casa intesa come involucro è solo un tassello di un sistema molto più complesso che comprende ambiente, trasporti, infrastrutture, servizi…” La casa diventa in tal modo un unico ambiente in cui tutti abitano.

Viverein una casa di paglia, legno, argilla, bioclimatica, ecologica” disperde ogni benefico aspetto se poi occorre andare a lavorare altrove, lontano dalla propria abitazione.

“Un edificio singolo, pur se costruito in modo ecologico, è molto meno efficiente rispetto a un edificio collettivo.” – in cui si vive socialmente, e non solo individualmente.

La “casa passiva: che non necessita di impianti di riscaldamento o condizionamento…”, in cui vi è una specie di “ermeticità”, che impedisce “infiltrazioni indesiderate” che causino dispersioni del calore.

“Le tante e diverse pratiche possibili dell’autogestione richiedono soggetti che si ispirino al mutuo appoggio e alla cooperazione egualitaria.” – una casa cooperativa, mi pare di capire, ove vige “una logica del ‘noi’ e non quella dell’’io’.”

L’autore poi sviluppa una teoria completa di sistemi esistenziali di tipo ecologico, ognuno dei quali mi pare ragionevole e fattibile.

Ne esamino solo due, gli ultimi descritti. Banca del tempo: tu mi impresti il tuo tempo, io t’impresto il mio, in “un sistema aperto”, dove “non si contraggono debiti”.

Fomentare le economie del dono:costruire economie circolari, basate sul mutuo appoggio e sul dono”, implicando “condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento, riciclo dei materiali e prodotti” durevoli.

Nell’ultimo capitolo l’autore descrive la sua scelta esistenziale, che si svolge quotidianamente in un luogo impervio e remoto della Liguria.

L’etnologo non è semplicemente un osservatore della storia. Ne è un protagonista…”

Come in un qualsiasi rapporto, “Influisce sull’ambiente osservato con cui stabilisce un’interazione, da cui è a sua volta influenzato.

Interessante l’osservazione che “l’etnologo viaggia sempre”, anche se non si muove da casa, grazie alla scrittura: “l’etnologia è un viaggio interno tra due stati dell’anima, tra due stati dello spirito, tra un testo a venire e un testo avvenuto, tra un prima e un dopo.”

Questo capita a ogni forma di attività umana. Esistere è viaggiare da qui a lì, spostarsi nel vuoto cosmico che si riempie grazie a noi.

Quando afferma che occorre “lavorare per la gioia di farlo”, ripenso alla frase attribuita a Marx che bisognerebbe far coincidere il lavoro col tempo libero. Il che è un sogno bellissimo, ma al momento irrealizzabile per alcuni miliardi di persone.

Si tratta, sempre per citare Padre Aldo Bergamaschi, di un’eu-topia, un bel luogo che potrà un giorno esistere. Ma quando? Come? Dove? Non perché.

Frase del sociologo Ellul: “… L’obiettivo da raggiungere sono le due ore al giorno”. Di lavoro. Credo che la maggior parte dei proletari sarebbero d’accordo. Purché lo stipendio permettesse di vivere. Anche questo potrà forse un giorno essere. Ci siamo però eu-topisticamente lontani.

“Per i tupi-guarani la terra senza il male è un luogo senza statuti differenziati e dove le vecchie relazioni sono destinate a scomparire…” – un destino prossimo?

“… si può abitare, ma non risiedere, si può sussistere, ma senza produrre…” – in un dolcefarnulla anti-consumistico.

Personalmente, ho la fortuna di poter alternare tre ambienti diversi. Uno è la mia città di media grandezza, in cui tutto pare funzionare (a parte il controllo dell’inquinamento atmosferico). In alternativa posso recarmi in un paese meraviglioso, un presepe celebre in tutto il mondo, difficile da raggiungere e ancor più da abbandonare. In cui esiste un bell’ospedale (almeno esternamente), costruito svariati decenni fa, mai inaugurato. Il terzo è una contrada non dissimile da quella in cui vive l’autore, in cui risulta difficile accattar i cacciaviti. Dove, se si sta bene, si sta meravigliosamente. Se si sta male, è finita. Quale luogo eleggere come abitazione principale? Forse la mia auto, il treno e ‘o pulmân che mi reca da un luogo all’altro.

“Quello che auspico per il futuro è una crescita zero.”

Il problema incommensurabile è gestire quel che è cresciuto fino ad adesso. Ma prima ancora, occorre vincere le forze economiche e politiche che invece intendono proseguire in questa pazza corsa verso il sempre di più.

“Disobbedire in modo cosciente a norme insensate…” È una specie di disobbedienza civile, con tutti i rischi sanzionatori che essa comporta, maggiormente possibile in una sperduta casa appenninica a 4 chilometri dal mare che in un quartiere metropolitano.

“Affermare che tutto è umano, come fanno gli amerindi, equivale a dire che gli umani non sono affatto una specie privilegiata…”

Se tutto è umano, lo è anche il Potere che ci dirige e manovra senza alcun rispetto.

Non riesco a non apprezzare le considerazioni fatte dall’autore, pur mantenendo uno scetticismo che di certo non aiuta a risolvere i problemi esaminati, ma da cui non riesco a sbarazzarmi.

Giudico l’opera di Andrea Staid come un valido strumento per capire e trasformare il mondo, che può essere utilizzata in minima parte, oppure nella sua totalità, ma solo in caso di quella conversione (in pratica un’inversione a U) che predicava Padre Aldo. Una metanoia a 360 gradi!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Andrea Staid, La casa vivente, Add Editore, 2021

 

Advertisement

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: