“La madre” di Grazia Deledda: un romanzo di anime tormentate
Aar: quale nome più suggestivo per evocare un minuscolo villaggio inerpicato su una collina, con una chiesetta sulla quale incombe un ciglione?

Questa realtà rocciosa è abitata dal diavolo, secondo le cupe superstizioni che opprimono la folla anonima dei suoi abitanti. In questo scenario si muove furtiva una tonaca che confonde il suo nero con le ombre della notte: un giovane prete visita clandestinamente la sua amante, alla quale è avvinto da una passione tormentata.
Credo che il romanzo di ampio respiro non fosse nelle corde di Grazia Deledda: anche quello più noto, Canne al vento, di media grandezza, presenta delle parti in cui l’ispirazione si affievolisce. Quelle della scrittrice di Nuoro erano storie tese, drammatiche, con un numero limitato di personaggi, alle quali si addiceva la misura del romanzo breve. Non ci deve quindi sorprendere la riuscita de La Madre, la sua opera più perfetta, che s’impone con l’autorevolezza di un indiscutibile capolavoro.
Il romanzo fu pubblicato da Treves nel 1920, dopo essere uscito a puntate l’anno precedente nel giornale Il tempo, e ottenne subito il consenso della critica, che questa volta dimostrò uno sguardo lucido. Il suo valore non sfuggì al grande scrittore inglese David Herbert Lawrence, che ne pubblicò una traduzione con un’importante prefazione.
Maria Maddalena (sul simbolismo del nome la scrittrice non insiste, perché la donna viene quasi sempre chiamata “la madre”) è una povera serva vedova che, dopo aver fatto studiare, a forza di grandi sacrifici, l’unico figlio Paulo in seminario, è ritornata con lui a Aar, di cui è diventato parroco.
Qui lei vive con il figlio alcuni anni sereni, finché non scopre la sua relazione clandestina. Allora per la prima volta entra in conflitto con lui, e arriva persino a pedinarlo nel cuore della notte, nonostante la furia contraria del vento. Questo, che nella narrazione è continuamente presente, non è, o almeno non solo, un simbolo, quanto mai trito, della passione del protagonista.
Ad Aar, che si difende dai suoi arcaici timori stringendosi al suo parroco, il vento ha soprattutto sembianze diaboliche.
Allo sguardo angosciato della madre, che, come tutti gli abitanti, non è immune dalla superstizione, appare nella notte il fantasma dell’antico parroco, che d’un tratto era divenuto malvagio e peccatore, uno stregone. Questi rappresenta la cattiva coscienza di Maria Maddalena quando le dice: “tu sei una donna ambiziosa: hai voluto ritornare padrona dove sei stata serva. Adesso ti accorgerai del guadagno”. E più avanti l’ammonisce: “lascia che adesso il tuo Paulo segua il suo destino. Lasciagli conoscere la donna… Dio ci ha messo al mondo per godere; ci fa soffrire per castigarci di non aver saputo godere”.
Questo episodio potente forse è stato ispirato dall’apparizione diabolica, dagli insinuanti modi affabili, che visita Ivàn Karamazov, anche se non ne possiede la problematica complessità – non senza qualche buona ragione Attilio Momigliano ha paragonato la Deledda a Dostoevskij.
La tentazione di giustificare il figlio insidia Maria Maddalena, che ricerca e ottiene l’approvazione inconsapevole di Antioco, un ragazzino che vuole diventare prete. Nonostante la propria pena, la donna prova quasi gioia alle sue parole, ma è solo un attimo, perché quando il sagrista irride l’immagine di un prete con la moglie e il figlio in braccio, lei si turba, scorgendo nel suo riso qualcosa di crudele.
Noi conosciamo Agnese, l’amante di Paulo, dalla rievocazione che la madre compie della sua prima visita a lei, alla quale recava in dono un cestino di frutta del figlio. Di Agnese la scrittrice indulge a rappresentare l’ambiguità dello sguardo, che comunica sentimenti contrastanti – quanti sguardi eloquenti, persino determinanti, in questo romanzo!
Le due donne si fiutano d’istinto: Agnese scorge in lei una rivale, e in Maria Maddalena sorge il primo dubbio. Quando il dubbio diverrà consapevolezza, il suo personaggio conserva comunque un tratto di nobiltà: l’intensità del suo sentimento religioso le impedisce di odiare Agnese, che vorrebbe salvare assieme a Paulo come se si trattasse di una figlia.
Dai ricordi di Paulo noi apprendiamo che da adolescente non era stato sordo alle pulsioni dei sensi e che aveva avuto più volte rapporti con una prostituta del suo paese. La scrittrice non ci illumina, invece, sulle ragioni della sua scelta – se tale è veramente – dell’abito talare. Ciò non deve essere inteso come una diminuzione della statura artistica del personaggio, che attinge a maggiori valori poetici proprio dalla persistenza di qualche zona d’ombra.
Paulo è fondamentalmente un debole, che subisce gli avvenimenti con una sorta di stordita passività. Gioca in lui l’ambizione di diventare un membro dell’ordine sacro e di rappresentare la massima autorità nel paese che gli ha dato i natali da una donna di misera condizione, ma gioca ancora di più il desiderio di compiacere alla volontà della madre. Se consideriamo che, data la precoce scomparsa del padre, lei è stata l’unica presenza costante nella sua vita, perfino in seminario, dove era addetta ai servizi più umili, non è azzardato sospettare nella sua personalità il condizionamento di un complesso edipico.
Con la passione per Agnese, Paulo è costretto a compiere per la prima volta una scelta molto grave in contrasto con la volontà materna. L’amore gli rivela la mancanza di significato di una vita che non è stata veramente vissuta. Con la trasgressione di guardarsi allo specchio, che allora a un sacerdote non era consentito, Paulo vuole riappropriarsi, o piuttosto appropriarsi, della sua fisicità, cioè della sua identità. Ma il suo amore non può che essere in preda al tormento dei sensi di colpa.

Prima ancora di scontrarsi con la madre, Paulo soffre la consapevolezza di mancare al voto che ha pronunciato, e anche il timore dello scandalo nella piccola comunità di cui è il sovrano spirituale. Il suo è un conflitto tra l’obbedienza alla voce severa della coscienza insonne e la compiacenza al richiamo di una vita che lo abbaglia col suo volto più seducente. È anche, last but not least, un conflitto tra istinto materno e istinto sessuale. Chi avrà il sopravvento?
In questo insolito triangolo il personaggio che domina i pensieri e le azioni della madre e del figlio lo vediamo entrare in scena solo verso la conclusione del romanzo, in un drammatico dialogo con il sacerdote. È dominante nonostante la sua assenza o, piuttosto, in virtù di essa? Agnese, in verità, si imprime tanto più vividamente quanto più suscita nel lettore il desiderio di conoscerla da vicino. La sua è un’assenza sempre più angosciosamente presente, e questo modo indiretto di rappresentare il personaggio perturbante della narrazione dimostra quanto sia diventata col tempo letterariamente scaltrita l’autodidatta sarda.
Agnese non comprende le ragioni di Paulo: lei è la padrona di Aar, una donna non più molto giovane, venerata dal popolo persuaso della sua castità, che sfioriva nella solitudine della sua grande casa, e ha investito tutta se stessa nell’amore per il sacerdote. Vuole fuggire con lui per sempre, felice di mettere a sua disposizione la sua ricchezza, senza nemmeno sospettare che nel loro ménage la parte interpretata da lui non sarebbe onorevole.
Quando Paulo si rimangia la promessa di fuggire con lei, l’amante gli ingiunge di partire subito per sempre da Aar, altrimenti l’indomani lo denuncerà in pubblico alla fine della messa. Lei non è donna da compromessi e non è disposta a rinunciare a Paulo, e nemmeno a mantenere una perpetua relazione clandestina con lui.
Durante la messa Agnese rievoca tutta la sua vita (ognuno dei tre personaggi compie, in momenti diversi del romanzo, una rievocazione illuminante per la messa a fuoco delle sue scelte), mentre l’angoscia la sommerge.
Dio non vuole una denuncia che avrebbe castigato anche lei, provocando la sua definitiva perdita, ma lei non può accettare che quella chiesa, costruita da una sua antenata e che considera sua, sia profanata da colui che aveva amato e con il quale aveva peccato. Dio ora le impone di scacciare dal tempio un impostore mascherato di santità.
Di fronte a lei Paulo, vicino a lei la madre, presenza muta di cui la scrittrice tace lo strazio: ognuno con il suo calvario e la solitudine delle sue ragioni. La suspense diventa sempre più intollerabile (chi mai avrebbe immaginato una Deledda maestra di suspense?), in questa che è la messa più sofferta della storia della letteratura. Per chi simpatizza la scrittrice? Per ognuno e per nessuno: di rado lei assume la funzione dell’autrice onnisciente, e preferisce la soggettiva dello sguardo con cui i protagonisti vedono la situazione in cui sono disperatamente coinvolti, e ne distingue e comprende le ragioni.
Anche se non può non suscitare in Paulo la trafittura del rimorso, il finale aperto è un altro elemento che certifica il grande talento di Grazia Deledda: l’avvenire dei due amanti, sospeso nel nulla, è affidato alla penna del lettore.
Romanzo breve, tragedia greca, sacra rappresentazione? Comunque sia, in questa limpida narrazione – nella quale è stata sapientemente ignorata la suddivisione in capitoli –, mistica e sensuale, pervasa dal senso del peccato, sarebbe arduo riconoscere una pecca.
Written by Antonio Benedetti
Bibliografia
Grazia Deledda, La madre, Mondadori
2 pensieri su ““La madre” di Grazia Deledda: un romanzo di anime tormentate”