“Sotto il segno del drago” di Ryūnosuke Akutagawa: la scelta del molto onorevole sennin

Quando leggo un autore, a differenza di quello si dice che facesse De Sanctis e, pare, lo stesso Croce, do sempre un occhio a Wikipedia, specie se l’autore è a me ignoto.

Sotto il segno del drago di Ryūnosuke Akutagawa
Sotto il segno del drago di Ryūnosuke Akutagawa

Scopro che Ryūnosuke è il nome di battesimo e che significa aiutante del drago, anche se, come spesso capita, gli viene solitamente anteposto il cognome; che era alto, circa circorum, come il sottoscritto; che nacque un anno dopo di Henry Miller e che è morto l’anno successivo alla nascita di mia mamma.

Sua madre aveva smarrito la ragione dopo la morte della figlioletta e Ryūnosuke venne adottato dallo zio materno, per cui cambiò il cognome, che prima era quello del padre Niihara Toshizō, Niihara penso fosse il cognome.

Ryūnosuke teneva un faccino delicato e ossuto, con lo sguardo un po’ perduto, come quello di uno che ha spesso sofferto in silenzio le disgrazie della vita.

Amava religiosamente i libri che divorava uno dopo l’altro, un po’ come Giacomo Leopardi e come me (io iniziai dopo la prima giovinezza). Scrisse il primo racconto a 17 anni, che però rimase incompiuto.

Si recò in Cina nel 1918, e in questo suo viaggio dell’anima (amava e conosceva la lingua e la cultura cinese), cominciò a incrinarsi il suo equilibrio psico-fisico. Un suo cognato si suicidò. Un suo amico impazzì.

Per farla breve, decise di seguire il destino del suo affine, per non dover patire ancora i dolorosi effetti della sorte dell’amico.

Morì suicida, insomma.

Il fatto strano, Ryūnosuke, è che da un paio di giorni sto leggendo con avido interesse i tuoi racconti e raccontini, eppure solo ora, che me ne mancano solo alcuni, comincio ad avere qualche idea, chissà se azzeccata, di te, cioè della tua scrittura. Quindi è giusto dire di te.

Il miracolo lo compie la novella (termine che meglio rappresenta i tuoi scritti) Ababababa, tradotto in italiano, chissà perché, Cuccicuccicucci, del 1923, 4 anni prima della tua elevazione finale (quale sennin[1]?).

Un ragazzo, celibe e mi pare un po’ solitario (potresti essere tu?) frequenta una tabaccheria, soprattutto perché si è invaghito (leggermente) di una timida e, come la chiami tu, “ritrosetta” ragazza, un po’ imbranata ma a modo suo graziosissima. M’interessa il finale, quando il tuo sosia si avvede che la tipa non è così sciolta da legami come sperava, ma sta giochicchiando col suo bebè.

Mentre si lasciava la donna alle spalle, gli venne alle labbra un ghigno. Non era più la ‘donna’. Era l’intrepida madre.”

Se ne farà una ragione, però. “Poteva certo farle le sue migliori congratulazioni per la metamorfosi. Ma invece della moglie ragazzina aver scoperto la spudorata mamma…

Non finisce mica qui:Continuando a camminare, levò stordito lo sguardo al cielo oltre le case. Nel cielo spazzato dallo scirocco, una primaverile luna tonda di un biancore accecante si reggeva a stento…

A volte la tua prosa, Ryūnosuke, mi fa gli effetti di un sakè nihonshyu, bevanda che non ho mai assaggiato, che si presume sia una birra che sa di riso. E di cui conviene lasciare un residuo nella tazza.

Torno al primo racconto, L’ebreo errante. Un paio di frasi: “Solo chi è punito potrà essere perdonato, e solo chi è perdonato potrà redimersi. Ecco perché in futuro solo io potrò essere salvato.”

Quest’essere immodesto è un parto della tua fantasia, che sta nascendo da quanto da tempo è radicato dentro di te.

Ogni volta, in quello che ti capita per caso tra le mani, sembri cercare uno scioglimento dai problemi che ti attanagliano dall’infanzia.

Anche nel successivo racconto, Eresia, colgo che tu a tua volta cogli delle avvisaglie perniciose: “segnali di cattivo auspicio, come per esempio l’apparizione di sciami di stelle cadenti sulla sua residenza, la fioritura fuori stagione dei fiori di pruno del suo giardino, il cambiamento del colore del mantello dei cavalli della sua scuderia, che nel corso di una notte diventarono tutti da bianchi a neri, il prosciugamento repentino del laghetto e la morte per soffocamento nel fango delle carpe e dei carassi che vi nuotavano.” Anch’io, forse, avrei cominciato a preoccuparmi, specialmente il fatto dei cavalli.

Obietto a quanto scrive il traduttore: “Racconto incompiuto”. Né l’uno, né l’altro.

Tu l’hai compiuto, perché consta di ben 32 capitoli (corti, ma buoni) e la storia si dipana in vari momenti. Credo che un racconto, come una poesia (o una tragedia, mi ricorda ora Aristotele), richieda un’unità spazio-temporale, e se uno dei personaggi va a letto e poi si rialza la mattina appresso, è già un romanzo, magari mini, o breve a dir si voglia, ma non più un racconto.

La storia si snoda, come si suol dire, in modo complesso e culmina in un modo monco che lascia aperto ogni eventuale scenario (tattica usata qualche anno dopo da Raymond Carver).

È forse incompleta? Esiste problematica più lieve?

In Juliano Kichisuke, che è il successivo, adoro una frase fra le tante che hai scritte (nessuna delle quali la eguaglia, pur essendo tutte ugualmente necessarie): “Trascorsero così dodici anni senza che accadesse nulla di particolare.”

Poi qualcosa accadde. Juliano è quello che si dice un minus, un che an l ē mia colpa sua! Quasi un ritardato. Che però, dopo aver iniziato a pregare, un bel giorno (bello per lui, non so se anche per gli altri): “… sembra che al posto della sua consueta espressione da ebete avesse inaspettatamente assunto un’aria così dignitosa da indurre a pensare che fosse circonfuso da una luce ultraterrena.”

Racconto successivo: La Madonna dalla veste nera. Che io sappia tu non eri cristiano, però…

Una vecchia nonnina prega la Madre di tutte le Madri (e di tutti i Figli): “… Fai in modo che la spada dell’angelo della morte non si abbatta su Mosaku…” – il nipotino tanto caro e di così cagionevole salute. È miracolosamente esaudita fino al momento giusto.

Il successivo è: L’esperto della via dell’amore. Dialogo fra il maestro Dōmyō e un tale, un vecchietto un po’ timido, qualità che da quelle parti non guasta mai. Il maestro è un dandy, tanto per capirci, nu feminaruolo. Dice il nonnino: “… stanotte vossignoria si è messo a salmodiare dopo essere stato tra le braccia di una donna, senza degnarsi di compiere abluzioni. I buddha, i numi vari si tengono lontani dalle impurità, nessuno di loro è accorso, così ho colto l’occasione e mi sono permesso di venire a far visita.”

Il sant’uomo gli chiede di aprire “bene le orecchie”, che deve ora istruirlo.

“Il corpo di ciascuno è pari a quello di chi ha raggiunto il risveglio spirituale. Il percorso vizioso, che dalla illusione tramite l’azione conseguente conduce alla sofferenza, è pari a quello virtuoso, che dalla verità tramite la suprema saggezza conduce alla liberazione. Questo mondo è uguale al mondo dove si realizza il principio ideale.” – poi le continuazioni continuano, non meno intriganti…

Che dire di Inferni a sé stanti? Basta citare le ultime due righe: “Anch’io, infatti, in un certo senso, patisco le torture degli inferni a sé stanti.

Giacomo Leopardi - Painting by A. Ferrazzi - 1820
Giacomo Leopardi – Painting by A. Ferrazzi – 1820

Saigō Takamori: (dedicato al mio amico Riccardo, lo storiofilo): “Ah, storia. Anche tu fra quelli di cui il dottor Johnson si prende giovo. Per Samuel Johnson lo storico altro non è che un almanac-maker.” Chissà se la pensava così anche Giacomo Leopardi, che forse confidava nella vita che non si conosceva, piuttosto che in quella patita.

Salto un racconto, non si deve scrivere su tutto, mi pare di aver capito.

Il tabacco e il diavolo: dove pare che il diavolo abbia portato il tabacco in Giappone, dove arrivò su una nave cristiana, che ospitava anche Francesco Saverio.

Il diavolo si mette di buzzo buono (si dice così anche per lui, tenendo presente che buzzo ha la stessa origine etimologica di buzzecca, cioè trippa) a lavorare la terra perché è sua somma intenzione far crescere quell’esotica piantina, che già tanti lutti addusse agli europei.

C’è un’altra spiegazione: “… udito il suono della campana del tempio buddhista, sulla sua faccia si disegnò una smorfia di disgusto ancora maggiore di quando sentiva le campane di San Paolo, quindi riprese ad arare con foga rabbiosa. A quel soave rintocco, infatti, immerso nel tepore del sole, provava una strana pace d’animo; e andava a finire che gli passava sì la voglia di far del bene, ma pure quella di fare del male.” E “così gli crebbe dentro quell’ansia di prendere in mano la zappa…” – lui che tanto detestava lavorare.

Con un abile stratagemma riesce quasi ad accalappiare l’anima di un novello cristiano dagli occhi a mandorla, ma solo quasi perché questo ne sapeva una più del diavolo.

Il tasso: qualunque essa fosse, “la storia si diffuse in breve tempo fino alle terre della capitale, distanti dal villaggio monti e fiumi…”

La storia e la Storia sono come la Luce: si diffondono e creano le differenze, contrapponendosi alla Fede, e alla Gravità, che tutto identifica nell’Uno.

“Certo che in realtà nessuno mutava aspetto! Però tutti lo credettero. Amici miei, chi può dirlo? E in fondo che differenza c’è fra il sostenere che qualcuno o qualcosa mutasse aspetto e il sostenre che così si credette?”

Aggiunta doverosa:

“Questo non vale certo solo per il tasso. L’esistente tutto non è forse solo quello in cui crediamo?”

Conclusione d’obbligo: “Non dobbiamo forse credere a quanto dimora in noi, proprio come i nostri antenati credevano che il tasso trasmutasse per mescolarsi con gli esseri umani? E non viviamo forse seguendo i dettami di quello in cui crediamo? È proprio questo il motivo per cui non dobbiamo disprezzare il tasso.”

Salto due racconti, uno più bello dell’altro: basta leggerli e si trova tutto.

Magia: “Se volevate praticare la magia, dovevate innanzi tutto rinunciare ai desideri. È chiaro che non avete ancora o spirito giusto.” Ne sono certo, sarebbe troppo facile e San Regalein l ē môrt da tèimp… o a n l ē mai nasū, adiritûra

Ora tocca al mio racconto finora preferito (sono ancora fermo ad Ababababa).

Il sennin: un tale desidera diventare un sennin. Una famiglia di truffaldini lo attira in un tranello esistenziale e gli promette di insegnargli la via per diventarlo, se accetta di servirli gratis per un paio di decenni.

Il tipo accetta e dopo vent’anni chiede se è giunta l’ora. Sì, dice la moglie che è più furba di una volpe, solo se ti arrampichi su quel pino. Poi gli ordina di staccare una mano e poi “adesso stacca anche l’altra.” E il tipo diventa un sennin che trasvola laddove non è consentito l’accesso ai due infami.

E poi scorrono, come un Rodano (Ròden arşân, non un Rhône franco-elvetico) in piena, altri sei o sette racconti, non li ho contati bene, splendidi come gli altri ma che non mi hanno consentito di sottolineare alcunché.

Ora tocca a Cuccicuccicucci, che mi verrebbe voglia di chiamare Ciucciciucciciucci, di cui ho già detto abbastanza. Se non che sarebbe piaciuto a Giorgio Messori e a Borges.

Lo scritto: Yasukichi sei tu? Se non lo sei, ti assomiglia.

Qualcuno lo avverte: “Lei non potrebbe mai fare il critico. Mentre io voglio provare almeno a scrivere recensioni. Prendiamo l’Amleto di Shakespeare. Il carattere di Amelto…”

Tu pensasti o, meglio: “Yasukichi d’un tratto ebbe la grande illuminazione, ecco perché il mondo era pieno di critici.”

Che io non invidio, come un uomo della medicina non proverebbe malanimo nei confronti di un noto cardiologo capace di trapiantare un cuore. Quando leggo un libro non cerco di cambiare gli organi del paziente, quanto di assumere in me parte del loro malessere, nonché del loro benessere. Non tutto, perché non saprei cosa farmene: la giusta dose.

A Yasukichi commissionano un elogio funebre di persona non troppo empatica, mentre era in vita, figuriamoci ora che è morto. “Allora dai posti dei parenti salì un risolino sommesso. Che sembrava diventare man mano una fragorosa risata. Scosso fin nel profondo del cuore, Yasukichi spiò sopra la spalla del capitano Fujita le persone dell’altro lato. Ma scoprì che la risata tanto inappropriata era di fatto un pianto.” Magia della letteratura!

Un suo racconto veniva intanto sbeffeggiato dall’aspirante famoso critico “signor N.”. Capita.

“L’orazione funebre aveva avuto successo, ma i suoi racconti erano fragorosi fallimenti. Nei suoi panni, si poteva capire che fosse depresso. Quando il destino avrebbe calato il sipario sulla sua tragica farsa…?”

Quasi quasi conveniva morire per poi veder il da farsi. D’un tratto sente il bisogno di mingere.

Mentre espleta tale molto onorevole funzione, appare un tipo: “… non potendosi fermare, Yasukichi lentamente si girò il più possibile su un fianco.”

Nonostante l’imbarazzo, “… d’un tratto scoprì che il sole era tramontato e che anche il piscio non si vedeva più.”panta rei, anche la pipi.

Il freddo: un casellante viene travolto da un treno nel tentativo riuscito di salvare una bimba che aveva attraversato imprudentemente le rotaie.

“Dalla stuoia da lontano spuntavano solo le scarpe.” – che sia la fine destinata a ognuno di noi?

“La vista del rosso rappreso sopra il freddo si era subito marcata a fuoco nella sua mente. Non solo, ma dal sangue sopra il binario si levava un leggero vapore.”

Quando morì Gino, mi recai al suo funerale e lì trovai alcuni amici. Quando, con due lunghe fumate, le ultime della sua vita, Gino prese il volo, mi scappò detto: Guarda, Gianni, anche un miscredente come lui alla fine vola in cielo! Rimanemmo a cicalare per almeno un’oretta in quello spiazzo lugubre che assomigliò alla fine a Piazza del Duomo la domenica mattina. Non solo tutto scorre, ma tutto esala.

Ryūnosuke Akutagawa
Ryūnosuke Akutagawa

Qualcosa non è ancora perduto. Yasukichi “sentì che anche nel mondo frigido, un giorno la calda luce del sole sarebbe venuta diafana a risplendere.” – tutti i giorni ri-splende.

Monelli: Yasukichi “trent’anni dopo, pensa sempre che forse non capire le cose per il verso giusto sia la fortuna della nostra vita.” Non riesco a capire bene il concetto, e mi va bene così.

“Le risposte non estirpano le radici delle domande come una zappa. Servono solo come cesoie per fare germogliare nuove domande al posto delle vecchie. Ancora trent’anni dopo, ogni volta che otteneva una risposta, scopriva che portava in grembo un’altra domanda.”

Yasukichi “… aveva scoperto la morte che fino a allora non era riuscito a spiegarsi… Morte era la figura del padre che scompariva per sempre!”

Già da bambino covava il suo problema di futuro da adulto, si fa per dire tale. Per lui “il vero mare era color ocra rossa. Come un secchio arrugginito.” Il dubbio che avessero ragione gli altri, che era invece azzurro, segnò la sua vita.

Un romanzo rosa: Yasukichi si inventa una storia realistica ma strampalata. Il caporedattore (anzi: il Caporedattore) gli dice che non la pubblicherà mai. Non gliene frega nulla, si rivolgerà altrove. “Come prova il dialogo riportato qui sopra, Yasukichi non si era sbagliato nella sua previsione.”

La banconota da dieci yen: “Vendere opere a quella rivista era come vendere la figlia sui marciapiedi. Ma, a questo punto, era pur sempre l’unica che gli poteva dare un piccolo anticipo.” Meglio vendere un racconto che una figlia.

“Lui stesso ieri pomeriggio su quella banconota da dieci yen ci aveva scommesso l’anima.” E aveva vinto, mi sa.

“Mi ci faccio del sushi?”

L’ultimo racconto parla di rettili e di vecchi amori un po’ ingrassati. Passo ora alla Postfazione di Luisa Beniati, Uno sguardo, limpido come ghiaccio. È strano, avrei preferito usare: fresco come la neve. Il ghiaccio è duro, la neve friabile. Ma ognuno la pensa come vuole. Quel che conta poi è la luce di un’aria priva di umidità.

Ryūnosuke “afferma che ‘l’arte deve appartenere solo all’arte senza sottomettersi a niente e a nessuno.’” e anche che: “ogni artista per creare un’opera eccellente dovrebbe essere disposto a vendere l’anima la diavolo.” – che è in lui, immagino.

Si “deve trasmettere immagini, colori, atmosfere, il piacere estetico di una visione d’insieme. Per questo sceglie il racconto breve…”. Quel che conta è quel che si agita nella storia, più che la storia.

Occorre seguire “le tracce dei nostri predecessori. La nostra ‘originalità’ non è che superamento di queste tracce.”

Assume una storia antica e la smuove grazie a nuovi agenti energetici, “per concentrarsi, più che sull’intreccio, sulla dimensione psicologica dei personaggi.”, da cui si separa o, meglio, da cui allenta il controllo, usando la giusta dose d’ironia, ma lasciandoli vivere per conto loro, non legati agli stereotipi tradizionali. “La realtà è ambigua, sempre relativa, sfuggente alla verità. Anche la storia non è verificabile ma è sempre suscettibile di nuove visioni e interpretazioni.”

È falsificabile, come una qualsiasi teoria scientifica.

Vorrei salutarti, ormai mio Ryūnosuke, riportando quell’inquietante tuo ragionamento: “… amare tanto la bellezza della natura e pensare al suicidio, ma è proprio qui, davanti ai miei occhi, negli ultimi istanti, che si riflette questa bellezza.”

Ah, dimenticavo di dirti che stanotte ho fatto un sogno strano. Quale non lo è, dopotutto? Sorbito il primo caffè, stamattina l’ho messo su carta, eternandolo.

Ne parleremo più diffusamente, quando ci rivedremo, dal vivo, intendo. Non solo credo che il racconto ti piacerà, ma ho quasi la sensazione che l’abbia scritto tu!

 

Written by Stefano Pioli

 

Note

[1] Il termine sennin è usato per indicare in Giappone particolari figure di asceti ai quali l’immaginazione popolare attribuiva facoltà magiche. La figura del sennin è di origine taoista, collegata ai rishi dell’India e ai sien o sien-jen della Cina.

 

Bibliografia

Ryūnosuke Akutagawa, Sotto il segno del drago, Marsilio Editori, 2021

 

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