“A proposito del senso della vita” di Vito Mancuso: un grumo di speranza
Quinto libro di Mancuso che leggo: siamo entangled da anni. Ogni tanto, nella mente di questo pensatore si forma una nuova massa logica, grazie alla consueta trasformazione einsteniana E = mc2 e, contemporaneamente, in un’altra parte del cosmo, il suo fido entangled (il lettore ha sempre la folle certezza di trovarsi da solo, a tu per tu con l’autore), varia un suo grado di libertà. Dopo la reazione al libro, il lettore si aspetta sempre che anche l’altro ne muti uno.

Premessa: “Per questo oggi noi siamo sempre meno cittadini e più individui, sempre meno inseriti in reti di reazioni sociali e sempre più isolati nonostante le molteplici connessioni virtali…” Non so: forse siamo inseriti, ma sempre guardinghi e timorosi nel dare.
Dissociati: … nel senso interno, per cui ciò che siamo e ciò che vorremmo essere sono due enti che non comunicano fra loro; e in quello esterno, se manca quella solidarietà che solidificava la vita dei nostri avi. Non c’è più come un tempo l’amore della compagnia, il cui etimo è cum panis, che ora si compra al supermercato, con l’Altro che aspetta la tua uscita per riporre il carrello e pigliarsi la relativa monetina. Quello che tu paventi, Vito, è non solo vero, ma pare attualmente sicuro e inevitabile, almeno finnammo’.
Fede in noi stessi: differenzi fra un Padre Nostro, forse morto o forse no; e una Madre Natura, sicuramente ancora tra noi, anche se non in formissima. Il tuo discorso è poetico, ma irrazionale. Non lo condivido razionalmente, però è bello. E può servire ad andare avanti nel ragionamento. Una volta si diceva che finché c’è vita c’é speranza. È questo che intendi, vero?
La natura intesa come una mamma mi fa ridere e mi commuove al contempo: non so cosa ne pensino le amebe e le lumache, oppure quei pesci che passano metà della loro vita in un gender e poi, chissà perché, si rifugiano nell’altro, entrambi essenziali per la perpetuazione della specie. Se è viva la Madre, lo è anche il Padre? Potrebbe essere soltanto in coma farmacologico?
Ricordo lo slogan che udivo ripetuto a mo’ di mantra quando frequentavo da alieno il movimento di Don Giussani: la Chiesa attuale è l’immagine e la prova della Verità Cristiana. Suonava bene. Era anche vero?
Un bisogno innato o un bisogno indotto?: Concordo pienamente con te, quando dici che “occorre riflettere attentamente su cosa significhi ‘natura umana’ e cosa ‘umanità’”, in un periodo storico in cui pare vigere il “postumanesimo”.
“Vivere insomma significa vincere.”
Vitto: quel che si mangia; risorsa che spetta a chi, invitto, ogni giorno riesce a mettere d’accordo colazione, pranzo e cena e, se c’è, anche un cicchetto. Intanto, fuori c’è sempre il tapino che aspetta il carrello vuoto, ma che ha i tuoi stessi sogni e bisogni.
L’obiezione: “… le multinazionali ci vogliono trasformare in consumatori per vendere i loro prodotti…”, comportamenti analoghi hanno le “istituzioni religiose, che, invece di telefoni e di cosmetici, vendono riti, dottrine, appartenenze…”
Padre Aldo Bergamaschi fu sospeso (e la condanna durò anni) dalla possibilità di officiare il rito della messa pubblica (a lui consentita solo nel chiuso, ma col divieto di esibirla al prossimo!) forse perché nelle sue omelie ripeteva ripetutamente che il cristianesimo era scaduto al rango di religione: in un senso che assomiglia al tuo.
Massimo rispetto per chi afferma, nella fattispecie lo storico Yuva Noah Harari: “L’universo è privo di senso, e anche i sentimenti umani non hanno alcun senso…”
Io direi: ignoro se c’è un senso, ma ricordo che Einstein non confidava affatto in un dio personale, bensì nell’esistenza di un principio, e io gli sono con-fedele.
“Torna così la questione dell’inizio: porsi le domande sul senso della vita corrisponde a un bisogno innato o è solo un bisogno indotto?” Unica risposta corretta: non so se esista la risposta, ma intanto la cerco. Nel frattempo so di essere un ignorante di Dio.
Due tesi: Senso è consenso, ma anche: ‘Il senso della vita è la sinergia”. e “il perno su cui si struttura è il concetto di relazione.”
Un appello alla libertà: Spadroneggiamo sul mondo altrui e siamo schiavi di noi stessi; sintetizzo il tuo ragionamento. Ci comportiamo all’in circa come i mafiosi, i piduisti e i delinquenti di ogni genere ed età.
“La libertà infatti è, a mio avviso, lo stato che contraddistingue una mente che sa e che sa di sapere o di non sapere, e così esprime consapevolezza; è lo stato di una mente che agisce senza ripetere automaticamente quanto ha sempre visto fare ma è capace di novità e così esprime creatività; ed è infine lo stato di una mente che agisce in relazione con l’ambiente rispondendo alle esigenze che ne derivano per incrementarne l’armonia e che così esprime responsabilità.” In tal caso tu dici che un uomo “è libero”. Qualora ci aggiungessi un relativamente, concorderei senza più discutere.
L’uomo più libero che ho incontrato (leggendo) è Krishnamurti, colui che spronava ad “uscire” dal conosciuto e di osservare la realtà come se fosse un serpente (o un’allodola), restando privi di condizionamenti culturali. Liberi da tutto, soprattutto dalla fede, dalla speranza. In quanto alla carità, non so come fosse messo. Non confidava in nessuno, ma forse (non l’ha mai ammesso chiaramente) si affidava alla propria responsabilità.
“Siamo noi i responsabili del senso della nostra singolare esistenza qui e ora. Il senso quindi può esistere oppue no. Dipende Da noi.” Posso aggiungere un magari? Come vorrei essere makarios!
Sentire e consentire: “… il nostro passato, che non è mai del tutto passato, anzi spesso è più presente che mai.”
Nella memoria c’è tutto, anche se la maggior parte delle informazioni sono zippate e occorre il programma giusto per scompattarle.
“Il senso è sempre l’esito di una relazione. A questa relazione si può dire di sì, e allora si ha il consenso; oppure si può dire di no, e allora si ha il dissenso. il primo è un sentire positivo, il secondo è un sentire negativo.” L’importante è che la direzione sia la medesima, che si sia entangled, l’accordo ci si augura di trovarlo, prima o poi.

Qualcosa di più di un semplice sapere: Considerato che è sempre stato un mio sogno superare le asticelle insuperabili e diventare primatista olimpico, ho voglia di tentare di contraddire Wittgenstein, quando afferma: “Noi sentiamo che, persino nelle ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono nemmeno sfiorati.” Inconfutabile, in quanto teoria religiosa.
Stephen Hawking (in Breve storia del tempo) riporta una frase di questo filosofo: “L’unico compito restante per la filosofia è l’analisi del linguaggio”. Su di essa nego il mio consenso.
Molte domande scientifiche non hanno ancora risposta e a proposito non si prevedono tempi brevi. Sarò brutale: Wittgenstein era un sommo genio, ma anche per lui vale il detto tótt i cujòun a gh ân la só pasiòun! Amava appassionatamente il linguaggio. Tu, Vito, cosa ami?
Parli di Platone e della sua sophia, cioè “la capacità di fondazione dei valori essenziali e di trasmissione della sapienza vitale”.
Oggi si assiste a una discordia, un cuore lì e l’altro laggiù, fra scienza e filosofia e questo è il motivo per cui Hawking, che ogni tanto filosofeggiava, teneva a debita distanza i filosofi.
Oggi i fisici sperimentali non sono ben visti da quelli teorici (così assicurava lo sperimentale Lederman, premio Nobel e autore de La particella di Dio), ma alcuni di loro definiscono con un malcelato disprezzo stringaroli e lupparoli, gli scienziati che studiano la teoria delle stringhe e quella dei loop della gravità quantistica.
Tutti, in massa, non valutano granché i chimici (Rubbia li definì una volta non scienziati e poi, accortosi della gaffe, disse che intendeva dire non fisici). I modellisti come Lisa Randall, come sono considerati?
Tutti, tutti, tutti, compreso Hawking, un semplice e complesso cosmologo, mettevano i filosofi da un’altra parte ancora, con l’eccezione degli epistemologi, purché certificati dall’Asl.
È una battuta, ovviamente. Ho un po’ aggravata la situazione, per renderla più avvincente. Non tutti, tutti, tutti, ma in gran parte sì.
Ogni sapere è così complesso, eterogeneo e divergente che ciascun studioso è destinato a coltivare il suo orticello e poco altro: in compenso può leggere di tutto, in silenzio, senza disturbare. Che Aristotele e Platone stiano a casa loro. Prima gli scienziati! Eppure c’è così tanto bisogno dei filosofi e anche dei poeti!
Contraddico nuovamente te (tanto ci sei abituato e so che sei un tipo tollerante), quando affermi: “La differenza epistemica tra scienza e filosofia si riversa sulla questione del senso della vita, il quale risulta chiaro per la scienza e oscuro per la filosofia.” Ancora: voglio essere makarios! Si tratta per me di due diverse gradazioni di chiaroscuri.
Per me non ha senso parlare di vita soltanto dai batteri in su: lo è anche il DNA del virus, oppure il carbonio, l’elio e, volendo parere un po’ volgari, lo stronzio.
Esistono numerosi Z Misteri, che Roger Penrose, recente premio Nobel, definisce come al momento insolubili, fra cui l’arcano che circonda l’ultima parte del tragitto di una particella (mentre lo stesso fisico britannico ipotizzava, pur senza averne riscontro sperimentale, che la gravità potesse entrare nel discorso sulla decoerenza), subito prima del suo arrivo misurato dall’osservatore.
Esiste uno spazio ipotizzato (al di sotto di quello di Planck) ove non valgono quelle leggi fisiche, che noi crediamo fideisticamente di conoscere compiutamente.
Noi crediamo nei principi della termodinamica, che sono attestati sperimentalmente, ma non ne conosciamo la logica prima (l’ontologia) e non possiamo averne alcuna certezza teorica.

Il maggiore logico del XX secolo, Kurt Gödel, definì la teoria dell’incompletezza dell’aritmetica. La religione ha i suoi dogmi. La filosofia i suoi assiomi. La matematica, su cui la scienza è fondata, ha i suoi postulati indimostrabili. In cui non c’è scelta se crederci o no: o mangiare questa minestra o saltare questa finestra.
È l’una, vado ora a pranzare.
Qualcosa di più di un semplice sapere: “… la filosofia e le discipline umanistiche non prescindono dalla dimensione soggettiva…”. Per Bohr la particella esiste solo quando qualcuno (fisico, non filosofo) la attesta.
Sappi che questa visione esistenzialista non apparteneva al suo amico-rivale Einstein, che credeva che ogni corpo esiste di per sé, seppure in modo relativo, consensuale, agli altri. La mia impressione è che questi due eterni duellanti sostenessero le medesime ragioni senza esserne consapevoli.
Secondo l’allievo di Bohr, Heisenberg, qualsiasi esperimento coinvolge lo scienziato che, con la sua presenza e anche coi suoi fotoni, muta il fenomeno osservato. Non è possibile effettuare una misurazione che non sia assolutamente indeterminata, semmai è possibile scegliere cosa, fra posizione e quantità di moto, si preferisce esaminare con maggiore accuratezza, con minore imprecisione.
Tutto è relazione: “… riuscite a nominarmi un ente che non sia un sistema?” No. Qualsiasi ente conosciuto lo è.
Il sottoplanck non è un ente o, se lo è, non ce l’ha ancora spiegato, non permettendo né misurazioni, né l’ideazione di teorie logiche. Non abbiamo in alcun modo il mezzo per arrivare a lui. Possiamo soltanto formulare ipotesi, o creare sogni mentali. La particella è un quid “la cui ontologia è inafferrabile perché è reperibile sia come particella sia come onda.” Altro mistero, infatti. Pur avendo solo un’infarinatura sulla questione, ho le mie ipotesi, da cui non voglio né so liberarmi. Fra i misteri penrosiani, questo mi pare il più abbordabile.
Se ti domandassi se l’aereo vola o cammina, sicuramente sapresti rispondere, come anche alla seguente: ha il carrello o no? Sì, ed è usato per decollare e soprattutto per atterrare. Ma è retrattile? Certo. Cosa ci impedisce di ipotizzare che qualcosa di analogo capiti anche alle particelle?
“Penetrando all’interno della materia, non percepiamo dei mattoncini separati, ma una complessa rete di relazioni tra le varie parti di un tutto unificato.” Un tutto discontinuo o continuo? Chiediamolo al sottoplanck!
Il cosmo è composto soprattutto dal vuoto, che brulica di particelle virtuali che non ce la fanno a esistere, ma che, col loro brigare energetico, permettono alle particelle di nascere e di morire. Non è fantastico?
Parli della solitudine, che a volte è necessaria, del tirare i remi in barca. La natura ha previsto anche questo: il riposo che nel caso umano, è in genere notturno ma che può essere scelto anche in altri momenti. Ove non sia consentito, si è in una situazione di stress che potrebbe recare alla morte per avvelenamento tossico, così parrebbe.
“Persino i quark non sono mai soli, ma sempre in un sistema di tre”, tenuti avvinti l’uno all’altro dai gluoni. Quando i quark sono vicini, la forza gluonica ha un’intensità bassa; quando si allontanano, essa cresce pericolosamente e si comporta come un elastico che, se è tirato all’eccesso, si spezza. Questo avvicinamento-allontanamento mi ha sempre affascinato.
Perché i quark non se ne stanno mai fermi? Perché, come bambini riottosi, vogliono ogni tanto uscire dal cortile paterno?

Rettificare i termini: “… dicevo ai miei figli che quale prima legge decreterei l’abolizione degli specchi.” Va presa per la battuta che è. C’è specchio e specchio, specialmente se guidi, un paio (anche il terzo, ma meno) sono importantissimi per la tua esistenza. E se non ci fossero in casa, faresti delle figure barbine nelle dirette televisive. Però ho capito il concetto. Lo specchio, che esalta troppo il tuo (e il mio) io, è diventato essenziale nei rapporti umani. Se esci con la barba mal fatta (da cui deriva la figura descritta poc’anzi), qualcuno che ti vuol bene te lo fa notare: Ma non ti sei guardato allo specchio? Quest’arnese, che talvolta viene collegato all’anima, è diventato il nostro primo giudice. Non va abolito, ma teniamoci a debita distanza da lui.
Confucio disse che il suo primo atto legislativo sarebbe stato di “rettificare i temini”. Il linguaggio serve per gestire il proprio rapporto col prossimo. I termini, le parole, sono essenziali.
Ma non sono mai terminati, non contemplano termini fissi, per cui, ad esempio, una volta la parola banalità intendeva una cosa e ora un’altra. Essa deriva dal francese ban (da cui bando) del grande signore feudale, mentre ora è diventata sinonimo di pochezza intellettuale.
Chi usa scrivere dev’essere consapevole del fatto che le parole siano sempre da interpretare, per cui bisogna prestare attenzione. V’è un’unica eccezione: la password necessaria per accedere a un programma informatico, che non prevede difformità dall’esattezza. Per fortuna l’uomo non è un computer, il cosmo non è un sistema operativo e il paradiso è un’astuta bugia… O no?
Da piccolo ero timidissimo, almeno finché non avevo scaldato l’aria, dopo di cui mi tramutavo in un ganster (senza la g!) o in ‘na ligēra, una simpatica canaglia, che ricordava un po’ i microcriminali lombardi appartenenti alla ligēra milanese. Eppure non ho mai derubato nessuno!
Le parole nascono, crescono, si mutano, si riproducono, muoiono. Insieme ai loro parlatori.
Il grande Confucio pensava anche a questo?
Di nuovo il buon vecchio Wittgenstein. Delle tre frasi che riporti, cito solo l’ultima: “… credere in Dio vuol dire vedere che la vita ha un senso”. È così, in senso lato. Un lato definito, ristretto, umano, ignorante.
Einstein (e anch’io con lui) sentiva che doveva per forza esistere un principio divino, non personale, ma logico, per cui l’universo era quello che era.
Chiedersi il senso, ovvero non solo vivere, ma anche esistere: “… existere significa ‘uscire fuori’, da dove?” – per dove? Esiste un fuori o un dentro? Non credo. Existere significa quindi ex-agerare, uscire dal campo tuo per dare in quello del tuo prossimo. Ho solo cambiato l’allegoria, ma non la tua idea principale.
Un’altra allegoria: un elettrone svolazza tranquillo in un’orbita e poi ha il ghiribizzo (per fato o per destino?) di spostarsi su un’altra, per cui deve liberare un fotone, oppure inghiottirlo. Ho usato una terminologia impropria, ma solo per dare un’idea. Egli esiste grazie a un’energia che viene definita elettromagnetica, e che è responsabile anche della luce. Fiat Lux: esisti!
Il senso della vita a che età: “Se il senso lo si vede alla fine, il senso della vita è quindi il riposo?”
L’uomo qualunque lavora tutto l’anno e talvolta, se la fortuna lo assiste, si reca in vacanza.
Mia mamma, invece, non ci andava mai. Prima di coricarsi, si lavava per bene i piedi e si rinfrescava un po’ dappertutto. Poi andava a ninna e, talvolta, quando era ancora nel corridoio, diceva fra sé e sé, incurante se qualcuno l’ascoltava: “Che bèla invensiòun l ē al lètt!” Questa era la sua vacanza quotidiana, quando decideva di assopirsi la sera. E non ha mai preso sonniferi in vita sua. Alle cinque era già in azione. Sono sette anni che sta dormendo, ormai.
Cosa capiterà il giorno della fine dell’universo? Tenendo presente il detto, anch’esso materno, che tótt à fîn? Varie ipotesi.
Una grande retromarcia: il big crunch, che riconduce il Tutto all’Uno.

La fine indicata dal secondo principio di termodinamica: Nella mia fine è il mio principio, celebre thriller di Agatha Christie. L’entropia prevede che tutto il cosmo sarà disordinatissimo, tutto ovunque disperso a energia nulla, a meno 273 gradi. Tutto immoto. Brrrr!
Una terza ipotesi, prevista anche da Hawking, ma il concetto fu ampliato da Lee Smolin.
Il fisico statunistense ipotizzava in La vita del cosmo che un universo tanto più garantirà la sua eternità, quanti più buchi neri (materni e accentratori) sarà in grado di produrre. Che poi diventeranno, in un Altrove, dei buchi bianchi, che sapranno partorire altri tentativi di cosmo.
Aggiustare: “… regola + eccezione insieme danno origine a una processualità che costituisce il farsi della vita e del suo senso.” L’eccezione che, come dice il proverbio, conferma la regola, ed è parte integrante di essa.
L’effetto tunnel è un fenomeno quantistico che permette una transizione ad uno stato impedito dalla meccanica classica. Per andare oltre, bisogna recedere da qualsiasi assoluta e imprescindibile classicità, mantenendo solo quelle localmente necessarie. È quasi impossibile che, con tutti gli impegni che hai, tu vada un giorno in via degli Azzarri (dove è nata mia mamma). Un giorno ti ci porterò, contando su quel quasi.
“… perché questa gratuita ineguaglianza e queste gratuite restrizioni?” – perché per essere belli occorre soffrire?
“… è inevitabile che ci sia della sofferenza…”
Il discorso vale anche per la volontà di arrecarla al prossimo? Fai soffrire il prossimo come te stesso? Uccidilo solo quando serve?
Tra le formiche di fuoco c’è una specie di concorso per diventare regina: le operaie le ammazzano tutte, infilzando brutalmente alla bisogna, senza esitazione, anche le proprie madri, sorelle e zie, tranne una. La discendenza sarà solo di quella Miss che si riconosce dai suoi feromoni, è la più feconda, quindi la più utile alla specie. L’ho letto in Le origini profonde delle società umane di Edward O. Wilson.
Il discorso è davvero troppo complicato, specie se un progetto comincia a somigliare al nazista Lebensorn (Sorgente di vita).
Le tre accezioni del termine ‘senso’: lo sai, caro, che un mio amico, per causa mia, non ti vede di buon occhio?
Si tratta di un mio ex guru di quando avevo otto o dieci anni, per cui mezzo secolo dopo mi diverto talvolta (spesso) a prenderlo in giro (e lui lo fa con me), chiamandolo, dopo aver letto il tuo I quattro maestri, il Confuciano, per due motivi soprattutto: è molto più saggio di me e ha una notevole propensione all’obbedienza alle regole che si è imposto. Ovviamente, ho usato una traduzione eufemistica del reggiano a l ē un po’ fisê col règoli. I confuciàn în acsé! E non si può mica cambiarli facilmente.
Non ci crederai, ma quando ci vediamo per una pizza, all’offerta del limoncello finale (e gratuito) da parte della cameriera, solo uno di noi due accetta. Franco (ho sparato un nome a caso) dice che di cazzate ne ha fatte fin troppo da giovane, ora è tempo di fare ammenda.
“Proseguendo la rettificazione delle parole auspicata da Confucio…”, vediamo un po’ “senso”.
Indichi tre significati maggiori: appunto, “significato, sensazione, direzione.”
Andêr a ósta, cioè andare a usta, che è la traccia olfattiva della selvaggina, a intuito. Questo è il senso del senso, quello che ti spinge ad andare, con Totò e Peppino, là dove devi andare. Non si tratta di significati diversi, ma di tre diverse gradazioni dello stesso.
Le tre accezioni del termine ‘vita’: ripete quello che hai specificato precedentemente, cioè “il vivere di chi si lascia determinare totalmente dai bisogni fisici e psichici imposti dalla struttura biologica e sociale in cui siamo inseriti per il fatto stesso di venire al mondo, e il vivere di chi si colloca fuori rispetto a tale struttura mediante un passo in avanti da cui prende origine l’esistenza propriamente umana in quanto determinata e libera.”
Vivo ergo sopravvivo.
Ex-agero ergo existo.

Ti colleghi a tre parole greche: “bíos, zoé, psyché”. Cioè: “siamo biologia, zoologia, psicologia.”
Ho letto qualche libretto di geoviani e su una cosa concordo con loro: l’anima, qualunque ente sia, è il corpo (animale), non è l’anima altra rispetto a quel corpo. La psiche funziona grazie a un biologicissimo circuito elettro-chimico. Anche in questo caso, colgo complementarità e assonanza fra i tre significati.
Superarsi e ritrovarsi: quando la tradizione hindu ricorda che “In verità è identico a Brahman questo Atman”, penso alla teoria dei frattali, per cui un albero assomiglia al suo ramo, un rametto al ramo principale.
Della frase di Arendt, scelgo la coda: “… l’oggetto dei nostri pensieri conferisce immortalità al pensiero stesso…”.
Stupendo moncone di stupenda frase, ma è tutto da dimostrare: secondo Popper è un concetto impossibile da falsificare, non avendo le caratteristiche di una teoria scientifica.
Lo specifico umano: è il capitoletto che mi ha regalato la maggiore emozione, perché dici che “dentro di noi c’è uno spazio vuoto che ci conente di essere e al contempo di non essere ciò che siamo fisicamente, intellettualmente, sentimentalmente.” Che è il luogo che permette l’abbrivio per ex-agerare. Che assomiglia al sottoplanck sopra descritto.
Custodire il vuoto: “… il senso della vita dipende dalla coltivazione del vostro sé. In particolare dalla coltivazione del vostro spazio vuoto interiore.” Che però non deve agire come fa la pianta della salvia che, messa in un angolino, dopo poche settimane invade il resto dell’orto.
In funzione di qualcosa di più grande: il senso della vita è “spendersi per qualcosa di puù grande di noi”.
Io preferisco immaginare: spendersi con qualcosa più grande di noi, in un rapporto eco-solidale.
La manifestazione prinordiale del senso: “… se si cerca Dio non è detto che Dio esista”. Lo stesso vale, tu dici, per il senso.
Istruire ed educare: L’istruzione è importante ma non basta, perché “noi non siamo solo una scatola da riempire”. Siamo anche una scatola da svuotare, se vogliamo liberarci, per librarci più leggeri dell’aria. Catarsi, purificazione… Siamo lettori che assorbono e scrittori che donano. Ogni particella era energia, e ogni energia sarà particella. Eri un grumo di polvere e grumo di polvere tornerai a essere.
Sinergia: “Non è semplice essere semplici.” A volte bisogna parere simpiètt, per non incorrere in complessità che non ci interessano.
Piccoli passi verso la costruzione del senso della vita: troppi, tutti i giusti i consigli che dai, troppi per un simpiètt cme mé! Cercherò di seguirli, ma con qualche deroga occasionale e periodica. Ora ascolta quello che ho imparato dalla lettura di Cesare Boni, ahimé volato troppo in alto da qualche anno. Ecco cosa fa un tipo chiamato me stesso ogni mattina. È una forma di meditazione che assurge a preghiera, anche se non si sa a chi sia rivolta. Si tratta di una pratica che dura appena sette minuti, da svolgersi di prima mattina, per cui anche un tipo instabile come me può realizzare quell’armonia che sente talvolta sfuggirgli. Il primo minuto è destinato alla consapevolezza che il risveglio era avvenuto e che si tratta di un dono, anche se non si individua il mittente. Nel secondo minuto l’orante rivolge a se stesso il proponimento di affrontare la giornata col cuore in mano, in accordo con la natura e, in particolar modo, con il genere più problematico, quello umano. Gli ultimi cinque minuti sono destinati all’ascolto del proprio respiro e a togliere le croste dall’anima. Ahmmm ahmmm ahmmmm. Haaaaaa haaaaa haaaa.
L’aria entra nel corpo, attraverso il naso, le narici, la faringe, la laringe, la trachea, i bronchi, i bronchioli, gli alveoli e, solo dopo aver ossigenato i polmoni, viene in parte espirata. Prima di quel momento, esiste, anzi, non esisteva in quell’attimo da nulla in cui si poteva percepire la coscienza di sé e delle cose.
L’aria viene espulsa dalle narici e dalla bocca, portando con sé i pensieri. E un tipo chiamato me stesso ne ha sempre avuti tanti, di pensieri, buoni e cattivi. Essenziale è fare tutto ciò alla mattina presto, appena ci si sveglia, in anticipo sui rumori della vita, come le amare battute di qualche parente, i clacson delle auto, il ruggire dei motori e il ringhiare eventuale del campanello. Motivo per cui se il tipo chiamato me stesso non si sveglia prima di mezzogiorno, avrà l’urgenza della fame e rinuncerà al tentativo.
A chi, mentre medita, gli scappa di pensare ad altro, Boni ricordava il motto dei Samurai: Se cado tre volte, tre volte saprò rialzarmi. Sempre grazie Boni! A presto!
E, come tutte le altre volte che ci siamo incontrati, grazie lo dico anche a te, Vito.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Vito Mancuso, A proposito del senso della vita, Garzanti, 2021