“Storie del ghetto di Budapest” di Giorgio e Nicola Pressburger: un popolo benedetto da Dio e maledetto dagli uomini

“Guardate ai frutti che nascono su quell’albero di Israele! Io voglio sapere perché tanto dolore e tanta miseria. Voglio sapere che senso ha tutto questo, dove conduce la nostra strada, che destino aspetta noi poveri esseri del distretto più sciagurato del mondo”.

Storie del ghetto di Budapest - Photo by Tiziana Topa
Storie del ghetto di Budapest – Photo by Tiziana Topa

Parole forti. Parole aspre. Parole grondanti disperazione. Soprattutto perché in bocca a uno dei popoli più maltrattati dalla Storia, quello ebraico, il quale più intensamente degli altri riflette sulle grandi questioni etiche del Bene e del Male e sul senso del dolore che tale popolo ha avuto a patire.

Così va ragionando Natan, uno dei coloriti personaggi che affollano le Storie del ghetto di Budapest (Marsilio Editori, 2019, pp. 217) di Giorgio e Nicola Pressburger, ebrei ungheresi trapiantati in Italia. Nell’anniversario della morte di Giorgio, avvenuta nel 2017, l’intensa opera riunisce per la prima volta le Storie dell’Ottavo Distretto e L’elefante verde.

Nelle Storie dell’Ottavo Distretto si susseguono, come in una galleria, i volti degli abitanti del ghetto della Capitale magiara. Si rincorrono le loro voci, si respira il loro umore e si intrecciano le vite di questo popolo errante ed errabondo, di questo “volgo disperso che nome non ha”, come Manzoni definì i Longobardi nell’Adelchi.

L’elefante verde ci porta ancora nell’Ottavo Distretto. Jom Tow produce salsicce, la moglie Ester vende oche al mercato. La coppia ha un figlio, Isacco. Jom sogna un elefante verde e, sottoposta la visione al giudizio del rabbino, quest’ultimo profetizza per la famiglia un avvenire glorioso nella persona di Isacco. Il giovane si adopera per realizzare la profezia tentando di diventare un astro fulgido nel firmamento del calcio e, in alternativa, del gioco degli scacchi. Ma il prescelto non è lui.

Isacco trova impiego come usciere presso una casa editrice e sposa Rachele da cui ha due gemelli, Beniamino e Samuele nei quali egli ripone la speranza del compimento della profezia, mai realizzata ma mai dimenticata. I due fratelli si dividono e lasciano Budapest, alla ricerca del proprio posto nel mondo.

Protagonista indiscusso e sovrano assoluto delle Storie del ghetto di Budapest non è un personaggio in carne e ossa ma una presenza avvolgente e totalizzante, silente eppure prepotentemente viva e vitale: l’Ottavo Distretto. Il turista viene catapultato per caso tra le sue strade, buie di notte, dall’acciottolato di granito e costellate di case dai muri scrostati dall’usura del tempo. Su un lato del quartiere venne scelto un luogo da adibire a cimitero; gli altri due lati dovevano essere fiancheggiati dalle arterie fondamentali della Capitale.

Nel cuore del Distretto Piazza Colomanno Tisza era concepita come polo spirituale e culturale grazie alla presenza del teatro comunale; poco distante sorgeva un complesso ospedaliero e, non lontano, si apriva Piazza Teleky, centro nevralgico del commercio. Questo spazio venne colonizzato da mercanti ebrei che, all’inizio del XIX secolo, si insediarono nelle abitazioni dell’Ottavo Distretto, avviatosi a diventare il ghetto di Budapest, crogiuolo di gioie e dolori, di speranza e disperazione, di attese e incontri.

Ma chi sono gli ebrei attori di quella “commedia umana” che trova in tale spazio il proprio teatro privilegiato? Si tratta di una teoria di tipi, ciascuno con la propria robusta fisionomia e personalità, con il proprio credo e la personale filosofia. Commercianti di generi alimentari e rigattieri, osti e musicisti; e poi lupi e agnelli, sante e puttane. Il loro respiro è il respiro di quel vasto e accogliente corpo nel cui ventre essi si rifugiano, figurine potentemente sbozzate e brulicanti di Vita. Quella Vita che pulsa nel ghetto come sangue nelle vene, come linfa nelle foglie di un albero.

Grazie alla potenza icastica della prosa dei Pressburger possiamo sentir dialogare di finestra in finestra, tra i fili su cui è steso il bucato, la dolce ed eterea Ombra, l’astuta Franja la Volpe, la giunonica Selma Grün. E poi il malaticcio Roberto Leuchtner e il mistico Natan.

Un fil rouge lega le Storie dell’Ottavo Distretto fra loro e queste a L’elefante verde: il tema del denaro che si declina come bramosia e ansia di accumulazione ma anche come mezzo per una dignitosa e tranquilla esistenza. Il denaro passa tra le mani di commercianti e banchieri; se prima della Guerra gli affari vanno a gonfie vele, dopo il conflitto della passata ricchezza restano solo macerie.

“Non era il mercato nero che li spaventava, ma il tramonto del denaro come misura della vita. Per secoli l’unico linguaggio permesso agli ebrei per comunicare con il mondo era stato quello del denaro”.

Vanitas vanitatum, omnia vanitas”, recita un passo del Qohelet. Tutto scorre, tutto passa, anche i patrimoni, come la Vita stessa.

Il multiforme ingegno dell’ebreo, per sua natura versatile polytropos direbbe Omero si aguzza con la necessità e l’animo del mercante risorge dalle proprie ceneri. Anche Isacco ha costruito un piccolo impero e anche Isacco passa attraverso questa odissea; la sua famiglia – che finirà divisa e smembrata – viene colpita da sventure che conducono l’uomo a interrogarsi sul senso della propria esistenza e dell’umana esistenza. Ma egli, fiaccato dalle prove come Giobbe, a differenza dell’antenato biblico non le accetta come espressione della volontà dell’Eterno, anzi arriva a elaborare l’amara, quasi blasfema concezione di un Dio crudele e indifferente alle miserie dei mortali.

“Mille argomenti avevano trovato i dotti, per giustificare la morte prematura e la sofferenza grave di chi era sempre vissuto piamente e le glorie congiunte a ricchezze di chi ha disprezzato le leggi dell’Eterno […]. Mille e mille libri furono riempiti di questi argomenti. Ma la loro eco svaniva di fronte al sordo rancore di Isacco. «Come i soldi diventano senza valore per gli uomini, così Dio disprezza gli esseri che ha creato» diceva”.

Nicola Pressburger e Giorgio Pressburger
Nicola Pressburger e Giorgio Pressburger

Nella sua cieca fiducia nell’adempimento di una profezia di sapore messianico che annuncia gloria alla propria stirpe, Isacco è metafora dell’intero Popolo Eletto; esso cammina nella Storia nell’attesa di un salvatore e di una Terra Promessa che è sinonimo di un mondo migliore, epurato dal Male, come vagheggiava Gershom, un antenato di Jom Tow.

I gemelli Pressburger nascono a Budapest e lasciano la città nel 1956, all’indomani dell’invasione sovietica. La loro prosa è venata di nostalgia, di rimpianto per quella terra che ha dato loro il primo nutrimento. Come il suono malinconico di un violino, essa è un canto d’amore per quei fratelli che hanno conosciuto e che non sono stati sradicati dal tessuto della Capitale. Questi sono gli ultimi, i poveri e i reietti della società, i quali con la loro operosità hanno tributato dignità e forza a tale popolo benedetto da Dio e maledetto dagli uomini.

Un’anima sola in due corpi, Giorgio e Nicola scrivono in perfetta armonia e unità di intenti; viene così evitata quella cesura il cui rischio è insito in un’opera redatta a quattro mani. La loro scrittura fluida e di grande immediatezza comunicativa denota sullo sfondo le movenze della lingua ungherese con una sottile eco dello yiddish.

Nei figli di Isacco, Beniamino e Samuele, esuli e cosmopoliti, non è arduo riconoscere l’alter ego letterario degli autori. L’opera adotta la prospettiva del narratore onnisciente, salvo negli ultimi due capitoli de L’elefante verde, strutturati in prima persona. È la voce di Samuele quella che ascoltiamo? O è forse quella di Beniamino? Ebbene le pagine finali sono concepite come un delizioso trompe l’oeil letterario, come un inganno narrativo che si risolve nel segno dell’onestà.

 

Written by Tiziana Topa

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *