“Moderno Antimoderno” di Cesare De Michelis: studi novecenteschi
L’ingenuo e forse ipocrita lettore si attende una disamina sensata della letteratura a cavallo fra otto e novecento e subito dopo solo novecento, poi, dopo quasi seicento pagine, un frettoloso avviso di quello che è sta bollendo in pentola nei primi decenni del ventunesimo secolo. Invece no. Le due parole del titolo potrebbero rappresentare la sintesi della mia futura critica al critico, la cui scrittura è imprevedibile, quasi più della mia, il che è tutto dire. Ma bisogna leggere, prima. E poi affannarsi a capire.
Come pare abbia detto Muzio Scevola, allorché si accorse di aver ucciso l’etrusco sbagliato, quando ancora non era stato catturato dai militi di Porsenna, me ne faccio una ragione.
Cesare (uso il nome perché De Michelis è complesso come cognome) parla degli arcipelaghi. “L’arcipelago sarebbe più del male e prima di esso…”. Perché “(l’arché)” ne è l’origine prima. Facile capire perché: è da lì che i primi navigatori, dopo essersi organizzati, decidono di affrontare l’immensità del mare.
Viaggio di Ulisse: “riassume inequivocabilmente l’avventura degli uomini decisi a giungere a destinazione…” Interessante questione: il destino è “(de-e-stanare) dalla quiete dove hanno trovato rifugio”, per percorrere su e giù il mondo. “… andare oltre la varietà delle cose per riconoscere quel che al contrario le accomuna…”: l’Uno immerso nel Disordine cosmico di Sé.
“… pólemos, tra cose e parole, tra molteplicità e senso, dando inizio al viaggio di ritorno dal molteplice all’uno, appunto verso l’utopia.”: e viceversa?
Non più il Dio, né il Potere, ma “la dialettica irresolubile, il conflitto delle esperienze, il disordine degli individui, il movimento che ci sradica dall’isola originaria e ci trascina in mare verso altre isole, senza traguardo.” – andiamo e moltiplichiamoci, senza che dobbiamo farlo per altri se non per noi stessi.
“Nell’arcipelago ‘il centro è ovunque’ e quindi non c’è…” Lo stesso accade al cosmo che è privo di centro, non si capisce perché, ma pare sia così. Tutte le galassie si allontanano a velocità superluminale l’una dall’altra. Se il centro ci fosse sarebbe in ogni caso disperso in un Nulla che conduce al Caos.
Analoga è la situazione all’interno dell’atomo, dove esiste un nucleo, ma gli elettroni sono talmente aerei e ballerini, grazie all’energia dei fotoni, che si allontanano e si riavvicinano come pare a loro, per cui il centro diventa itinerante.
“Non c’è salvezza nell’arcipelago, non c’è armonia nella polis: la destinazione. Il destino dell’Europa è far naufragio, tramontare; essa ‘può guarire solo annullandosi’” Il naufragare non è tanto dolce, ma dà allegria e una sobria ebbrezza.
“È Ulisse, di nuovo, l’eroe esemplare, il pellegrino che corre lungo le rotte dell’arcipelago…” La particella che insegue il suo fine, anche quello quasi impossibile, come accade alla tapina che viene sparata contro una barriera praticamente impenetrabile, ma a lei basta lo svolgersi di un paradosso, e una su una quasi infinità di ipotesi dinamiche, ella passa, perché è minimamente probabile che lo faccia.
Enea è “un profugo fuggiasco, l’esule.”, il siriano che trova casa a Sesto San Giovanni. A Roma, anzi. Ah, era troiano, vero.
Ulisse “raggiunge Utopia”, il non luogo, e riparte verso l’Isola “di Rinascita”; Enea preferisce Eu-topia, il bel luogo. E si siede. Questa è la situazione.
“Ripensare il Novecento purtroppo è doloroso…”. Dobbiamo affidarci a quel sentimento melanconico, “la nostalgia”, il dolore del ritorno, che si chiama anche paura, desiderio incontrollato, “il desiderio cioè di tornare, di richiudere il cerchio e stare sicuri, senza ansie, patemi, angosce e orribile paure.” Questo primo e scivoloso capitolo era intitolato: un secolo doloroso.
“… ogni volta che torniamo sui nostri passi affidandoci alle mappe, alle guide o alle storie correnti. Il panorama che ci si offre poco ha a che vedere con quanto ci aspettavamo perché ci era stato preannunciato.” – il mondo è così programmabile che l’arte diventa quasi inconsultabile. L’Ottocento ha fornito al proprio infante giovane “la grande tradizione del romanzo realista.” Che è “la favola bella”, in cui tutto torna, tutti tornano a casa, anche i morti.
“… un’unitaria e complessiva visione del mondo – è stata proprio l’ultima e definitiva illusione delle ideologie ottocentesche.” – mai dire ultime, oppure: ultime al momento.
Ora, per quel caratteriale del Neonato secolo “non contava il risultato, ma il gesto, non il territorio conquistato, ma la disponibilità al sacrificio…”, non tanto dell’autore (a volte sì, però) ma del personaggio.
“… tra i libri che appaiono più durevoli” sono “i libri di testimonianza, i grandi libri dei tragici testimoni del secolo” I martiri oppure i salvati per caso. Oppure la “narrativa che per semplicità definirò ‘espressionistica’.” Quella che danza, brilla come un coyote, “oscillando schizofrenicamente tra l’entusiasmo e la disperazione, tra la propaganda e l’anatema, tra il cieco consenso conformistico e la critica pregiudiziale…”, in un conflitto senza fine e che vinca il peggiore!
Tutto si ricicla, perché il nuovo è un vecchio che viene violentato: “Mi spiego: non è in corso un’opera di restaurazione, di paziente recupero del passato, ma più semplice un’opera di ricostruzione, che utilizza tutto quanto ha sottomano, immediatamente disponibile.” Domanda, ma ci si può ribellare a questa ribellione? Questo capitolo così ben definito eppur arcano era intitolato: un’idea del romanzo novecentesco.
Oltre ai tre poteri consueti, e prescindendo da quelli mediatici, il quarto, più arcano, dovrebbe essere quello degli intellettuali. Meglio usare il condizionale.
“Le parole non servono più a rendere conto dell’itinerario della ricerca o dell’immaginazione, ma diventano mezzi di promozione o di propaganda, armi nella battaglia delle idee che ha per posta il potere, e al disegno ideologico quindi si conformano, inevitabilmente servili.”
Poi “… il Moderno impose le sue regole semplici e ferree: tutto il bene appartiene al futuro e la misura della capacità di raggiungerlo è la velocità…” Per cui “chi si ferma, invece, è perduto.” In quell’invece rientra chi corre dove pare a sé. “… chi vince dell’altro non sa che cosa farsene e sogna solo di annientarlo e distruggerlo.”
Per alcuni, o per quasi tutti quelli che contano, considerano la letteratura uno strumento anziché uno scopo, anzi prediligono metafore guerriere.” E io che mi accanisco a pensare che o la scrittura è impellente, come un’evacuazione o un parto, o non vale nulla.
Bobbio scriveva che per lui il bene “non sta né da una parte né dall’altra, ma è mescolato con la menzogna, con il male, con l’iniquità tanto di qua che di là.”
Poi Cesare riparla di una questione che lo rode: “compiere il proprio ciclo attorno a un centro che sempre ci sfugge, ma non per questo è meno nitido e fermo.”
Attendo una spiegazione che mi convinca. Che consenta che il centro ci sia sempre, e che basti inventarlo. Questo spigoloso capitolo era intitolato: il conformismo degli intellettuali.
“… in Beozia, due fonti d’acqua che si offrivano ai pellegrini: l’una che appunto donava l’oblio e portava il nome della figlia della Discordia. Sorella del Sonno e della Morte, Lete, l’altra che invece alimentava la memoria, Mnomosine, che era figlia del Cielo e della Terra e madre delle Muse.” Due femminili origini del mondo. Femminili origini è un accattivante pleonasmo.
“… Montaigne sentenzierà che ‘savoir par coeur n’est pas savoir’…” Massimo rispetto per lui, ma perché in francese come in inglese (by heart) il saper a memoria passa per il muscolo cardiaco?
“Per Cartesio è evidente che ‘nulla opus esse memoria ad scientias omnes’, che la memoria non serve affatto alla scienza…” Se non ci fosse, la fisica quantistica non potrebbe sviluppare alcuna teoria, stante la caducità della pratica sperimentale: dove l’atto del ricercatore muta l’oggetto della ricerca, che tale non è, ma diventa soggetto che coinvolge sé e il resto del cosmo. Nulla è immobile, tutto si trasforma. Nulla v’è d’assoluto, tutto è blandamente relativo. La rivoluzione conduce “all’oblio, cancellerà il passato ricominciando il conto degli anni da 1.”, o da 3, come diceva Troisi. Tutto cambia perché nulla cambi: una grande verità non tanto sicula, ma mondiale. Infine il poccione geniale, Nietzsche, fa trionfare, a parole, l’oblio. Probabilmente qualcun altro si ricordava per lui di pagare le bollette.
A lui contrappongo Borges (basta uno come Jorge per vincere un esercito di disfattisti), che, a bassa voce, ostinatamente, dice che la tradizione (umana, letteraria, socioeconomica, onanistica se vuoi) è opera della memoria e dell’oblio. Io, suo milite (assolto), rinforzo la dose: per scrivere occorre falsificare il ricordo, inventare la realtà oggettiva: ri-creare.
Giampaolo Rugarli scrive che il romanzo “lenisce l’ansia di conoscere e, insieme, comunica i palpiti, ansie turbamenti, arricchisce o almeno completa la nostra emotività. Il romanzo è sogno a occhi aperti, ma pure metafora della nostra vita e della vita in generale… è soprattutto un prolungamento, nel tempo e nello spazio. Il romanzo moltiplica la nostra vita.”
Quindi la sta variando, unendosi a lei. Come nella ricerca scientifica: Jane Goodall studia gli scimpanzé vivendo insieme a loro, loro studiano Jane Goodall vivendo con lei: e rimangono entangled, coinvolti, mutando ognuno se stesso in riferimento all’Altro.
“Forse il futuro, e già ora il presente, ci impone il recupero del tempo, la riconquista del passato, il ripristino di un ordine altrimenti spaesante. Il tempo, lo spazio vanno nuovamente prima distinti e poi accoppiati, perché non sono, non debbono essere tra loro confusi.”
Einstein propose il tempo come una quarta dimensione dello spazio-tempo. Julian Barbour, basandosi anche su tali idee, ribadì che il tempo era un’idea che non contava. Non contava più, d’ora innanzi. Secondo i looppisti come Carlo Rovelli, lo spazio è un grumo che forma un vortice dove può accadere di tutto. Questo capitolo relativistico era intitolato: il romanzo come genere della modernità.
“… perché ‘le nostre associazioni intellettive’ si trasformano ogni giorno, rendendo la personalità – ‘l’io’ – per quanto ferma nella sostanza, inevitabilmente cangiante nelle forme in cui appare, ‘l’onda libera dell’anima sgorgante senza fine’.” L’onda, che abbassato il carrello aereo, si muta in particella e atterra sulla pista dell’esistenza.
“… se volontà può chiamarsi quel fluttuamento passionale, che mai mi abbandona” – quel flusso in cui i miei me stessi si scontrano coi miei io e coi colleghi altrui.
“L’impossibilità di ‘separare il reale dall’immaginario o dal fantastico’…” Bisogna distinguere quello che è accaduto da quello che probabilmente doveva succedere. Gli ac-cadimenti esistenziali…
“… se sarò capace di esplicare la mia intelligenza nell’arte, la mia vita troverà il suo senso.” Altrimenti l’unica volontà che mi farà una volta decidere sarà quella della morte. Quel che capita ogni santo giorno al micio di Schrödinger.
“… Tozzi non combina granché, gira a vuoto, accumulando appunto, progetti, intenzioni…” Si tratta di una particella che scambia la sua energia con l’Anti-Tozzi, annichilendosi insieme al suo antagonista, ma producendo ogni volta una particella di Luce.
“… a vivere ‘come in un sogno’, a resistere lontano dagli uomini per riuscire ‘moralmente’ a giudicarli, desiderando sopprimerli per ‘vivere delle sue allucinazioni’.” Non occorre sopprimerli, basta sacrificarli a sé.
“… presuppone un percorso e persino un traguardo, sottintende una definizione nitida e chiarificatrice…” – un’equazione probabilistica di quell’onda famosa.
“… eppure il tempo e lo spazio della rappresentazione sfuggono ai nostri strumenti di misurazione, appartengono a una dimensione interiore…” – esistono altrove, qualora esistano.
“… a un universo che coi contiene e non si lascia mai interamente conoscere.” – sempre che non siamo noi a contenerlo, sempre che non ci sia identità fra noi e loro.
“… la verità non ci sta di fronte, è altrove, in un’altra dimensione…” – è là!
“… e raggiungerla si può soltanto a prezzo di una sincerità assoluta, di una confessione senza reticenze, disponibile a qualsiasi impudicizia: ‘O mia anima, dimmi tutto i tuoi segreti.’” Si differenzia l’unità: io, l’anima e quell’Altro che ci contiene.
“Lo scrittore non si affida alla memoria, non pretende di descrivere la realtà, non si illude di dominare il mondo con uno sguardo, può solo dirsi, perché l’unica cosa di cui può parlare è di stesso…” – e dell’Altro che si riflette nel sé.
“… disponibile a rivelarsi solo nei comportamenti, nei gesti…” – anche l’interpretazione è un comportamento, un gesto.
“… Un libro dove ogni anima si soffermasse, per crescervi. Dove ogni parola fosse simile ad un orizzonte o ad un gabbiano che si avanza sopra la distesa del mare…” – caro Federigo, concordo su tutto, tranne su quel vano d di ad.
“… Tozzi è ormai certo di aver individuato la sua strada e lungo quel percorso andrà dritto, indifferente di quant’altro intanto dintorno accade…” Quasi indifferente, l’occhio del poeta è sempre vigile. E finge spesso.
“… quando parlo, mi pare che la mia anima riesca ad uscirne fuori…” – acquisisce l’esistenza.
Lo dico a Cesare, perché temo gli sia sfuggito: secondo Bohr la particella esiste solo quando entra in relazione con l’Altro, quando viene intercettata, quando esce. Con Federigo, ci intercettammo a vicenda anni fa con Tre croci. Da allora siamo entangled, correlati. Egli medita sopra a “un romanzo però senza ‘storia’, perché la ‘crisi’ non è un passaggio, un momento vitale del processo dialettico, ma il traguardo, la rivelazione definitiva e irrimediabile di un fallimento, quello appunto di ogni umanesimo, di ogni morale, di ogni ideologia.”
È il suddetto annichilire della particella in presenza della sua antagonista. Sempre un fotone, energia pura, quell’accadimento produce.
“… qualsiasi misterioso atto nostro; come potrebbe esser quello, per esempio, di un uomo che a un certo punto della sua strada si sofferma per raccogliere un sasso che vede, e poi prosegue la sua passeggiata.” Non è mai lo stesso sasso, ognuno trova il suo.
“… ne comportamento umano non hanno luogo sentimenti, ma solo pulsioni di oscura motivazione…” – che ti recherà laggiù.
L’effetto tunnel quantistico permette una transizione ad uno stato impedito dalla meccanica classica. Per andare oltre, bisogna recedere da qualsiasi classicità, mantenendo solo quella localmente necessaria. Il paradosso va oltre ogni doxa, opinione. Ribadisco la mia folle e certa speranza. Una particella non può superare quella barriera, essendo priva della necessaria energia. Quasi sempre delle volte essa sarà bloccata. La misura di una probabilità non sarà mai uguale a 100%: nulla lo è, ‘n coppa a ‘sta terra. Federigo era quella particella irragionevolmente impazzita. Quest’incerto capitolo era semplicemente intitolato: federigo tozzi.
Due fratelli, Giani, più famoso, che si salva. Carlo, un po’ meno, s’ammazza. La guerra la si accetta, ma quando è inevitabile, cosa succede? La si patisce. Ci si muore o sopravvive, che è il meno. Tutto decade, tutto si cercherà di ricostruire. Abiurare non serve a nulla, perché rallenta il cammino verso il dopo. La ricostruzione parte da chi deve ricostruire prima sé e poi gli altri, chiedendo “soccorso e sostegno alla saggezza dell’esperienza e alla maturità del dolore.” La guerra diventa una luce che conduce alla pace: “un messaggio di civiltà e di speranza”. Un’emozione che, assurda, sorge dalla disperazione: “… io mi provo a discorrere con l’anima di mio fratello…” Ognuno dei due consanguinei mette in bocca le parole all’altro, anche se a Giani non pare forse così. Due stelle doppie che continuamente si scambiano energie ugualmente vive. Né può essere altrimenti: lo scopo è ritornare “alle cose della vita con un senso di maggiore equilibrio e soprattutto di umiltà.”
Il rimedio di tutti i mali? “… va cercato nelle singole anime: in guerra i giovani sono morti per il meglio delle loro singole anime.” – è una fandonia a cui è bene credere.
“È questa religione che dobbiamo imparare, noi che non siamo morti.”
Tiriamo avanti a vivere “sapendo che qualcosa è cambiato e che non sarebbe dovuto cambiare, che la verità non è nei conflitti di ogni giorno, non è nella guerra e tantomeno nella vittoria, ma dentro di noi.”
Giani, “un uomo inquieto e nervoso eppure forte e autentico”. Non resta che continuare la ricerca fino alla morte: “scavare, scavare dentro di me fino a trovare la vena sincera.”
“… e il buio finalmente si squarcia”: una fitta luce che pur tetramente illumina. Cosa? Ma il “secolo nuovo, più di tutti difficile e tragico.” Questo sanguinoso capitolo era intitolato: amor fraterno.
Il maestro Bontempelli insegnava: “scrittore è ‘colui che mediante un suo scritto stabilisce rapporti economici’…” Questo mi emoziona di più: “Alla scrittura Gallian sembra trascinato da un’irresistibile forza sovrannaturale, da una sovrumana tentazione profetica: è evidente che si sente investito da un compito quasi divino, portatore di un messaggio per il quale le parole quotidiane sono drammaticamente insufficienti, il linguaggio degli uomini è drammaticamente insufficiente…” – non lo è, essendo l’unico a cui basti la sua propria forza.
“La sua scrittura rinuncia a qualsiasi definizione stilistica, a un irraggiungibile nitore…” – se è irraggiungibile che senso ha provarci?
“… e invece si accende di baluginanti folgorazioni, di immaginazioni iridescenze, di esuberanti determinazioni, come un gorgo che inesorabilmente divora ogni cosa sempre più insoddisfatto.”
A quello poco cale “del pubblico”, il privato soprattutto conta. Scrive, scrive, scrive, “piuttosto che ristampare accumula libri su libri a un ritmo che nessun editore potrebbe mai sostenere.”
È cogente “tuffarci in un’arte necessaria, forte, che convenga a tutti, che frutti: l’arte del viaggiatore”, anche minimo, da Amalfi ad Atrani, da Santa Cròuş a Rèş.
Torniamo a Bontempelli: “raccontare il sogno come se fosse realtà, e la realtà come se fosse un sogno”: tutto corretto, tranne il congiuntivo.
I romanzi di Gallian: “fragili nella struttura d’insieme, semplicemente accumulando situazioni ed episodi senza un intreccio architettonicamente complesso, ma certo in ognuno di essi al centro emerge l’individuo che coraggiosamente sfida la storia…”, quella megera che prende soldi da tutti e dà ragione solo ad alcuni.
“Il magico realismo dei suoi primi racconti si gonfia e raddoppia, dilatandosi espressionisticamente, con effetti stranianti e grotteschi…”
Ha una ragione chi afferma che sono “documenti; documenti impetuosi e disordinati, forti e umani…” I personaggi “scompaiono improvvisamente”, perché sono persone che oggi attraversano la tua strada e domani no. “… il racconto non ha mai una fine adeguata al gusto del lettore comune…” – che se esistesse occorrerebbe eliminarlo.
“… la coscienza di uno scacco senza rimedio, perché la rivoluzione non…” – atroce consanguinea, – “non può vincere se non tradendo i suoi figli migliori”.
Che orrore illegittimo: “… postumi di se stessi, senza dover neppure morire.” Questo liberatorio capitolo era intitolato: il tradimento della rivoluzione.
“Il romanzo, dunque, si dissolve e disgrega, diventa per un verso dolente o disperata autobiografia, che è sfogo immeditato e diretto dell’impotenza dell’intellettuale di fronte al mondo, per altro soltanto ‘frammento’, che cerca, privilegiando l’emozione e l’intuizione, giustificazione nell’universalità e nell’autonomia dell’arte, non per caso puntigliosamente e ripetutamente teorizzata in quegli anni.” Vita versus arte? Arte versus vita? Forse si riuscirà a strappare un pareggio a reti bianche.
Alcuni letterati predicano di “non inventare ma scoprire.”, e di estasiarsi davanti al miracoloso, che “non fu in verità altro che l’ultima reviviscenza di quel decadentismo…” Altri invece “credono nell’arte, mentre quelli che credevano a molte altre cose che con l’arte nulla avevano a che vedere.” – a se stessi, al sistema, alla nazione? Rifiutano di assecondare la società che è “incapace di svolgere il ruolo di guida morale e politica, disposta com’è a rinunciare alla propria egemonia per delega pur di conservare alcuni meschini privilegi materiali; una borghesia ormai priva di una propria identità ideale e morale, arroccata su posizioni difensive e…” – “‘piccola’ borghesia’”, insomma.
Dice Arnaldo Bocelli: “nello scrittore sta rinascendo l’uomo; l’arte si annuncia nuovamente, anzitutto come problema morale”.
Nuovi “i valori dell’impegno, della serietà e del rigore”: in altre parole trionfa “l’ideologia del ‘primato morale’ della letteratura.”
Frase memorabile: “… la loro novità è di essere interamente uomini, e di restare interamente uomini anche nell’arte.” – progetto semplice, realizzazione no.
Un romanzo su tutti: Gli indifferenti di Moravia, “pieno di difetti, forse anche meno di pregi che di difetti…” Così è in grado di spostarsi con la sufficiente energia cinetica. Contenuto “non sia da intendersi la ‘cosa’ detta”, ma “il sentimento per cui e attraverso cui la ‘cosa’ è guardata.”
“L’entusiasmo per il romanzo è sconfinato”: è l’attrezzo giusto per eseguire il progetto non tanto estetico quanto morale. Romanzo inteso come “summa” quasi teologica, “dove più che i personaggi nella loro definita individualità, contino i momenti e gli aspetti onde essi risultano”, uscendo “da un ambito prevalentemente sensuale o paesistico, in un ambito prevalentemente interiore, morale.”
Non basta: “Il nuovo realismo parte dal presupposto che sia possibile ‘modificare la realtà per mezzo della stessa realtà’”: quasi una legge fisica inesorabilmente giusta (e quindi anche etica).
Per quanto attiene l’arte, si dovrà misurare “gli effetti che essa saprà produrre nel nostro tempo.” Infine, ma soprattutto si chiederà “agli artisti, ridotti ‘a creature essenzialmente politiche’, di ‘persuadere’ i loro lettori.”
Un ordine analogo sarà impartito nella Russia post leniniana agli artisti realisticamente socialisti. Il contenuto sarà “lo stato d’animo, o l’atteggiamento spirituale, o visione del mondo, che il poeta esprime.”
Sto pensando al capitolo introduttivo di Justine, in cui De Sade afferma “è essenziale per mantenere l’equilibrio che vi siano tanti buoni quanti malvagi, e che in conseguenza di ciò diviene indifferente sul piano della generalità che il tale o il talaltro sia buono piuttosto che cattivo…”
Romanzo, racconto: sono il meccano o l’ego lego con cui si cercherà di spacciare la propria anima. Ognuno avrà diritto di scegliere. Ricordo le parole di Giorgio Messori: “Fin dall’inizio, da quando ho cominciato a scrivere, ho sempre creduto che i racconti, più che i romanzi, siano più vicini alla vita. Non ho mai amato la cosiddetta fiction, dentro cui un romanzo rimane spesso ingabbiato. Perché la vita è fatta di tanti frammenti che mal si adattano a entrare nell’orizzonte di un romanzo compiuto.” Sic transit gloria auctoris.
Il controverso capitolo s’intitola alle origini del neorealismo.
Per gli effetti di due rivoluzioni (bolscevica e fascista), Pannunzio, nato nel 1910, “maturò in fretta una profonda e inarrendevole avversione”.
La scrittura, l’arte in genere “acquistano senso e valore soprattutto per quel che ci dicono dell’uomo e del mondo, per come illuminano la storia e il presente, per quanto ci aiutano a superare ostacoli e incertezze; e il romanzo, conseguentemente, dev’essere realistico e al tempo stesso morale, ma deve anche profondamente e completamente innovarsi alla luce delle nuove scienze dell’uomo e della società.”
Attrezzi che servono a capire e ad affrontare i disagi della società, definendo quello che è giusto.
“Neppure la perfida ironia di Antonio Delfini riesce a distruggere l’entusiasmo di questi giovani convinti che ormai è il loro momento.” Egli inventa l’espressione “foia intellettuale”. Pannunzio era uno di quegli infoiati.
“… viene formandosi proprio durante quegli incontri la convinzione che non c’è cultura senza propositi politici e morali senza nitide scelte culturali: ‘la foia intellettuale’, nel bene e nel male, ha davvero inizio sulle pagine di queste riviste giovanili, dove questione diventa…” – che è parte dell’unica infoiata.
“… le recensioni servono come l’anagrafe dei compagni di strada o come l’elenco degli avversari…” Placet, non placet. Sì, no. Il forse è escluso.
Questa scelta richiede una certa energia: “La riscoperta di un individualismo forte, come necessario completo di qualsiasi nuovo realismo, caratterizza la posizione di Pannunzio…” Mi pare la descrizione di un giustiziere del tipo ranger del Texas. È la colt che decide: occorre estrarla con velocità e puntare dritto al cuore dei nemici, per salvare i buoni.
“Bisogna ridare agli intellettuali il senso della lor necessità, ridar loro la convinzione d’essere collaboratori e partecipi alla vita comune…”.
Ma occorre un’ideologia: “… nel campo dell’intelligenza il problema è la ‘crisi’ dell’intelligenza bisogna convincersi che verte sulla sua distribuzione, sulla ‘circolazione’ e magari sul ‘consumo’ che non sulla produzione…” – i media quindi. E fra questi c’è il cinema, che sta alla scrittura, come l’aereo sta alla nave.
E Pannunzio diventa sceneggiatore e poi quasi regista. Quasi, perché “la caduta di Mussolini bastò a convincerlo che ormai era tempo di ben altre scelte.” Si potrebbe tentare di gestire la nuova libertà di parola. Con tutti gli annessi e connessi, in un periodo in cui la crisi sta finendo e inizia la travagliata oscillazione fra vita e morte. Per sopravvivere occorre scegliere la terza strada: il liberalismo “È la strada laica e illuminista di una borghesia che responsabilmente affronta la gestione e il governo della nazione.”
Il potere che non deve diventare anarchia. Oppure sì, nel senso pasoliniano.
Quest’impegnativo capitolo s’intitola l’estremista moderato.
“… della vocazione letteraria di Vittorini, dall’accettazione del primato della ‘poesia’, del suo valore eterno e universale che ha la meglio sulla storia, ma in questo modo si raggela e si impoverisce la tensione ideologica che trova poco spazio per esprimersi.”
Non si può avere tutto dalla vita, o almeno tutt’insieme. Di una particella puoi controllare la posizione, ma non la quantità di moto, o viceversa, e mai insieme. Deve scegliere su quale variabile vuoi essere meno impreciso.
Due generi di autori per Elio: quelli che “mi danno la conferma di ‘come’ so che in genere sia nella vita” e quelli “che mi fanno pensare ‘perdio, non avevo mai supposto che potesse essere così’…” Entrambi ti servono, se vuoi crescere. Ha bisogno di estraneità per costruire “il suo discorsi sugli eterni valori e spera di svelare i misteri del mondo.”
Il diverso è il segnala che non blocca, ma regola il traffico, e chiarisce l’idea sul percorso da seguire. Che conduce chissà dove. Là!
“In questo modo è consumato il divorzio tra letteratura e impegno politico…” Vi è in lui una “contraddittoria compresenza di istanze letterarie e politiche è confermato anche dai suoi interventi critici…”. Quest’intima contraddizione lo porta a rinunciare “a sviluppare un discorso artistico autonomo, mentre accetta e fa propria la prospettiva ottimistica del populismo, proponendo contro la lucida e disperata coscienza della crisi l’‘ottimistica fiducia in una ricomposizione progressiva (e progressista) della crisi, che potrà ottenersi attraverso la riconquista o la miracolosa ricomparsa di valori umani imperituri passati indenni in mezzo a tutta la bufera del mondo paterno’ (Alberto Asor Rosa)” In tal processo rientra, prepotente, l’ideologia.
“Il romanzo così diventa il luogo privilegiato nel quale l’intellettuale-scrittore scioglie i nodi delle contraddizioni e delle ingiustizie di questo mondo e progetta il recupero e la ricostituzione dell’infranto ordine naturale dei valori.” – un nuovo mondo populisticamente utopico.
“Vittorini è tra i più entusiasti sostenitori della guerra africana, perché in essa vede l’occasione per sperimentare concretamente l’idea collettivistica corporativa e realizzare, quindi, la società ideale.” Similmente si compiono gli esperimenti nucleari in qualche paradiso perduto e poi per secolo inquinati.
Un ideale: “L’arte ‘come mezzo di produzione è il più alto, il più qualificato, e il meno soggetto a proprietà privata tra tutti i mezzi di produzione – l’unico che in qualche modo prefigura (nella sua specificità esemplificatrice) che cosa può essere di liberatrice e di denaturalizzatrice la tecnica assoluta integrale se riconquistata alla generalità dell’uomo’ (Le due tensioni, 1967).”
Quest’esistenziale capitolo s’intitola il giovane vittorini.
“Un risvolto è lo spazio stretto che tocca alla carta della copertina o della sovraccoperta quando si spiega su se stessa per dare sostegno al libro ingentilendone l’aspetto. Per anni in realtà il risvolto non c’è stato e il libro doveva far conto soltanto su se stesso.” Pubblicità progresso in cui l’editore assurge al ruolo di coprotagonista.
“La cultura non è una professione per pochi – annunciava, direi proprio Elio Vittorini, nel risvolto della Collezione Universale ‘Corona’ di Bompiani all’alba degli anni quaranta, in piena guerra –: è una condizione per tutti, e completa l’esistenza dell’uomo. Ma ad ogni epoca la cultura cambia aspetto…” – in realtà cambiano gli aspetti e tutto l’ambaradan dei lettori.
“… la conclusione è ben nota: ‘Non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini.” – bell’idealismo, però.
“Vittorini diventa un rabdomante, riceve da ogni parte d’Italia scritti e racconti che…” – scarsi, brutti, ignorati, approvati, umanamente negletti.
“Il tono di Vittorini è definitivamente mutato…” – meno male.
“Vittorini chiude ‘Il Politecnico’ quando si accorge che…” – l’orecchio teso e lo sguardo vigile…
“Il suo sforzo è di trasformare il racconto in musica, il suo obiettivo è…” – religioso?
“‘I Gettoni’ nascono in questo clima di amare delusioni e di vivissimi e ambiziosi progetti…” – un voler cercare regole?
“Il progetto ‘azzurro’ ben presto acquista la dimensione di una vera e propria collana sperim…” – … entale?
“La collana vittoriana si muove, dunque, lungo il crinale che separa, ma anche unisce, i territori inesplorati della…” – novità esistenziale?
“‘I Gettoni’ sono una collana con le caratteristiche della rivista, non importa tanto il rigore…” – da concedere alla squadra avversaria?
“Il risvolto, sin dall’inizio individuato come uno spazio libero da riservare per sé, Vittorini lo conquisterà poco a poco, trasformandolo in un vero e proprio…” – luogo poetico?
“Due sono in effetti i motivi per cui un manoscritto può diventare un ‘gettone’: o la sua innocenza, e cioè la sua validità documentaria; oppure la forza, anche artificiosa, o bizzarra, ma comunque creativa, che l’autore dimostri di…” – voler far esplodere dentro di sé? Bum!
Questo capitolo assai complesso, pirotecnico e al contempo scarno s’intitola i risvolti dei ‘gettoni’.
“… la fabbrica, insomma, nell’immaginario della narrativa dei primi anni cinquanta è e rimane il luogo ignoto e inaccessibile, dove il proletariato soffre e fatica ricavandone in cambio salari da fame…” Non è tutto acciaio quello che luccica, è anche amianto.
“La letteratura operaia di quegli anni, se si esclude quella di importazione sovietica, che zdanovianamente descrive fabbriche operose e felici, è disperatamente pauperista, tecnologicamente arretrata, pericolosamente violenta.” Ed è assemblata da alcuni schiavi-operai, c’è poco da fare.
“… e verrà meno l’ordine naturale dello spazio perché la velocità dei mezzi di trasporto modificherà le distanze e la possibilità di misurarle.” Tutto è relativo, anche il pendolarismo.
Lo spazio-tempo è determinato da chi comanda: la luce, unica assolutezza prevista dalla natura, con la sua velocità costante e insuperabile nel vuoto, determinerà i valori esatti delle persone. Bum bum bum! Scoppiano tante bombette atomiche!
“… la fabbrica è una sorta di ordigno distruttivo, una presenza devastante che ci si sforza di contenere, è un male in qualche modo inevitabile che si deve controllare e governare per tutelare la salvezza e la salute degli uomini.”, alienandoli inevitabilmente.
“Quando nel 1957 lo Sputnik sovietico si innalza nel cielo esplode un ammirato entusiasmo che…”. Non tutti però sono in collegamento audio col satellite.
Calvino “avverte il pericolo di un rapido capovolgimento di prospettiva e ‘attento e ansioso’ ammonisce.” Non sarà l’unico scettico. Capisce che l’uomo è ormai sempre più piccolo, anche se apparentemente più eroico. La macchina diventa un’arma del potere.
“Da un lato c’è, secondo Vittorini, la ‘sfiducia ‘umanistica’’ verso le cose nuove’, dall’altro la sfida di una nuova cultura…”
In un’intervista televisiva (mi pare ieri quando l’ascoltai) chiesero al poeta Alfonso Gatto cosa avesse provato il giorno in cui il primo uomo era sceso sul nostro satellite. Rispose: “Mi hanno rubato anche la luna!”.
Vittorini evidenzia le due tensioni: tradizione antica versus razionalità moderna. Ai posteri, cioè a noi, l’ardua sentenza. Questo capitolo-dilemma s’intitola i romanzi della fabbrica.
“La letteratura di Berto è il modo concreto nel quale si esprime questo coraggio di affrontare la vita domandone il male, e il metro che ne misura i risultati non appartiene all’estetica, non riproduce la scala del bello, quanto invece della morale, al riconoscimento della virtù dell’uomo, della sua forza interiore, del suo impegno infaticabile.” Quindi il bello e il morale sono elementi diversi da distinguere, forse addirittura bifronti.
“… il suo tema centrale, è quello del male del mondo, del male universale, rispetto al quale non c’è speranza di salvezza per l’uomo…” Non importa essere liberati, quanto essere educati alla sopportazione del peso della condanna esistenziale. L’ideologia non serve più a nulla, semmai fosse mai servita.
“Con le ideologie le scelte personali venivano sottratte alla responsabilità individuale…”: atteggiamento scorretto, da evitare.
“L’intreccio tra le vicende politiche, le contraddizioni ideologiche e la nevrosi individuale si trasforma in una miscela esplosiva che disintegra letteralmente qualsiasi speranza di dominare la realtà dentro un disegno interpretativo.” – nessuna interpretazione è realizzabile.
“Il male oscuro comincia proprio di fronte a un foglio che non registra i suoi pensieri e finisce quando le parole resistono alla lettura senza dissolversi nel nulla.” Il foglio bianco non è immacolato, ma sofferente: la scrittura diventa una specie di farmaco con valenza psicologica. Che nasconda un effetto placebo?
“Fino in fondo bisogna bere il calice amaro del dolore per raggiungere il traguardo della ‘comprensione’…” Una speranza, pur quantistica, esiste, allora!
Rovistando nella propria vita, si trova la vita altrui: “… il massimo della ‘soggettività’ – ‘la consapevole discesa al profondo’ – ben oltre la sconfitta della malattia, fino a raggiungere ‘una verità interiore’…”: in questo processo emerge “l’‘utilità’ sociale del lavoro dello scrittore…”.
“Il male oscuro piuttosto che un romanzo psicanalitico è una sfida, letteraria e artistica, al progetto scientifico e terapeutico dell’analisi…”: lo scrittore dice la sua da autore, non da paziente…
Occorre farsi carico “… del compito di mostrare il male a chi non vuole vederlo, denunciandone l’orrore indicibile e di immaginare una nuova vita dopo averne preso completamente coscienza…”
La gloria (1978): Berto è Giuda, e scrive il suo Vangelo apocrifo, verbo umano che si confronta col Verbo. Nel linguaggio umano, la parola divina non sarà più Verità, “anzi apparirà come menzogna e falsità.” L’uomo non può fare bene senza fare male (chissà cosa ne penserebbe il Divino Marchese?).
“Il destino dello scrittore è lo scacco, la sua vita e la sua opera al tempo stresso lo sanno e lo ignorano.”
Non rimane che l’analgesico letterario: “Portare avanti il dolore di vivere cercando di raggiungere qualcosa che lo mitighi, o meglio ancora lo faccia cessare: amore, giustizia, eguaglianza, ma soprattutto la gloria, la fine dei tempi, l’amore universale”: queste sono le parole di Giuseppe Berto, che l’1.11.1978 ci lascia (esterrefatti e più muti di prima). Questo biografico capitolo s’intitola umanità di berto.
Toni Cibotto è uno scrittore rodigino per cui non vale il detto mi son de Rovigo e no me intrigo!
“Un libro è per me – aveva scritto l’autore – la trascrizione fedele della vita con i suoi slanci e i suoi bruschi arresti.” – proposito ammirevole, ancorché di ardua realizzazione.
“Stramalora è conferma di una vocazione letteraria e narrativa, ma è anche il decisivo superamento di ogni tentazione mimetica o naturalistica: in queste pagine la scrittura punta diritto al centro dell’uomo, all’origine inattingibile della sua esistenza, e coglie nel segno.” Basta questo tentativo di saggia ispezione umana a rendere l’autore intrigante.
“Per anni Cibotto è stato l’indimenticabile narratore delle disgrazie e dei vizi della sua terra, perennemente teso alla più autentica verità, a una fedeltà alle cose e ai sentimenti che è diventata la cifra di uno stile, al tempo stesso accesamente lirico ed espressivo e rigorosamente sobrio, pudico, persino.” Questo rapido capitolo s’intitola i libri di toni.
Fulvio Tomizza è autore certamente caro a Cesare, che ne analizza ogni singola opera molto diffusamente, tanto che non lascia spazio a ulteriori commenti da parte del lettore di questo grande lettore. La ragazza di Petrovia tratta dell’“esodo dei cittadini istriani a metà degli anni cinquanta è senza terra promessa, senza riscatto, è il lento ma inequivocabile cammino di un popolo verso la scomparsa e la morte.” L’io, con la sua storia, la sua esperienza, la sua sofferenza non conta più di tanto. I suoi sogni “sprofondano nel mare di una tragedia più grande, della quale si deve dar conto e conservare la memoria.” Si deve, è un obbligo da cui non ci si può sciogliere. È una scrittura necessaria.
“In una intervista Tomizza ha confessato di sentirsi ‘in bilico tra un ieri che sembra medioevo e un oggi che non si sa dove porta, in cui non mi riconosco…” – un oggi che è Altro rispetto a me.
“… Tomizza non si arrende piangendo il mondo perduto e neppure si illude di poter ridare vita a quelle rovine, piuttosto si prodiga a recuperare al fondo la memoria di esistenze perdute, interrogandole inquieto e fremente di capire che cosa le ha condannate all’oblio, nonostante il coraggio e lo slancio con cui sono state vissute.” È un mistero spiegabile forse col fatto che anche l’oggi è similmente eroico.
“La storia secondo Tomizza non spiega proprio nulla, anzi nasconde ostinatamente il mistero della vita: interrogarla non serve perché è muta, si può solo ricostruire un frammento…”, che illumini di nuovo il loro irrevocabile Fato.
“Tomizza non scrive per il piacere di raccontare, non l’ha mai fatto con l’allegra freschezza del cantastorie, scrivere per il dovere di testimoniare…”, diventando pertanto un martire odierno di fatti antichi.
“Vivere vale esattamente compiere azioni colpevoli…”, mentre scrivere “non è quel gesto liberatorio che basta a restituirci…”, a ridarci, dopo averlo disseppellito, quel che ci divide ancora dagli altri.
“… si sta al mondo per misurare fino in fondo la nostra miseria, per prenderne finalmente coscienza, per consumare ogni possibile amarezza.” – mai un’illusione mantenuta, dunque?
“… la memoria e il racconto sono comunque gesti di solidale pietà, di autentico amore, di dolorosa verità.”, di passione!
“La morale e la storia non sono fatte per intendersi…”, e la seconda sopraffà la prima, mai il contrario. Lo ripeto da anni a un amico che mi accusa giustamente che io odio la Storia, con la S maiuscola, quella che si sbandiera a ogni ricorrenza nazionale. Lui insiste (e non nego che dica una parte della Verità) che la Storia è uno studio, una scienza. Io aggiungo che è una studiata violenza. Quel che serve è un martire, uno che possa testimoniare da Santo, prima di essere eventualmente lapidato come il mio celebre omonimo.
“In realtà è la storia che ha la meglio, mentre la morale deve scendere a compromessi niente affatto edificanti…”
Fatti esemplari: “… alla fin fine li rende tali, non è la loro intrinseca importanza ma la luce impietosa della scrittura di Tomizza, il suo stile sobrio e rigoroso, l’ineluttabilità del processo ragionativo e il palpitante risentimento emozionale.”
Il peccato originale che viene reiterato, come lo è, secondo Klossowski, il gesto immorale dell’infame torturatore di Justine: la verità “è stata e per sempre rimossa”. Ogni volta che un fatto accade, esso viene violentato da questa odiosa pervertita.
“… al più potrà svelarsi involontariamente, perché ogni rimozione è imperfetta e finisce dunque per tradirsi…” Similmente Justine ogni volta riesce a fuggire per poi sempre ricadere nel peccato altrui.
“… solo il lapsus accidentalmente e involontariamente può aprire uno spiraglio nel buio della dimenticanza…”.
Quando tocca al personaggio a essere colpevole, lo scrittore cerca “di ricostruire una confessione e i suoi stessi lapsus” aiutano a capire una pur limitata verità.
Tomizza è un grande camminatore, che però “…è stato scrittore terragno che anche nell’universo della storia, non si allontanava troppo da casa…”, tendendo sempre l’occhio ben teso nello scrutare i condomini.
“… quanto gli uomini per egoismo e malvagità si affannano a costruire barriere e confini, dividendo quello che in natura è simile e vicino, tanto per senso morale e generosa solidarietà gli animi di buona volontà si affaticano a demolirle e raderle al suolo per non soffocare nell’orrore.” – assai peggio di quello temevo.
Quest’esauriente e soffocante capitolo s’intitola ritratto di fulvio tomizza.
Camon, questo veneto a me sconosciuto, a proposito di Quinto Stato mi dice, “Tengo a precisare – confida al lettore – che lo sfondo sociale del romanzo è vero fino al dettaglio, e che quanto qui è scritto è sostanzialmente reale.” Il che vuol dire Tutto e Nulla: la forma com’è? Fittizia?
“Il racconto procede per accumulazione, aggiungendo esperienza e esperienza, come se non ci fosse sviluppo possibile, come se tutte le storie fossero contemporanee, come se la vota reale di questi uomini non si svolgesse nel tempo ma restasse immobile, sempre uguale a se stessa, senza passato e senza futuro, senza angoscia e senza speranza.” È una fede di immortalità: “che tutto quello che è accaduto nei racconti è destinato ad accadere in ogni tempo.”
Scrivere per eternare è il sogno di ogni vero scrittore: a thing of beauty is a joy for ever (Keats).
Lo scrittore è fuggito dalla propria terra e ora ci torna con la memoria e chissà quanto senso di colpa. Si tratta di “un atto di profanazione”, di un tradimento che è necessario per tradurre in lingua moderna quello che è la cultura antica.
“… dimenticare vuol dire farsi complici di una miseria che non ha fine, e ricordare e testimoniare, al contrario, intraprendere il cammino del riscatto e della liberazione, perché lo scrittore contadino non può accettare di esistere senza il passato…”
In Occidente, Camon “sente il bisogno di un rapporto diretto col lettore, della sua complicità e del suo consenso, e a lui si rivolge esplicitamente fin dalla prima pagina: ‘Voglia dunque il lettore…’”.
Egli “ha ancora bisogno dunque di chiarire il suo ruolo, di ridefinire il compito dello scrittore e di conseguenza l’attesa del pubblico a cui si rivolge.” Egli scrive “non per la storia”, ma “per gli uomini, affinché aggiungano le loro testimonianze a quella dell’autore…”, rovistando nella memoria. C’è soprattutto “il bisogno di testimoniare e lo sforzo di capire, ma questa volta il suo sguardo è rivolto alla società.” Egli vuole essere considerato più come “un cittadino, che come scrittore”, perché occorre “attribuire al cittadino la passione che lo scrittore, come vogliono certi critici, non può permettersi.”
Sirio, protagonista di un romanzo, “scopre che ‘bisogna rifare noi stessi’, che è necessario conoscersi e cambiarsi, che ‘non c’è mai nessuna rivoluzione se non è anzitutto una rivoluzione interiore’”. È uno scoprire l’acqua tiepida, che poi si dà per scontata, e nessuno ci pensa più, fino alla volta successiva.
“Lo stile sentenzioso e didattico del racconto cela ogni emozione appiattendola in un discorso senza enfasi e, però, illumina con sorprendente chiarore anche gli anfratti più oscuri della storia.”
La luce, notoriamente, è una diade della gravità: l’una attira, l’altra evidenzia: insieme creano un’illusione grande come il cosmo.
“Colpisce la tenerezza paterna della didattica di Camon, il desiderio di riaprire il colloquio con questi giovani infelici che hanno sbagliato, lo sforzo inteso a intenderne le ragioni e i sentimenti, di accompagnarsi a loro senza indulgenza ma con inesauribile amore.” Amore solo apparentemente freddo, in realtà incandescente.
Camon ribadisce: “Credo di essere un narratore di quel che va perduto”. Scrivendo si compie un atto che è eterno. Ogni vicenda particolare diventa “universale, emblematica della definitiva scomparsa della civiltà contadina, di quello cioè che – ripetendo la già citata definizione di Charles Peguy – Camon sente come ‘il più grande avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo.” Si tratta di due eventi distruttivi e, al contempo, progressivi, ognuno dei quali tanto lutto ha addotto all’umanità, per come sono stati improntati sull’egoismo umano.
“A Camon ‘pare strano che si continui sempre a chiedere ‘perché’ si scrive’, mentre ‘bisognerebbe domandarsi anche contro chi’, mentre ‘bisognerebbe domandarsi anche contro chi…’”
Il dramma patito da Camon (e da tutti noi): “… si smarriva la memoria, si uccidevano le tradizioni e le culture, si cancellavano le tracce, di un universo millenario e si seppelliva il tutto con fretta colpevole: ‘la storia non la scrive chi ha ragione, ma chi la sa scrivere’…” – e chi ha i mezzi per farlo.
“La scrittura è per Camon uno strumento, un’arma persino per ottenere ‘il riscatto/del sotto-uomo, e dargli la coscienza’, ‘per liberare da noi l’animale’…”.
L’ultimo, scrittore o scritto da altri, diventa il primo. Beato lui, direbbe quel Figlio di quel Padre.
Cito per un amico: “La storia è una troia.”, che fa rima con “soia”. Anche: “… l’uomo giusto nasce da un equilibrio/che nella storia non trova posto.” Questo cronologico ed efficace capitolo s’intitola ferdinando camon.
Claudio Magris, un viaggiatore non estremo, triestino e mitteleuropeo.
“… dopo la prima edizione del Mito asburgico, ha chiarito inequivocabilmente in quale direzione intendeva procedere, quanto pesassero davvero nel suo animo la storia e la tradizione triestina, parte integrante dell’universo mitteleuropeo: la sua fedeltà non si è mai ridotta a nostalgia, il suo inseguirne le tracce non si è mai risolta in pura e semplice apologia.”
Sguardo critico e indagatore, quindi. “L’ansia con cui Magris guarda al mondo, l’insoddisfazione che ogni giorno lo assilla, il disadattamento che ovunque si manifesta, si appagano e si calmano soltanto nei luoghi rituali in cui si celebra l’inattuale persistenza del passato.” Standosene seduto, con una macchina per scrivere e una tazzina con tè, caffè o ammazzacaffè, cambia poco. È lui a scegliere ogni volta.
“Se Magris ama scrivere seduto al tavolino di un vecchio caffè della sua Trieste, la sua fantasia si aggira fra le rovine della Mitteleuropa inseguendone le più alte testimonianze o gli ultimi sopravvissuti, al punto che ogni oggetto del suo amore solo in essa sa riconoscersi…” Egli rivede se stesso, una parte di sé.
“Il viaggio è ovviamente metafora di un’altra avventura più grande e universale, ma soprattutto si rivela, con realistica determinazione, sineddoche di uno slancio vitale che teme l’inebriante effusione di un lirismo che sta per esplodere.”
Egli frena il suo dire e lo adegua al reale, “con la precisione dei riferimenti, con l’evidenza delle cose che vede attorno, cosicché la sua prosa si tende nello sforzo di misurare i sentimenti della realtà, mantenendo sempre vigile e fermo il senso critico e la limpida intelligenza dell’interpretazione.”: un martire che reca testimonianza. “… è “scrittore di idee” animato da forte tensione morale…”
Ora cercherò di capire una parola.
Un testo di Magris “si intitola La persuasione e la rettorica.” Ed ancora: “Mentre avanza nella sua esplorazione della vita Magris è attratto dalla sublimità della ‘persuasione’, della sua disperata saggezza, dalla vertigine di un possesso della vita del quale non si possa essere defraudati…”
Poi ci tornerò, ora indico questa frase: “… la periferia in un microcosmo ha un senso solo se in esso si incontra qualcosa di grande, che non appartiene solo a quell’orizzonte limitato…”
Sempre che il cosmo sia composto di frattali, come mi auguro dal fondo del mio cuore. Leonardo era un genio anche in questo: scorgeva nel piccolo il senso del grande e viceversa.
“… la tentazione della ‘persuasione’ si affaccia forte, quasi irresistibile, ed è temperata con misurata saggezza, costringendo l’attenzione a non staccarsi dalle cose, dalle minime vicende dell’esistenza quotidiana, nelle quali tuttavia si specchia e si rivela l’eterno e fermo mistero di questa vita senza storia.” Sento odore (profumo, o puzzo, in ogni caso un che di aulente) di un che di fede.
“La ‘persuasione’ è tutta qui, nell’accettazione di un presente irrimediabilmente uguale a se stesso, orribile e sublime, meraviglioso – ‘le magnifiche sorti e progressive’ – e catastrofico, così è l’utopia che diventa ‘retorica’, tant’è vero che ‘dà senso alla vita’, che ‘esige, contro ogni verosimiglianza, che la vita abbia un senso’”. Credo quia absurdum?
“Sta qui la ragione che consente a Magris di interpretare il viaggio ‘come persuasione’, intesa michelstaederienamente come vita piena, ‘libera e appagata’, come ‘possesso presente della propria vita’, come ‘capacità di vivere l’attimo, ogni attimo, senza sacrificarlo al futuro, senza annientarlo nei progetti e nei programmi’”. Carpe diem?
“È questo della ‘persuasione’ un tema ricorrente e centrale dell’opera di Magris…” Ne sono persuaso.
“La persuasione è una tentazione costante, il lato dionisiaco e lunare, il verso spregiudicato e utopico, il modo ideologico e femminino che ha Magris di abbandonarsi alla vita; tuttavia alla fascinazione dell’annientamento, quella stessa che lo attrasse giovanissimo studioso della cultura mitteleuropea, egli sin da allora seppe lucidamente resistere, e anche in questo libro alla fin fine non si vive per scrivere, ma si scrive per vivere, che è tutt’altra cosa.”
Io vivo scrivendo e scrivo vivendo. Io lo faccio perché non riesco a sopravvivere: similmente mangio, faccio scivolare il lambrusco giù per al canalóss, e faccio tante altre cose. Scrivere è partorire e andar di corpo (nasca quel che nasca!), ma non viceversa. Persuasione è consapevolezza? Assomiglia alla filosofia che fluisce dal proverbio materno piânşer fa trî e réder fa trî. Sempre 3 fa. E 3 – 3 = 0. E = mc2. E – mc2 = 0.
Questo esauriente capitolo s’intitola in viaggio con claudio magris.
“Antonio Debenedetti, scrisse Enzo Siciliano ‘osa toccare la corda del sentimento con grazia disinvolta, ne ricava un suono laminato, straziato.’” – spesso gli assoli sono così, solinghi, solitari, solipsistici. Non conosco l’opera di questo autore, vado solo per intuizione.
“… cerca, insomma, la gioia e l’ebbrezza piene e solari.” – finché brillerà quella materna stella.
“Di questa vita protagonisti sono i dandy che ‘coltivano un’etichetta legata alla lucidità, alla chiaroveggenza psicologica anziché alle belle maniere inusitate, ai sensazionalismi quella più ambigua dell’armonia tra conscio e inconscio.” Sono degli originali, eterogenei rispetto alla massa, che ambiscono il godimento magari non semplice, ma immediato.
“Ogni cosa è limpida e chiara dinnanzi al dandy, ma niente lo muove e lo commuove…” In inglese i due sensi si unificano in un unico termine: to move.
“Le nostre vite – annota smarrito – sembrano destinate a perdersi senza lasciare un segno, senza costruire nulla. Idee che rimangono sospese in aria, giornate che si spendono a vuoto.” Tanto vale coltivare i cavoli del proprio orto, oppure raccogliere i frutti che s’incontrano occasionalmente per la via.
“Quale scopo si prefigge questo ricercatore che insegue l’emerge della devianza nello squallore della normalità quotidiana non è facile spiegare: quello che lo attrae sembra l’incerto confine tra normalità e devianza, tra felicità e infelicità, tra disperazione e speranza, tra socialità e solitudine. Questo confine è terribilmente fragile e leggero e per di più mobile e inquieto: basta un sospiro non trattenuto a farlo oscillare e librarlo nell’aria.” Che gli opposti siano frutto di un’illusione?
“Antonio Debenedetti cominciò con la catalogazione degli orrori quotidiani dell’umana esistenza, dove le miserie l’hanno vinta su qualsiasi aspirazione di gloria: i suoi personaggi sin dall’inizio esalavano odori mefitici da un corpo che lentamente si sfa, dissolvevano qualsiasi incanto con numerosi richiami alla loro esistenza, spurgavano orrende escrescenze dai più vergognosi orifizi e nascondevano nel profondo inconfessabili desideri.” Come dicono in una delle mie tante parti: ‘n tiempo ‘e tempesta, ogni pertuso è puorto, da dove qualcosa può uscire, può pure entrare una speranza.
“I personaggi di Debenedetti sono privi di ogni possibilità di redenzione, di qualsiasi speranza di riscatto, restano estranei anche alle grandezze della tragedia, si consumano fino alla fine nella sordida povertà spirituale di un dramma nel quale neppure riescono ad avere coscienza.” – brutti, sporchi, cattivi e anche inconsapevolmente tali.
“… i suoi ‘spavaldi’ sono soprattutto ‘strambi’, che inseguono un’apparenza di dignità destinata a vanificarsi nonostante ogni sforzo.”
Questo capita all’anziana “zitella, irretita dia rimpianti, destinata ‘prima di sfiorire’ del tutto a gonfiarsi e a lievitare ‘imprevedibilmente’.” – e ti vien quasi voglia di adottarla.
“… il dandy è un vero signore, ‘cede’, ma non rinuncia, cosicché la sua letteratura alla feroce creatività dell’arte – ma ci sarà mai l’arte nel deserto senz’‘aura’? – preferisce l’intelligenza del saggio.” Occorre sempre aver il coraggio di rispondere a ogni atroce domanda.
“L’inettitudine a vivere e ad agire di quest’uomo è infettiva, si diffonde come un morbo pestilenziale, corrompe gli animi e i sentimenti, li insozza e li sgretola e alla fine trionfa in un plumbeo deserto di solitudine e desolazione.” Si può sopravvivere anche tenendo il motore al minimo, però.
“Non c’è niente che si salvi, non c’è proprio niente di buono e di bello, resiste soltanto la miseria di una vita sempre più uniformemente grigiastra.” Al che io obietto: non è più lecito sognare un domani glorioso?
Questo individualistico capitolo s’intitola antonio debenedetti narratore.
“… figura enigmatica e un po’ misteriosa di Roberto Blazen, detto Bobi, ben nota a chiunque abbia seguito le vicende editoriali del Novecento, è al centro della prima prova narrativa di Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon (1983). Bazlen è più facilmente protagonista di un’invenzione letteraria che di una ricerca propriamente critica, più che un intellettuale infatti egli è un mito, il mito di un esercizio libero e improduttivo dell’intelligenza in un mondo ormai irrimediabilmente dalle esigenze della produzione e del mercato.” È la negazione dell’Umanesimo?
“Il mito dello scrittore che non scrive, della sapienza inesauribile che si rifiuta alla storia, degli innumerevoli libri letti e posseduti che documentano gli spazi inesplorato della nuova cultura novecentesca, resiste soltanto nella luce di un crepuscolo malinconico, rivelandosi impraticabile e improponibile nel presente.” Si tratta di un annullamento senza riedificazione?
“Anche Del Giudice appartiene a una generazione che ha speso le sue migliori energie per annullare la tradizione, anziché per edificare il ‘nuovo mondo’, una generazione ‘senza speranza’.” Ci sarà un più che valido motivo? Del Giudice è poco più anziano del sottoscritto.
Perché scrivo? Per esprimermi. Poi è importante la comunicazione. Ma se essa diventa impossibile o quasi, perché continuare a scrivere? Per fede? Per egoismo? Per gioco? Perché non si può evitare di farlo? Perché Tasso non vende quasi nulla, mentre Bruno Vespa scala le classifiche di vendita?
“Ho letto con qualche sospetto i libri di Del Giudice, mi frenava il senso di freddezza che trasmettevano, più forte di qualsiasi altra emozione; la loro levigatezza era niente affatto lieve e vibrante…”: lieve da lèvis, leggero, levigare da lævis, liscio. Ma non ci vuole un’aquila per capire che i due termini hanno almeno un’ava in comune: ciò che è leggero e liscio scivola via meglio, in quanto patiscono meno gli effetti della gravitazione e dell’attrito.
Nel caso di Del Giudice, la levigatezza è “anzi marmorea e monumentale letteralmente…”. Qui è forse una diade che sorregge l’opera dello scrittore.
“La vicenda del giovane che si sforza di vedere oltre il suo destino di cecità, al di là delle ombre, è allusiva, perfida e spietata; dice e non dice, sfiora tutti i temi possibili – l’arte, il museo, la parola, la verità, la rivoluzione, la morte, l’amore – e poi li elude con l’eleganza di un ballerino…” Si concede e si nega, e poi si riconcede e poi si rinega.
“C’è dell’eroismo in questa sfida della letteratura all’insensatezza del mondo, c’è del coraggio nella fiducia ostinata che lo scrittore ripone nella parola, ma ancora una volta a Del Giudice è riuscito di trasformare il racconto di una specifica esperienza nella metafora della condizione dell’uomo in questo nostro tempo, interrogando la quale possiamo convincerci di non essere definitivamente smarriti.” Cesare sta parlando di Orizzonte nobile (2009).
Di questo autore ho letto Staccando l’onda da terra, e ho un ricordo: mi aveva lasciato perplesso.
Grazie a te, Cesare, ho deciso di dare a Daniele una chance di diventare mio amico.
Quest’enigmatico e rivelatore capitolo s’intitola fedeltà a del giudice.
“Lo scrittore, dopo aver ripercorso le tappe della sua educazione spirituale e letteraria inequivocabilmente antinovecentesca, concludeva le sue riflessioni ripetendo gli impegni che Hugo von Hofmannsthal si assumeva all’alba del secolo nella Lettera di Lord Chandos: ‘Sentire la natura come qualcosa che ci appartiene, un prolungamento del nostro cuore. Essere consapevoli che le cose sono precarie, deperibili, avere per esse uno sguardo sempre attento, prendersene cura, diventarne responsabili, cercare con le cose, gli animali, il genere umano un grande racconto’”.
Anche la precarietà è un valore da osservare, anche la nostra osservazione di essa lo può diventare, ma occorre una certa consapevolezza del proprio limite esistenziale.
“Lodoli è disposto a confrontarsi con i modelli della ‘letteratura di massa’ o a confonderci con la tradizione del realismo e pesino del ‘neorealismo’, deciso però a non restare prigioniero…”: anche quei modelli sono possibili oggetto di studio.
“Più invecchio più mi considero un principiante…” Basta questa considerazione a farmi voler ricercare ovunque questo autore. Anche la frase successiva mi attira, come se fosse un buco nero: “Non so nulla dell’unica cosa che vorremmo fosse chiara e dispiegata fin dall’inizio, ossia della morte. Di fronte ad essa ogni conoscenza traballa e cade e siamo tutti principianti, perché un sapere prima dell’esperienza sembra impossibile…” – sembra.
Se il tempo non esiste, come assicura il fisico Julian Barbour, potremo aver la chance di osservarla e di osservare noi mentre osserviamo Lei.
“… da una parte c’è lo scrittore, teso nello sforzo di riconoscere nella realtà quel che immagina gli appartenga, e dall’altra il personaggio solo apparentemente docile e quieto, invece ostinato e sfuggente, libero e arioso…” – un’attrarre e uno sfuggire, una massa gravitazionale e una luce che è pura energia.
“L’autore scrive in prima persona, mettendosi direttamente in gioco, deciso ad affermare la sua presenza, eppure i sentimenti e i pensieri appartengono all’altro e di conseguenza faticano a esprimersi e a definirsi, piuttosto si aggirano bizzarri e inquieti.” Spesso il fenomeno occorre fra padri e figli. Capitò a me e ai miei due diretti consanguinei.
“‘Inventa tutto lo scrittore’ – proclama Lodoli superbo, ma poi smorza ogni entusiasmo, perché riconosce che molto in verità a lui sfugge, e cioè tutto quello che lo sovrasta, il destino, l’eterno, la morte, ‘il Grande Discorso Inevitabile’”. Il primo passo, forse, caro e abbassare un po’ le maiuscole e togliere il grande: basta dire il discorso inevitabile.
“Nessun altro scrittore ha così lucida la coscienza di essere giunto al punto e così tanta forza d’animo da confessare che si scrive ‘per non pensare al peggio’, non per abolire la morte, ma per ‘arginarla nella mente un poco, stordirla con una storia che confonda’ sviarla su una falsa pista’.” Qui dissento, ma lo farò a voce, Marco, qualora capitasse.
Questo sorprendente capitolo s’intitola quindici anni con marco lodoli.
Susanna Tamaro. “È evidente che la scrittrice raccoglie esperienze prossime e remote per misurare la propria lucidità rispetto all’improvvisa e irragionevole esplosione della violenza, che cova, repressa ma niente affatto domata, nel segreto dell’animo, pronta a esplodere senza nessuna ragionevole motivazione e senza possibilità di prevederla e controllarla, solamente dominata dal caso e dal destino.” – anche da noi.
“Eppure la vita, il suo straordinario mistero, il suo imperscrutabile significato, sta proprio qui, nella capacità di misurarsi con il male, di controllarne le devastanti esplosioni, nella disperata resistenza alla sua sopraffazione. È, suggerisce, Susanna, davvero una questione di forza, di fiducia, di fede.” È come dire che non è prevista una soluzione, però ci si può sperare, puntando verso una meta che forse non esiste. È il Caso che deciderà. O il Caos, il re degli abissi? O è una scelta come fra córer e scapêr?
“La scrittura assai più che il territorio della fantasia definisce lo spazio nel quale si disegna un cammino lungo e spesso accidentato sulla via della verità, un percorso del quale appena si intuisce la direzione mentre sfugge ogni volta il traguardo, come se fosse impossibile compierlo nell’arco di una sola vita, ma che ridà senso e significato all’interrotta ricerca, all’ansia di agire, al dover proseguire nonostante tutto.” Scrivere è quindi sperare, un tendere verso… l’ignoto.
“La vita corre in tondo senza fine e il suo mistero si rigenera ogni giorno; quel che conta per non perdersi di nuovo e tenere la rotta è restare fedeli proseguendo il percorso.” – in bocca al lupo, Susanna!
Mi pare davvero intrigante l’ultima considerazione di Cesare: “Se la scrittura è testimonianza o profezia, la Tamaro ha certo scelto la seconda strada; quello che le sta attorno le interessa assai più per quello che nasconde che per quello che mostra…”: non è solo una questione di fascinazione, bensì operativa.
Quest’augurante e costruttivo capitolo di commiato s’intitola fedele a se stessa (susanna tamaro).
Un caro saluto al Cesare a cui mi sono legato in queste due settimane, uomo per cui varrebbe il detto veni, vidi, de-scripsi. Quel che ho amato di più in questa sua silloge non sono le indubbie competenze e generosità, quanto il suo mettersi in gioco personalmente ogni qual volta ve n’è stata la necessità. Che è per me l’aspetto più eroico della scrittura.
La mia opinione sul titolo dell’opera? Leon Battista Alberti… E ora… cosa c’entra costui? Per fissare le regole dell’avvenire egli le cercò nel passato, trasformandole. Leonardo studiò la pittura fiamminga e andò oltre, con la sua prospettiva aerea. Nulla si può più inventare? No, non credo che sia ormai un atto impossibile, ma che, per proseguire, serve guardare innanzi, dando sempre un prudente occhio agli specchietti retrovisori.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Cesare De Michelis, Moderno Antimoderno, Marsilio editori, 2021