“Nietzsche nei ricordi e nelle testimonianze dei contemporanei”: l’incontro con Resa von Schirnhofer
“Nel modo in cui me ne parlò non c’era traccia di mania di grandezza patologica e nemmeno di quella quasi normale – altrimenti detta millanteria – né della scelta delle parole né nel tono del discorso. Questo tradiva piuttosto un ingenuo, infinito stupore per qualcosa che gli restava enigmatico e faceva vibrare di inquietudine tutto il suo essere.” – Resa von Schirnhofer

Resa (Therese) von Schirnhofer nacque a Jahre nel 1855, si trasferì nel 1882 a Zurigo perché le donne furono ammesse come studentesse di filosofia proprio in quella città e da pioniera si diresse senza esitare. Conseguì il dottorato nel 1889 con una dissertazione tra l’insegnamento di Schelling e Spinoza.
Si è ritenuto che Friedrich Nietzsche (Röcken, 15 ottobre 1844 – Weimar, 25 agosto 1900) sia stato stimolato alla conoscenza di Baruch Spinoza (Amsterdam 1632 – L’Aia 1677) proprio da Resa von Schirnhofer che ne studiò attentamente l’opera.
Ma il 30 luglio del 1881 Nietzsche scriveva al pittore tedesco Johann Friedrich Overbeck (Lubecca, 3 luglio 1789 – Roma, 12 novembre 1869): “Sono pieno di meraviglia e di entusiasmo! Ho un precursore e quale precursore! Io non conoscevo quasi Spinoza: per ‘istinto’ ho desiderato ora di leggerlo. Ed ecco che non solo la tendenza generale della sua filosofia è identica alla mia: fare dell’intelletto la passione più poderosa; ma mi ritrovo ancora in cinque punti capitali della sua dottrina; questo pensatore, il più abnorme e solitario, mi è vicino in sommo grado appunto in queste cinque argomentazioni: egli nega il libero arbitrio; le cause finali; l’assetto morale del mondo; il disinteresse; il male. Anche se tra Spinoza e me restano enormi diversità, queste sono da attribuire soprattutto alla differenza dei tempi, della cultura della scienza. In summa: la mia solitudine – che, come accade in alta montagna, spesso mi toglieva il fiato e mi faceva trasudare sangue dai pori – è ora, per lo meno, una solitudine a due. Meraviglioso!”
E Resa – come si è riferito poc’anzi – si è trasferita a Zurigo nel 1882. Certamente ella avrebbe potuto conoscere le opere di Spinoza precedentemente ai suoi studi universitari, questo non lo si può mettere in dubbio anche perché proveniva da una famiglia aristocratica austriaca, ma non si può neppure mettere in dubbio che Nietzsche conobbe la von Schirnofer nel 1884 e che la lettera ad Overbeck sia del 1881.
“Ho spiegato che davo poca importanza al titolo per me, ma nell’interesse dei diritti delle donne non volevo lasciare l’università senza aver conseguito la laurea.” Così scriveva Resa in risposta alla domanda di Nietzsche sul perché ella volesse ottenere il dottorato.
Resa fu appassionata frequentatrice del circolo di Malwida von Meysenburg[1] e si può ben presumere che conoscesse anche Lou Andreas-Salomé (San Pietroburgo, 12 febbraio 1861 – Gottinga, 5 febbraio 1937).
“Nietzsche nei ricordi e nelle testimonianze dei contemporanei” è un libro essenziale per coloro che vogliono cimentarsi nello studio del grande filosofo tedesco.

Circa 450 pagine suddivise in due parti: la prima è un ricco saggio critico ad opera dello scrittore e saggista Claudio Pozzoli (Milano, 22 settembre 1942) e la seconda è una scelta antologica delle testimonianze di coloro che hanno conosciuto Nietzsche. Impressioni di amici, studenti, semplici conoscenti ed ovviamente della sorella Elisabeth presentate in ordine temporale dai primi ricordi d’infanzia (1847-1858) sino alla morte (1900). Tra le due parti è presente un inserto con una selezione di fotografie che ritraggono il filosofo dell’eterno ritorno dell’uguale, i suoi familiari e gli ambienti in cui fu solito prendere alloggio.
Si è pensato di presentare un’interessante testimonianza di Resa von Schirnhofer che racconta del secondo incontro avvenuto con il nostro filosofo a metà agosto del 1884 precisamente a Sils-Maria. Il racconto si sofferma sull’entusiasmo di Nietzsche riguardo la roccia nella quale per la prima volta giunse il pensiero di Zarathustra. La donna in quell’occasione fu rapita dal fervore di Nietzsche ma ne fu anche scossa, così come quando il filosofo le domandò, in un’altra occasione: “Non crede che questo mio stato sia un sintomo di inizio di pazzia?”. Si ipotizza che Nietzsche potesse anche aver sentore della pazzia per il pensiero più grave che si accingeva a pensare.
“Che cosa accade se questo pensiero viene realmente pensato?” Si chiede – e ci chiede – Martin Heidegger (Meßkirch, 26 settembre 1889 – Friburgo in Brisgovia, 26 maggio 1976) in “Nietzsche”[2].
Resa non riuscì, in quell’occasione, a comprendere il filosofo e lo lasciò solo nella sua inquietudine, spaventata da una domanda esternata. Forse per questo motivo, nel 1897, la sorella Elisabeth Förster-Nietzsche volle parlare delle conversazioni avvenute all’epoca.
Sul finale il particolare della morte del padre è di interesse perché è accertato che il padre di Nietzsche, Carl Ludwig Nietzsche, è morto nel 1949 dopo un anno di apatia cerebrale ma la causa dell’apatia è incerta, secondo Elisabeth è stata causata da una caduta, secondo altri da un possibile tumore, oppure un ictus o dalla stessa malattia che poi avrebbe colpito il figlio.
Si sottolinea anche il modo in cui Resa volle lasciare ai posteri la possibilità dell’uso da parte di Nietzsche dell’hascisc sulla base delle letture dei poeti francesi dell’epoca, tra i quali lo stimato poeta e critico Charles Baudelaire (Parigi, 9 aprile 1821 – Parigi, 31 agosto 1867).
Si confida nella scaltrezza del lettore nel riuscire a non parteggiare né per la studentessa pioniera dei diritti femminili né per l’onnipresente Lama[3]. Piuttosto ci si deve avventurare nei ricordi tenendo sempre in mente sia la possibilità di finzione conscia o di simulazione inconscia, sia la complessità dei rapporti umani soprattutto se nelle due sponde opposte ci sono persone guidate dal genio.
“Non appena il dolore diventa abbastanza grande, va avanti da solo.” – Hermann Hesse
Metà agosto 1884
“Il secondo incontro con Nietzsche ebbe luogo a Sils-Maria, dove arrivai alla fine del semestre estivo del 1884, durante il viaggio di ritorno nella mia patria austriaca, che ebbe inizio con escursioni a piedi in compagnia della studentessa di medicina Clara Willdenow. Mentre a Nizza avevo conosciuto un Nietzsche apparentemente sano, a parte gli occhi malati, questa immagine si modificò in quel mio breve soggiorno in Engadina, dove egli parlò molto di sé e dei suoi disturbi ed ebbe anche un grave attacco, che lo inchiodò per un giorno e mezzo nella sua stanza.
Per il resto del mio soggiorno mi fece nuovamente da guida nelle passeggiate e mi mostrò diversi luoghi dove amava sostare. Condusse anche me, come altri visitatori prima e dopo, allo scoglio lambito dalle onde in riva al lago di Silvaplana, la roccia di Zarathustra: quel luogo meraviglioso dove la natura risplende di severa bellezza, e il lago di un verde profondo, il vicino bosco, le alte montagne e il silenzio solenne tessono il loro incanto. Dietro sua preghiera mi sedetti su quella pietra, per lui sacra: Zarathustra iniziò allora a parlare dalla sua sfera di alta tensione intellettuale ed emozionale, con una profusione di pensieri e di immagini in linguaggio ditirambico.
Poi mi raccontò della sorprendente rapidità con cui aveva creato le singole parti di quest’opera, sottolineò la fenomenalità di questa produzione, l’ispirazione a cui la scrittura riusciva con difficoltà a tener dietro.

Nel modo in cui me ne parlò non c’era traccia di mania di grandezza patologica e nemmeno di quella quasi normale – altrimenti detta millanteria – né della scelta delle parole né nel tono del discorso. Questo tradiva piuttosto un ingenuo, infinito stupore per qualcosa che gli restava enigmatico e faceva vibrare di inquietudine tutto il suo essere. Ancora, oggi, la visita alla rocca di Zarathustra resta viva nel mio ricordo in modo commoventemente reale. La creatività poetica di Nietzsche mi apparve come allora come l’effetto di una genialità potenziata, non mi venne neppure in mente di giudicarla criticamente né di interpretarla come un sintomo.
Proseguendo lungo la riva del lago, lasciammo dietro di noi la magica zona di Zarathustra: scomparvero così anche le misteriose vibrazioni in Nietzsche e subentrò un naturale rilassamento, favorito dalla deliziosa freschezza e dall’aria pura di quella chiara giornata estiva, non minacciata da nessuna di quelle nuvole elettriche che Nietzsche temeva tanto.
Come dice il proverbio: “Dal sublime al ridicolo non c’è che un passo”, anche noi passammo rapidamente dalle regioni ideali della creazione filosofica alle bassure dell’aspra realtà, e dalle alte onde della grave solennità all’ondeggiare leggero della comicità quotidiana. Quando entrammo nel bosco, dalla montagna ci arrivò addosso, a balzi selvaggi, una mandria di buoi, che si precipitava allegramente giù per il pendio. Io cercai di sfuggire e Nietzsche, che vide il mio involontario spavento, pur divertendosi molto levò cavallerescamente in alto il suo noto accompagnatore quotidiano, il parasole grigio: e saltando di qua e di là lo agitava contro le bestie, mentre il pastore rimetteva insieme la mandria; e ben presto scompare insieme a essa. Questi atteggiamenti da difensore erano così fortemente in contrasto con l’aspetto esteriore di Nietzsche e con il suo atteggiamento di solito tranquillo e moderato, che anch’io mi resi conto della comicità della situazione e mi unii gaiamente alla sua risata. […]
Fu a Sils-Maria che Nietzsche mi parlò dei suoi attacchi di mal di testa terribili, e dei diversi rimedi di cui aveva fatto uso per combatterli. A Rapallo e in altre località della Riviera di Levante, dove aveva trascorso i momenti peggiori quanto alla salute, si era compilato lui stesso ricette in quantità, firmate «dottor Nietzsche», che gli erano state preparate e consegnate senza domande né indugi. Purtroppo non mi annotai niente. Ricordo solo il famoso cloralio idrato[4].
Ma che ci dovessero essere anche sostanze pericolose lo deduco dal fatto che Nietzsche, come mi disse lui stesso, era abbastanza meravigliato che non gli avessero mai chiesto se fosse medico, autorizzato a prescrivere certe sostanze. Del resto, mi disse, egli conosceva la sua malattia meglio di qualsiasi medico, così come i rimedi da usare. Nietzsche non mi ha mai detto di aver fatto uso di hascisc, né ricordo di aver mai sentito nominare da lui nemmeno la parola: ma non c’è dubbio che nell’estate del 1884 conosceva l’hascisc, droga da poco introdotta in Europa, attraverso le sue intense letture degli scrittori francesi contemporanei, tra cui Baudelaire. Già nella “Gaia scienza” del 1882 si parla dell’usanza di fumare hascisc, anche se solo come un modo orientale per stordirsi. […]
Poiché Nietzsche non si era fatto vedere per un giorno e mezzo a causa della malattia, al mattino la signorina Willdenow e io andammo a informarci sul suo stato. Ci dissero che si sentiva meglio e che desiderava parlarmi. Mentre la mia accompagnatrice aspettava presso l’ingresso della casetta, costruita a ridosso della roccia, io fui condotta su per una scala fino a una modesta saletta da pranzo.
Mentre attendevo in piedi presso il tavolo, si aprì la porta di destra che dava nella camera adiacente, e Nietzsche comparve. Appoggiato stancamente allo stipite della porta mezza aperta, con un’espressione stravolta sul volto pallido, iniziò subito a parlare di quanto fossero insopportabili le sue sofferenze. Mi descrisse che, quando chiudeva gli occhi, vedeva una quantità di fiori fantastici, che crescevano avviticchiati e intrecciati e sbocciavano l’uno dall’altro in un esotico rigoglio, trasformandosi e creando la più ricca varietà di forme e di colori.
«Non ho mai pace» si lamentò, parole che mi rimasero impresse. Poi improvvisamente, i grandi occhi scuri ansiosamente rivolti verso di me, chiese con la sua voce soave piena di tormentosa inquietudine: «Non crede che questo mio stato sia un sintomo di inizio di pazzia? Mio padre è morto di una malattia al cervello». Profondamente sconvolta da questa domanda così inattesa, mi passarono per la testa pensieri di ogni genere, e all’improvviso mi si riaffacciò il ricordo di una vecchia signora, sofferente di mania di persecuzione, che una volta mi aveva spaventato con una domanda analoga.
Non risposi subito, e Nietzsche mi ripeté la domanda sconvolgente, il che tradiva, mi parve, un intenso senso di angoscia, a malapena controllabile. Non sapevo che fare, ma sentivo di dover dire qualcosa per tranquillizzarlo – anche se ciò era in contrasto con l’idea che mi ero fatta intuitivamente della situazione. Affermai dunque in tono risoluto che questi fenomeni di sovreccitazione nervosa dei suoi occhi indeboliti non erano sicuramente un segno di malattia mentale, e così via, e mi congedai augurandogli di riprendersi rapidamente dall’attacco.
Questa scena mi lasciò una profonda impressione, in particolare per l’angoscia incombente che si era manifestata nel suo atteggiamento, nel suo sguardo, più ancora che nelle sue parole. Ancora sottosopra, riferii il colloquio a Clara Willdenow, che però come studentessa in medicina al primo semestre non ne sapeva più di me sui sintomi iniziali delle malattie mentali. Ci volle molto tempo prima che ci tranquillizzassimo in merito a queste dichiarazioni di Nietzsche, che tradivano oscuri timori e gravi stati ansiosi. Come alla luce di un lampo, vidi una seconda volta nella profondità fatale della sua personalità: per un attimo mi era di nuovo apparso un altro Nietzsche.

Non mi è possibile credere che Nietzsche abbia parlato solo con me di questa sua paura di diventare pazzo, anche supponendo che essa lo cogliesse solo raramente e per brevi momenti. […]
Alla fine di ottobre del 1897, mentre mi trovavo in Svizzera durante il viaggio di ritorno dalla Russia, accolti i ripetuti inviti della signora Förster-Nietzsche, che desiderava conoscermi personalmente, e le feci visita a Weimar: ella volle sapere molte cose dei miei incontri col fratello, e mi fece molte domande sui nostri colloqui di allora. Naturalmente le raccontai tra le altre cose anche della domanda fatale di Nietzsche a Sils-Maria, che mi era rimasta nella memoria come una sconvolgente rivelazione della sua angoscia e dei presentimenti più opprimenti. Ella però respinse subito l’idea, atterrita, e affermò con convinzione che dovevo aver frainteso il significato di questa dichiarazione del fratello, fatta ancora sotto l’effetto di un brutto attacco. Egli infatti non poteva assolutamente aver detto che il padre era morto di una malattia al cervello, in quanto la causa della morte risaliva alle conseguenze di un grave incidente. Poiché notai che questi argomenti la mettevano in grande agitazione, non risposti nulla, e lasciammo cadere la faccenda.”
Note
[1] Malwida von Meysenbug (Kassel, 28 ottobre 1816 – Roma, 23 aprile 1903) è stata una scrittrice tedesca. Suo padre, Carl Rivalier, discendeva da una famiglia di ugonotti e ricevette il titolo di Barone von Meysenbug da Guglielmo I d’Assia; era la nona di dieci figli. Ruppe ogni rapporto con la sua famiglia a causa delle proprie idee politiche, mentre due dei suoi fratelli fecero invece brillanti carriere come ministri, uno a Vienna e l’altro a Karlsruhe. Nel 1852 emigrò in Inghilterra dove visse insegnando e traducendo e dove incontrò Louis Blanc, Giuseppe Mazzini, Alexandre Ledru-Rollin e Gottfried Kinkel, tutti rifugiati politici; il giovane Carl Schurz divenne anch’egli suo conoscente. Fonte Biografia Wikipedia
[2] Citazione da «Incipit tragoedia» in Libro primo, pag. 236, Adelphi, 1994.
[3] Nomignolo affettuoso che Nietzsche soleva utilizzare per la sorella.
[4] Il cloralio idrato è un sedativo ipnotico che agisce riducendo l’attività del sistema nervoso centrale, inducendo sonnolenza e favorendo così il sonno. Continua a leggere su Humanitas.it
Bibliografia
Nietzsche nei ricordi e nelle testimonianze dei contemporanei, A cura di Claudio Pozzoli, Biblioteca Universale Rizzoli, 1990
Written by Alessia Mocci
Non so quanto l’autrice dell’articolo si sia identificata in Resa. Magari per il weekend proverò a identificarmi con Wiligelmo….