“Diario” di Søren Kierkegaard: la solitudine ed il dialogo interiore
“In genere prima viene l’eroe, ovvero il carattere etico, poi il poeta: io volevo essere tutti e due. Mentre avevo bisogno della quiete del poeta e del distacco dalla vita e dalla calma propria del pensatore, volevo al tempo stesso essere nel mezzo della realtà, e la creazione poetica e la riflessione metafisica insieme. Martire di me stesso come sono sempre stato, nella mia malinconia avevo, non senza fierezza, escogitato questi còmpiti per tormentarmi. Dio è venuto in mio aiuto e, come sempre, al di là di ogni misura.” – Søren Kierkegaard
Il filosofo e teologo Søren Aabye Kierkegaard (Copenaghen, 5 maggio 1813 – Copenaghen, 11 novembre 1855) visse la quasi totalità della sua vita a Copenaghen avendo ricevuto come educazione l’ossessione del peccato da un padre ormai anziano convinto di essersi macchiato di una grande colpa. Sin da giovane, Søren nonostante la rigida educazione sviluppò un grande senso dell’ironia che portò al rifiuto della filosofia hegeliana e dalla Chiesa danese. Nonché un rifiuto dell’amore di una donna, infatti lasciò – senza dare una precisa spiegazione – la fidanzata Regine Olsen (Frederiksberg, 23 gennaio 1822 – Frederiksberg, 18 marzo 1904), pur restandole fedele per tutto il corso della vita tanto da nominarla ereditiera del suo patrimonio malgrado il matrimonio di lei con l’avvocato e dipendente pubblico Johan Frederik Schlegel.
Søren ha dedicato la vita allo studio ed alla scrittura senza lasciarsi abbindolare dai bagliori fittizi dei salotti e delle strade principali delle grandi città. Abbiamo, dunque, una vastità di scritti tra opere, diari, lettere, antologie; citando le più conosciute “Aut-Aut” (Enten-Eller), “Timore e tremore”, “Il concetto dell’angoscia”, “La malattia mortale”.
Un uomo che, con occhio infallibile, ha avvertito i segni del suo tempo e con coscienza profetica ci ha narrato il presente, un uomo che accostiamo al filosofo, poeta e critico letterario svizzero Henri-Frédéric Amiel (Ginevra, 27 settembre 1821 – Ginevra, 11 maggio 1881) ed è anche per questo motivo che si è deciso di raccontarlo con alcune pagine estrapolate dal suo Diario.
Di seguito è riportata una selezione di alcune pagine tratte dal Diario di Kierkegaard che riguardano due tematiche ma che in realtà è ascrivibile ad una sola: il dialogo interiore.
Centrale nel ragionamento l’esser poeta come disposizione ricevuta da Dio e questo ci ricorda anche il poeta, saggista e drammaturgo russo naturalizzato statunitense Iosif Aleksandrovič Brodskij (Leningrado, 24 maggio 1940 – New York, 28 gennaio 1996) che, a domanda del giudice sul dove avesse studiato per dichiararsi poeta, rispose: “Io penso che… (confuso) venga da Dio…”.
La lamentatio più struggente del filosofo è dell’aver peccato allontanandosi della strada che doveva percorrere, tratteggia la sua infatuazione per Regine come allontanamento dal precedente “fidanzamento” con Dio e con tutto ciò che è spirituale avvenuto da bambino. Una infatuazione che però subito dopo reputa necessaria per la riscoperta della sua più intima essenza. Ripete, infatti, di non essere un santo ma un penitente e che la sua vita sarà volta proprio a questa penitenza, non una vita da profeta ma una vita da poeta.
“Io non trovo nessun rifugio presso gli altri. Non ho detto mai a un solo uomo proprio nemmeno una parola di quel ch’io veramente soffro: non posso.”
Essendo questa sottostante una scelta soggettiva si invita all’acquisto del volume riportato in bibliografia (od in alternativa dell’edizione del 1962 edita da Morcelliana) per potersi abbeverare in modo più approfondito.
“Costruiamo la scala per l’ascesa.” – Niccolò Cusano – “Deus absconditus”
La solitudine ed il dialogo interiore
“Se la mia malinconia mi ha in qualche modo portato fuori di strada, dev’essere per avermi fatto considerare come colpa ciò che era forse una sofferenza infelice, uno scrupolo. È questo in un certo senso lo sbaglio più tremendo, il segnale di un tormento quasi da impazzire. Ma benché in questa materia io abbia esagerato, tuttavia mi ha giovato.”
“È evidente che chi è rivestito di autorità divina, può andare infinitamente più avanti di un uomo comune, per quante doti abbia costui. Perché il primo ha sempre un punto fermo, cioè l’ordine avuto da Dio; mentre l’uomo comune trova la dialettica due volte, anzitutto nella lotta con gli uomini, e poi nel rapporto a Dio quando deve chiedersi: mi è poi permesso rischiare tanto?”
“Maometto protesta con tutte le forze ch’egli non è un poeta e che il Corano non è poesia: egli vuol essere profeta (cfr.: Goethe). Io protesto invece con tutte le forze per non essere tenuto per un profeta: voglio essere soltanto un poeta.”
“… Se qualcuno mi domandasse: «Come fai a tacere di fronte alle chiacchiere, al ghigno, alla bestialità di codeste migliaia da cui sei circondato, e fra i quali vivi giorno per giorno, ecc.?» […] Io gli risponderei: Mi pare che ci sia qualcosa di affettato nel silenzio col quale tu copri simile cose o nella tranquillità con cui parli di te stesso, come se tu non fossi invulnerabile alla meschinità della vita.”
“Anzitutto, quando io parlo, c’è una Persona molto altolocata che mi ascolta, Dio nei Cieli. Egli sta nei Cieli, ascolta ciò che dice ogni uomo. A questo io penso; che meraviglia allora se il mio parlare ha una certa solennità! Del resto io non mi rivolgo a queste migliaia ma al Singolo davanti a Dio. […]
Poi, fin da tenero bambino, mi fu raccontato nel modo più solenne che la Folla sputava su Cristo, ed Egli era la Verità, la Folla sputò addosso a Lui e bestemmiava contro di Lui. Quest’impressione l’ho conservata profondamente nel mio cuore; perché anche se vi sono stati momenti, periodi interi, in cui l’abbia quasi dimenticata, ci sono poi ritornato sempre come al mio primo pensiero. […] So di essere sulla strada giusta; ne ho l’assoluta certezza. Le chiacchiere della Folla, il suo sghignazzare, la sua bestialità ne sono l’ambiente e i segni. […]”
“Ammesso che coloro i quali, dopo aver sofferto volontariamente per molto tempo i dispetti, i maltrattamenti, le calunnie dei contemporanei, dopo essere stati scherniti, sputacchiati, finiscano coll’essere crocefissi, decapitati, bruciati, coll’avere le membra spezzate: ammesso che costoro, secondo la compassione cristiana, siano martiri di prima classe (e ciò dev’essere fuori di discussione), io credo, senza dire troppo di me stesso, di essere press’a poco l’ultimo dell’infima, dell’ottava classe. È probabile che più in là non arriverò. E s’adatta bene alla mia vita il giudizio di un professore su un suo discepolo (e sarebbe stato il colmo che l’avesse scritto per me!): «Egli va indietro non senza diligenza!». Da parte del maestro non era certo un’espressione felice; solo per un caso strano un simile giudizio si confà appieno alla mia vita. «Non senza diligenza»; forse è troppo poco, perché io uso molta diligenza, sono molto diligente e industrioso; e vado indietro, questo è certissimo. E più diligenza ci metto, più vado indietro: questo è anche certissimo. […] In questo modo spero di arrivare all’eternità. […]
In senso religioso, io ero fidanzato[1] fin da bambino. Ahimè, l’ho pagata cara per aver una volta frainteso la mia vita, dimenticando ch’era già fidanzato, ma ho provato una soddisfazione che mi ha reso indicibilmente felice. Perché nel passo che allora feci, nel pericolo a cui mi esposi, io compresi completamente me stesso, e capii l’essenza del mio io nel fatto di essere già fidanzato. Fidanzato a quell’Amore che da principio e fino a questo momento, malgrado i miei molti traviamenti e peccati, ha abbracciato me (di cui si può in verità dire «ha peccato molto», ma di cui non è completamente falso il dire che «ha amato molto» con un amore che sorpassa infinitamente la mia intelligenza, con una paternità «in paragone della quale anche il padre più amoroso non è che un tutore». […]
Perché mi sembra che quando uno è puro e perfetto, un santo, la resistenza che fa il mondo alla verità deve renderlo così malinconico da farlo presto morire. Però io non sono un santo; sono un penitente, al quale può essere indescrivibilmente utile soffrire qualche cosa, a cui personalmente il soffrire dà soddisfazione proprio come penitente. Se fossi contemporaneo di uno più puro, mi piacerebbe di stornare da lui su me tutto l’odio e il maltrattamento della Folla. Questo lo considero un vantaggio che io, che ho l’onore di servire la verità, ho per il fatto di essere personalmente un penitente (per quel che posso aver commesso in passato e per quel che commetto personalmente), così (ma anche così soltanto) trovo che il maltrattamento degli uomini è giusto, quando è diretto contro di me.”
“Dio sia lodato! Ora mi comprendo. Fu tuttavia un bene che l’anno scorso non mi sia messo a viaggiare: forse il viaggio mi avrebbe dissipato o spinto a scrivere cose fuor di luogo; e tuttavia le pene che ho sofferte l’anno scorso, benché fossero tremende, mi hanno giovato indescrivibilmente.
In genere prima viene l’eroe, ovvero il carattere etico, poi il poeta: io volevo essere tutti e due. Mentre avevo bisogno della quiete del poeta e del distacco dalla vita e dalla calma propria del pensatore, volevo al tempo stesso essere nel mezzo della realtà, e la creazione poetica e la riflessione metafisica insieme. Martire di me stesso come sono sempre stato, nella mia malinconia avevo, non senza fierezza, escogitato questi còmpiti per tormentarmi. Dio è venuto in mio aiuto e, come sempre, al di là di ogni misura.
Ed ora tutto è in ordine. Ora mi tocca fare un passo indietro riguardo al fatto che sono io stesso quel che ho descritto, e così il còmpito sarà mio. Premerò con maggior forza sulla Cristianità. Sarò l’amante infelice, non potendo essere io stesso il cristiano ideale: perciò ne sarò il poeta. Quest’umiliazione non la dimenticherò mai, perciò sarò tutt’altro che uno dei soluti predicatori i quali scambiano il chiacchierare di qualche cosa con l’esserlo. […]
Questa confessione è per me la pura verità, ma il fatto ch’è la verità produce in me un dolore ch’è proprio la situazione del poeta rispetto all’opera che nello stesso tempo è quella del pensatore. Io sono andato molto, molto più in là di un poeta. Era anche necessario per trovare il còmpito: cioè il Cristianesimo, l’ideale di esser cristiani.”
“Lo scrivere è stata la mia vita. Una malinconia immensa, delle sofferenze interiori di genere simpatetico: tutto, tutto potevo dominare, purché mi fosse stato permesso di scrivere. Allora il mondo si infuriò contro di me.”
“La mia disgrazia, ovvero ciò che rende la mia vita così ardua, è il fatto che la mia tensione è di un tono più alta di quella degli altri uomini; e dove ci sono io, ciò che intraprendo non ha niente a che fare con la cosa singola, ma sempre con un principio e un’idea. La maggioranza pensa tutt’al più a una ragazza da sposare: io dovetti invece riflettere sull’essenza del matrimonio. E così in tutto.
Ora mi succede la stessa cosa. I più pensano a un impiego. Io invece mi trovo egregiamente sistemato in tutto questo sforzo di chiarificazione, in questa battaglia per l’idea: cioè nella questione di principio… fino a che punto è lecito a un cristiano assumere questi cosiddetti impieghi cristiani. Ciò che mi rende impopolare, non è tanto la difficoltà dei miei scritti, quanto il mio modo di esistere: il fatto che, nonostante le mie aspirazioni, non riesco a nulla (la teleologia finita), non faccio quattrini, non ottengo alcun impiego, né divento cavaliere; non divengo assolutamente nulla, anzi per giunta mi busco gli scherni. Ma è questa in fondo la mia grandezza, se c’è qualcosa di grande in me.”
“Devo lamentare e rimproverare a me stesso che diverse volte in questo Diario ho tentato di esaltare me stesso: Iddio me lo perdoni! Fin qui sono stato un poeta, assolutamente niente di più; ed è una lotta disperata il voler oltrepassare i miei limiti. Lo Esercizio del Cristianesimo ha per me un grande significato personale: debbo quindi pubblicarlo subito? Forse io sono uno dei pochi che abbisognano di mezzi così forti. Invece di trarne profitto e cominciare sul serio a divenire un vero cristiano, dovrei pubblicarlo prima? Fantasticherie! Lo scritto e gli scritti son lì, pronti; verrà il tempo proprio quando avrò anche la forza per pubblicarli e ciò corrisponderà alla verità della mia esistenza. […]
Dunque ora esce La malattia mortale, ma pseudonima, con il mio nome per editore? Vi è scritto per edificazione, ciò che è di più della mia categoria, della categoria del poeta: edificante. […] Lo pseudonimo si chiama Johannes Anticlimacus, in opposizione al Climacus che diceva di non essere cristiano. Anticlimacus è l’estremo opposto, l’esser cristiano in un grado straordinario […]”
“Dopo la mia morte si vedrà che basterà Timore e Tremore per rendere immortale un nome di scrittore. Sarà letto e anche tradotto all’estero, e s’inorridirà quasi per il tremendo pathos che contiene. Ma quando esso è stato scritto, quando colui che era creduto l’autore se ne andava sotto l’incognito del bighellone e aveva l’aria di petulante, di motteggiatore e leggerone: nessuno poté capirne la profonda serietà. Oh, gli stolti! Eppure mai un libro fu così serio! Proprio questa era l’autentica espressione dell’orrore. Se l’Autore avesse avuto un’aria seria, l’orrore sarebbe stato minore. La reduplicazione è il massimo dell’orrore.
Ma quando sarò morto si avrà di me un’idea fantastica, come di una figura tetra: allora il libro riuscirà tremendo. Una parola vera vi è già detta, là dove metto in risalto la differenza tra un poeta ed un eroe. Vi è in me un lato poetico preponderante, e la mistificazione è appunto nel fatto che Timore e Tremore riproduceva in fondo la mia vita.”
“La mia sofferenza, in un certo senso, dipende dal fatto ch’io veramente non sono un uomo: io sono troppo spirito. Io non trovo nessun rifugio presso gli altri. Non ho detto mai a un solo uomo proprio nemmeno una parola di quel ch’io veramente soffro: non posso. Il mio unico rifugio è Dio. Ecco perché Egli mi tiene in suo potere in un modo così tremendo. E allora però è come una durezza mostrare ch’io sono del tutto come gli altri e cacciarmi tra di loro: mentre nello stesso tempo per via di questa comunicazione segreta Egli mi tiene in suo potere in tutt’altra misura degli altri.”
“Ci fu un tempo quando per me era tanto naturale (era l’atteggiamento infantile!) crede che l’amore di Dio si manifesta col mandare buoni doni terrestri, fortuna, successo. Come l’anima mia era allora audace nel desiderare, nell’osare! Sì, perché pensavo: non dobbiamo essere noi stessi a rimpicciolire l’Onnipotente! […] Ora penso diversamente. Com’è andata la cosa? In un modo molto semplice, ma un po’ alla volta. Un po’ alla volta mi sono sempre più accorto che tutti coloro che son stati realmente amati da Dio, i modelli ecc.: tutti hanno dovuto soffrire in questo mondo. […] Io vivo ormai nella cabina isolata della mia malinconia: oso tuttavia rallegrarmi nel vedere la gioia degli altri, e oso tuttavia cristianamente sanzionarla. […] così comprendo oggi come proprio la sofferenza che mi è inviata a certe ore, come tutto quel che mi riesce male fin nelle minime cose; come proprio tutto questo è calcolato per ferirmi nel modo richiesto perché Iddio potesse servirsi di me. Oh infinito amore!”
“Che il Cristianesimo sia un’eterogeneità, un’incommensurabilità, qualcosa di irrazionale per il mondo e per l’essere uomo in modo diretto, è assolutamente il punto decisivo. Per questo, senza ascetica il Cristianesimo è impossibile. […] In breve: occorrerà abnegazione e ascesi in questa direzione; mentre l’ascesi, come la si concepiva un tempo, sarà da applicare in modo collaterale per mantener l’ordine, per inculcare il bisogno della Grazia.”
Note
[1] Kierkegaard lo scrive distaccato: for-lovet per indicare la precedenza dell’amore di Dio rispetto a quello di Regine Olsen.
Bibliografia
Søren Kierkegaard, Diario, a cura di Cornelio Fabro, Fabbri Editori, 1997
Info
Leggi “Verso il mare della dimenticanza” di Iosif Aleksandrovič Brodskij