“Note azzurre” di Carlo Dossi: l’opera postuma, l’immediatezza del colloquio con il sé
Carlo Dossi ebbe una vita piuttosto breve e una vita letteraria ancora più breve, perché a quarant’anni smise di pubblicare, soprattutto a causa dei suoi impegni di carattere politico. La pubblicazione postuma, e quanto mai travagliata, delle sue Note azzurre ci ha rivelato che la scrittura lo accompagnò invece fin quasi alla morte.
Il lettore sarà tentato di credere che questo titolo curioso sia l’ultima bizzarria di questo scrittore, ma in verità esso deriva dal colore azzurro dei sedici quaderni in cui egli raccolse i suoi commenti di vario genere. Da non molto tempo abbiamo avuto la pubblicazione integrale dell’opera, con i sedici quaderni che hanno atteso per un secolo di essere liberati da una censura che ai nostri occhi appare quasi incomprensibile.
Mah! Perché mai anche nell’edizione del 1989 siano state censurate dodici annotazioni rimane un mistero. Chi potrebbe scandalizzare che il pio Manzoni criticasse in buon dialetto milanese Niccolò Tommaseo (uno scrittore, del resto, che ben pochi conoscono) perché aveva un piede in sagrestia e l’altro nel bordello? In un tempo cinico come il nostro ci lascia indifferenti anche il pettegolezzo sulla pederastia giovanile dell’autore dei Promessi Sposi.
Analogamente, la casa Savoia è stata così a lungo screditata ed esiliata dal nostro territorio nazionale che la scoperta dei satireschi appetiti sessuali di Vittorio Emanuele II, il “re galantuomo” dell’unità d’Italia, può solo provocare il riso. Tutti sapevamo della sua relazione con la “Bela Rosin”, la ragazza analfabeta che gli diede due figli e che, nominata contessa, divenne sua moglie morganatica, ma non conoscevamo il gustoso aneddoto che ci riporta la nota 4595: “Vittorio Emanuele II fu uno dei più illustri chiavatori contemporanei. A volte di notte svegliavasi di soprassalto, chiamava l’aiutante di servizio gridando una fumma, una fumma [una donna] e l’aiutante doveva girare i casini della città finché ne avesse trovata una, fresca abbastanza per essere presentata a sua Maestà… Quel Giove terrestre quando coitava ruggiva come un leone… possedeva un membro virile così grosso e lungo che squarciava le donne più larghe… il suo dottore di Corte aveva un gran da fare a raccomodare uteri spostati”.
La produzione narrativa di Dossi rivela come egli fosse incapace di oggettivare i suoi fantasmi in personaggi che fossero altri da lui stesso. Si può ragionevolmente dubitare che fosse un autentico narratore, in particolare un autentico romanziere, ma non si può non rimanere affascinati dalla grandezza del prosatore, dalla sua scrittura balenante di arditezze lessicali e linguistiche.
Io non mi spingo a dire che le Note azzurre sono il suo capolavoro, ma sono certamente un capolavoro nel loro genere, che è così raro nella nostra letteratura e per il quale non v’è altro precedente che lo Zibaldone leopardiano, mentre in seguito ne saranno riconosciuti maestri il Gadda saggista e il Landolfi della maturità.
Qui Dossi forse non raggiunge il vertice della sua prosa, perché è un’opera che non era sua intenzione pubblicare, in cui non si deve ricercare la creatività stilistica, ma l’immediatezza di un colloquio con se stesso, espressa con il carattere prevalente di un’ispida concisione.
Il termine Zibaldone, veramente, è il più idoneo, con la sua ascendenza illustre, a definire un’opera anguillesca, che sfugge a ogni facile classificazione: officina letteraria, quaderno di appunti, diario intimo e psicologico?
Le Note sono state scritte in un arco di tempo che va dall’ultimo anno di liceo a tre anni prima della morte dello scrittore, avvenuta nel 1910, e non sono databili con certezza. Quello che ne emerge, in ogni caso, è il ritratto di un uomo con la passione per i problemi di lessico e di stile, insoddisfatto e severo anzitutto con se stesso.
Lo abbozza, per esempio, la nota 5224: “La mia vita ebbe un circolo più ristretto della comune, ma il circolo si svolse e si chiuse completamente. Invece di 9, stetti 7 mesi nel seno di mia madre. Cominciai a pensare a cinque anni, e a scrivere a 7. A 16 anni stampavo. [rasura nel ms.] Ai 37 ero già entrato in vecchiaja con disturbi visivi, essiccamento di pelle, ateroma ecc. [rasura nel ms.]”.
Ogni lettore, ovviamente, può inoltrarsi a suo piacimento nel giardino di queste Note, che trae il suo fascino anche dalla frequente trascuratezza dei suoi fiori. Io comunque consiglio di assaporare il testo nella forma in cui è stato edito: una successione, priva di ordine cronologico, di testi trascritti da una brutta copia di foglietti. Ve ne spulcio qualcuno.
Un esempio tagliente di una misoginia che non era solo del Dossi, ma diffusa tra gli scapigliati (spero che le femministe non metteranno all’indice il libro): “343. Le donne sono tante serrature in cerca di chiave”. Una misoginia ribadita, in modo molto più greve, dalla nota 1412: “Il cane è la bestia, che io, dopo la donna, preferisco”.
Una nota della irreligiosità di Dossi, nella forma di una satira che sarebbe piaciuta a Voltaire: “376. Tale entra in una chiesa, dove si stava preparando lo scurolo [sepolcro che si allestisce nelle chiese nella settimana santa per rappresentare quello di Gesù Cristo] per il venerdì santo, e soprapensieri chiede: che c’è? – L’è mort noster Signor – risponde una vecchietta. -Mort? – fa egli – come? se saveva nanca ch’el fuss ammalaa [se non sapevo nemmeno che fosse ammalato]”.
Nella seguente la vena piccante di Dossi spezia il suo anticlericalismo: “389. Il Vescovo di Lodi, gran cacciatore da brescianella e roccolo, intervenuto agli esami in un collegio di fanciulle, diede loro per tema “del modo de ciappà i osei [di prendere gli uccelli]” – domandando poi, in particolare, a una che “gli parlasse dei verbi che esprimono il venire” – Nello stesso collegio il maestro di musica avea composto per le educande una cantata dal titolo “la passarina”.
Dossi è l’uomo delle sorprese. Nella nota seguente non solo conferma che nihil sub sole novi, ma dimostra che era sensibile alle sofferenze dei poveri e politicamente non sempre un conservatore: “569. Buone finanze, buona politica. Volete conoscere lo stato di un paese? guardate le sue finanze. Le sole condizioni finanziarie fanno le rivoluzioni. Oggidì (1870) in Italia non si vogliono economie, e si crede di cancellare il deficit imponendo nuove tasse – rubando il pane del povero col tassare le lire 600 di reddito, mentre si lasciano le spese di rappresentanza ai prefetti per far ballare gli aristocratici che possono ballare benissimo a casa loro. Ma il signor Sella pensa di riempire i vuoti crescendo le tasse, senza riflettere che la forza di un paese dà fino a un certo segno, come, nell’agricoltura, la fruttibilità di un terreno: e, in conclusione, facendo come chi chiudesse una fossa colla terra tolta da un’altra.”.
Qui Dossi dimostra una notevole acutezza, con la svalutazione, nella forma popolare di un proverbio, di un poeta per lungo tempo troppo famoso e che la critica nel Novecento ha poi ridimensionato. “1430. Della poesia di Carducci, tutta frasoni, può dirsi scarpa grande a piè piccolo.”
Le seguenti osservazioni sono condivisibili, tranne forse l’inciso conclusivo, che l’autore stesso esprime in forma di dubbio. Egli era un amante appassionato dell’umorismo in letteratura e considerava Richter, uno scrittore tedesco, dallo pseudonimo di Jean Paul, vissuto a cavallo del Settecento e dell’Ottocento (che ben pochi conoscono e quasi nessuno legge), più profondo di Shakespeare. “1749. Dei generi dell’Umorismo, nell’inglese domina la vena sentimentale (Sterne) – nel francese, la scettica (Rabelais) – nel tedesco, la vena della bizzarria (Richter) – mentre l’italiano conserva finora in tutto sobrietà – forse perché inceppato dalla tradizione classica.”
Anche al tempo di Dossi era diffusa la sciattezza dello stile. Una considerazione attualissima, anche se la colpa non è tutta dei quotidiani: “1783. La gazzetta o libro quotidiano recò danno al libro perpetuo, come ne avea già arrecato il libro annuale ossia l’almanacco – abituando gli scrittori allo scrivere affrettato quindi scorretto, e i lettori alla troppa facilità, che rado va unita alla profondità o acutezza di pensiero. Al giornale si deve la perdita dell’originalità nello stile; e la moderna incolorità della lingua”.
Una malinconica nota autobiografica non priva di una venatura di orgoglio, in cui Dossi manifesta la sua sopravvalutazione di Giuseppe Rovani, che considerava il suo maestro. “1898. Manzoni nella nuova letteratura italiana rappresenta la primavera, e Rovani l’estate. Rappresenterà Dossi l’autunno?”
Chi mai avrebbe immaginato che le carceri al tempo di Dossi fossero migliori di quelle contemporanee? “2036. Le carceri odierne ridanno ai detenuti l’aria, il sole, il pane fresco, la pulizia – togliendo loro la compagnia. Non giurerei che l’infelice ci guadagni nel cambio.”
Un’amara considerazione sul travaglio, dall’esito sempre incerto, dell’artista: “2164. L’entusiasmo artistico degli autori corrisponde alla gioja della concezione – la susseguente stanchezza, alla febbretta della gestazione – la fatica dell’esecuzione, al dolore del parto – E dopo tutto ciò, il parto è spesso infelice”.
Mi piacerebbe intrattenervi ancora, perché le Note azzurre degne, per ragioni diverse, di un’attenta lettura, sono innumerevoli. Spero comunque di avervi persuaso a visitare questo giardino, per odorare e cogliere con diletto i suoi fiori.
Written by Antonio Benedetti
Bibliografia
Carlo Dossi, Note azzurre, Adelphi
Info
2 pensieri su ““Note azzurre” di Carlo Dossi: l’opera postuma, l’immediatezza del colloquio con il sé”