“Deserto bianco” di Gian Stefano Spoto: reportage nella regione degli estremi
“Sul taccuino del cronista non troverete la storia ma storie. Sul taccuino del cronista non troverete analisi geopolitiche ma racconti di gente viva.” – la Storia non esiste senza le Storie. Esse dovranno essere salvate, col ricordo e con la scrittura, che è l’unica funzione operativa che ci differenzia dalle bestie.
Subito dopo la Prefazione, Spoto narra di Quella nevicata del ’14: “Il presepio bianco non è fantasia. La neve in Medio Oriente inaugurò il terzo millennio, presentandosi puntuale nell’anno Duemila.”.
L’assurdo miracolo si è ripetuto negli anni, evento ogni volta così straordinario che le sue vittime paiono come fissate per sempre nel gelo, perché a thing of frost is a death for ever.
“Mi chiede chi sono, da dove vengo, dove vado e perché, anche se le ho dato passaporto con visto permanente e tessera di giornalista accreditato in Israele. Sa benissimo che non posso non avere anche quella di Fatah, ma il gioco delle parti impone di non chiedere, dunque, non mostrare. L’importante è non tirare fuori quella sbagliata.” – sarebbe l’equivalente di una bestemmia pronunciata in chiesa.
Il reporter di guerra è sempre un tuo nemico potenziale, di cui devi diffidare e a cui sei tenuto a mostrare una tolleranza che è necessariamente priva di empatia.
Egli può scorgere in te l’eventuale errore (od orrore) e comunicarne l’eventuale strazio al mondo, in cui, oltre a te, risiede il tuo antagonista, che ognora desidera distruggerti e che tu vorresti annullato per sempre. L’odio che dura da troppo tempo diventa endemico e quasi irrinunciabile.
“A Gaza è sempre dopo-guerra, è sempre emergenza.” – la gente vive in un equilibrio instabile e talvolta caduco. “E quasi non serve cercare storie, sono le storie che ti si parano davanti, con discrezione, con educazione.” – che a ogni istante potrebbero diventare le istantanee di un incidente improvviso.
La guerra: “… non sa che fine faranno i bambini che ridono delle gag di Pimpa, ma sa che non potrà farli uscire da un Paese in cui la loro colpa di esserci nati li rende, in pratica, prigionieri.” – reclusi nel loro augurio di sopravvivenza.
“Tento di vedere il bicchiere mezzo pieno, ma c’è solo una goccia. E da queste parti fa caldo, presto evapora.” – il reportage non è mai nuda rappresentazione, è un colorare un’allegoria che era apparsa, di primo acchito, monocolore e fumante.
“È una chiave di lettura mobile, criptica per un occidentale: quando si crede di averne afferrato qualche meccanismo, qualche percorso labirintico, si trasforma, rivelandosi lontanissima da ciò che si dava per scontato.” – fra le lingue l’arabo è quella che più sembra, a chi non la conosce, composta da tutt’un’unica parola senza mai fine.
La questione è formale, ma rischia di diventare sostanziale per chi vive nel mondo occidentale, che per secoli ha visto la propria civiltà in opposizione all’altrui.
Chissà quando finirà questo misfatto?
Viene da domandare a chi possa servire. Forse a chi evidenzia le differenze altrui, per imporre le proprie.
“Un progressivo allontanamento del presidente Tayyip Erdogan da un’Europa che non aveva accolto lo stato anatolico nell’Unione, in seguito, coincise con una progressiva islamizzazione del Paese…” – con quel che seguì e che mutò “gli equilibri nel Mediterraneo”.
Il popolo turco è come un crogiuolo in cui ogni sviluppo sociale è teoricamente possibile e al contempo improbabile.
“Gli ebrei ortodossi hanno in comune con gli islamici un senso molto spiccato del decoro e della sobrietà femminile.” – per cui: “il risultato estetico è deprimente, la femminilità, sotto zero, fa rimpiangere il fascino misterioso di certe donne arabe.” – chi scrive è un occidentale e reagisce come tale. Non è semplice, per il lettore, comprendere esattamente e condividere. Quando ci si incontra (anche senza scontrarsi) con l’Altro, il pregiudizio è sempre un’arma a doppio taglio.
“Le feste ebraiche sono molto partecipate spiritualmente, e raramente sono gioiose.” – capitò anche a me, arşân tésta quédra, al primo impatto coi mesti cortei dei santi campani. Nulla avevano a che fare col casino allegro delle Feste dell’Unità.
“Due volte l’anno il rabbino Rabinowitz, con un bastoncino, fruga pazientemente fra le fessure del Muro del pianto rimuovendo tutto quello che la gente ha infilato.” – come fa un idraulico con un lavandino intasato. Mi domando se vi siano murales trasgressivi a Gerusalemme.
“I musulmani sono musulmani” – come “dice una donna, con aria fra il pettegolo e il sentenzioso…” – la Storia è anche l’Enciclopedia delle maldicenze.
“Pochi sanno che, percorrendo non molti chilometri di deserto, partendo da Gerusalemme, ci si può immergere nella storia e nella fede.” – io credevo di saperlo, grazie alla mia saccente ignoranza, che a volte mi prende per chissà quale mistero.
“Tre monasteri, ognuno con sue regole rigide e talvolta bizzarre”: rispetto al nostro senso del movimento e della normalità.
“… il tempo ha regole a parte, che cambiano ogni settimana. Basti pensare che la mezzanotte non è fissa, ma coincide col tempo.” – un’osservazione che non finirà mai di stupirmi.
“Fra ebrei e cristiani i rapporti non sono cattivi, ma nemmeno buoni.” – come dire: pericolosamente immoti.
“Questa sorta di apartheid avvicina di fatto cristiani e musulmani…”: ognuno alienato a modo suo, ma solidale con l’Altro.
Il capitolo Bibi sempre in piedi termina così: “Netanyahu in croce, Netanyahu sempre in piedi.
Nel bene e nel male è diventato ed è un mito, il simbolo dell’ineluttabile, anche se la storia, forse, ne parlerà in termini diversi rispetto a quelli usati dalla cronaca.”
Si tratta del capitolo meno narrativo e più giornalistico, eppure anch’esso, come i precedenti, mi fanno dire che l’opera di Spoto è un documentarismo esistenziale, più simile alla prosa di Bukowski che a quella di Gogol. Ho scelto a proposito due autori fra loro incongruenti, ma avrei potuto dire anche: più alla Vittorio G. Rossi che alla Hemingway.
Spoto non inventa nulla, ma esamina vivendo e vive esaminando.
Anzi, quasi nulla. Anche per un onesto reporter la Verità non può essere assoluta. La finzione non può mai raggiungere lo zero assoluto. Se lo facesse, la realtà apparirebbe come inerte. La scrittura necessita del movimento per fondare la sua ragion d’esistere.
Lo stesso vale per me, che mi pongo sul lato opposto della medesima striscia di Gaza, quello destinato al lettore.
Egli scrive: “È interessante scoprire come un leader di destra sia sempre riuscito ad attirare su di sé i consensi degli strati più bassi della popolazione.” – dovunque il Potere antidemocratico favorisce l’ignoranza tra le classi più sfortunate.
Ricordo quando, nel 1994, un’immigrata del Sud Italia, non molto scolarizzata, dichiarò a mia moglie l’intenzione di votare chi le faceva vedere tanti bei film in televisione.
In Israele la massima parte dei poveri, dei coloni, degli ortodossi votarono Bibi perché credevano che solo quel Leader duro e sfrontato potesse difendere il loro futuro.
Si tratta di scelte diverse, basate su diverse consapevolezze dei propri problemi: “Lui è il migliore, nessuno può sostituirlo. Se non lo eleggiamo, torneremo nei rifugi per ripararci dalle bombe.”
Spoto sa descrivere con tanta accuratezza Sara, la consorte di Bibi, che mi sono sentito invogliato a cercare la sua immagine su Google. La mia reazione, tipicamente arşâna (reggiana) nel vedere la sua figura è stata: Oh mama!
Non avrei affidato a quella strana coppia la gestione del mio condominio.
Eppure, dato per sconfitto, “contro tutto e contro tutti Netanyahu, anche allora vinse. Seppure con vantaggio minimo, come pure sarebbe avvenuto alle elezioni successive, nel 2019, in cui…” – un animale vincente politicamente, al di là di qualsiasi valore umano. La Storia dirà la sua (quando, non si sa).
Spoto incontra “Hanna Weiss, una delle ultime superstiti dei campi di sterminio nazisti.”
Lei dice che “nei campi noi eravamo ‘muselmann’, termine coniato per indicare chi ha le sembianze umane, ma non è più umano. E io non ero una persona, ero una muselmann.”
Tornata in libertà, tornò immediatamente ebrea.
Un “ingegnere naif”, anche lui sopravvissuto ai lager, dice qualcosa di terribile e di magnifico al contempo. “Mi giro, lo guardo e capisco che in certi casi nessuna espressione del mio viso è giusta.”
Ecco qui un residuo d’inevitabile finzione, quella che sa individuare una parte di Verità solitamente celata. Ignoro cosa pensasse Spoto in quel momento. So quel che aveva in mente quando stava scrivendo. Questo passaggio temporale legittima qualsiasi variazione rispetto alla realtà accaduta.
Continua: “Hanna ascolta il mio racconto, che finisce con una domanda…”
A cui lei risponde: “… Ero tutta felice, com’era bella, quella tuta! E come ero bella io: improvvisamente, dentro quell’abito, mi sono sentita una persona umana.”
Mezzo secolo dopo Hanna ha rivissuto con noi quell’attimo verace della sua Storia.
“Hanna fa una pausa, e mi fissa come se volesse essere certa che io le creda. Ma io non annuisco, sono rapito dal racconto. Sorrido.” – anche lei sta narrando.
“… il mio mestiere è meraviglioso, ma talvolta i tempi costringono alla superficialità, e la sintesi è nemica dell’approfondimento e talvolta dell’umanità.” – quando si vive è così, quando si scrive no (ma sto forse scherzando).
“Il Medio Oriente è terra di contrapposizioni, di odi, ma anche di sentimenti che passano da un eccesso all’altro.” – terra fantastica che fa fantasticare, ottima da rimirare col cannocchiale. Eppure, questo libro… chissà… dove mi porterà!
“Ci sono stati troppi attentati, dunque, manderà i suoi tre figli nella stessa scuola, ma con autobus diversi. Se uno dei ragazzi dovesse saltare in aria per una bomba sul bus, rimarrebbero gli altri due.” – stessa tattica che aveva adottato una famiglia reggiana di mia conoscenza, coi figli che se ne uscivano il sabato sera, ognuno con la propria auto, anche se la destinazione era la stessa. Tutto il paese è mondo.
“In questo libro siamo partiti dalla neve, un’emozione così forte che persino la vita di redazione, dove spesso dieci secondi sono decisivi, si fermava qualche attimo. E tutti guardavamo la piscina sui tetti davanti alla mia finestra mentre si riempiva di…”.
Quando mi capitò di veder fioccare ad Amalfi conclusi che ormai tutto era possibile, anche che un bel giorno eruttasse il Cusna e che un parmigiano anomalo pronunciasse finalmente una r.
Finita la lettura, mi viene da dire che, pur rimanendo tutte le differenze etniche, religiose e culturali presenti nel Pianeta Azzurro, non è un sogno irrealizzabile che ne cessino finalmente le diaboliche conseguenze. Preghiamo, ognuno nel modo in cui è capace.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Gian Stefano Spoto, Deserto Bianco, Graphofeel Edizioni, 2021