“La follia di Hölderlin” di Giorgio Agamben: cronaca di una vita abitante

Da quasi un anno vivo ogni giorno con Hölderlin, negli ultimi mesi in una situazione di isolamento in cui non avrei mai creduto di dovermi trovare. Congedandomi ora da lui, la sua follia mi sembra del tutto innocente rispetto a quella in cui un’intera società è precipitata senza accorgersene.

La Follia di Hölderlin di Giorgio Agamben
La Follia di Hölderlin di Giorgio Agamben

Traggo questa riflessione dall’ultima pagina del libro La follia di Hölderlin di Giorgio Agamben, pubblicato recentemente da Einaudi, riflessione ripresa da quasi tutti i suoi recensori per l’esplicita allusione alla realtà in cui il mondo di oggi è venuto a trovarsi.

Tuttavia, anche se il concetto è ben chiaro, non concordo del tutto col termine “innocente”. Quale follia non lo è? E mi è anche difficile riferire alla follia la condizione in cui ci hanno trascinati più che altro l’ignoranza, la cecità, l’incompetenza.

Per una curiosa coincidenza, ho letto il libro di Agamben subito dopo quello dello psichiatra tedesco Uwe H. Peters, autore di Robert Schumann e i tredici giorni prima del manicomio (Spirali, 2007). Anche se entrambi gli autori procedono ruotando intorno a una follia “storicizzata” da molta letteratura romantica, i risultati cui mirano sono diametralmente opposti.

Mentre lo psichiatra tedesco, peraltro conoscitore profondo della musica, conduce una serratissima indagine clinica per emettere infine una diagnosi che esclude la malattia mentale del paziente Robert Schumann, Agamben procede in direzioni diverse, coniugando gli elementi puramente storico-biografici con la dimensione poetica, con quella politica, religiosa e spirituale senza voler dimostrare alcunché. Tanto più che i dubbi e le riserve sulla follia del grande poeta tedesco sono stati sollevati da più parti fin dall’Ottocento. L’analisi del filosofo non pretende di chiudere il discorso sulla condizione di Hölderlin, ma di lasciarlo aperto semmai ad altri interrogativi.

Il libro si apre con la distinzione fatta da Walter Benjamin nel Narratore:Lo storico è tenuto a spiegare, in un modo o nell’altro, gli eventi di cui si occupa; non può limitarsi a presentarli come esempi nel corso del mondo. Che è proprio ciò che fa il cronista, specie nei suoi rappresentanti classici, i cronisti medievali, che furono i precursori degli storici moderni…

Nel lavoro di Agamben – tripartito in un’introduzione, un corpo centrale (che raccoglie documenti in parte inediti in Italia) e un epilogo – si possono cogliere infine entrambe le posizioni, del cronista e dello storico.

Si sa che Hölderlin ha vissuto i primi 36 anni della sua esistenza “nel mondo” e gli ultimi 36 “da recluso”, se così si può definire il soggiorno durante il quale, dopo un breve ricovero nella clinica psichiatrica del professor Ferdinand Autenrieth a Tubinga, fu pensionato presso la famiglia del falegname Ernst Zimmer a partire dal 1807 fino alla morte.

Uomo di buona cultura (aveva letto il suo romanzo Hyperion), Zimmer mostrò sempre rispetto e benevolenza nei confronti del poeta. Forse anche affetto. Ed è lui, che attraverso le lettere scritte alla madre di Frederick per informarla della salute del figlio, o per inviarle i conti delle spese sostenute, a fornire la più minuta testimonianza sulla vita quotidiana dell’eccezionale pensionato. Se sta bene o sta male, se mangia, e cosa mangia, se rifiuta il cibo, se di notte veglia o riposa, se va in giro nel buio dei paraggi, se suona il pianoforte e cosa suona…  Zimmer è stato attento alla vita di Hölderlin forse assai più di quanto il suo ruolo richiedeva. Del resto la sorveglianza puntuale di un estraneo che si ha il compito di accudire, curare, nutrire, genera a lungo andare una relazione complessa, che può risolversi o in una sopportazione sorda, o in un’intesa di intrecci sentimentali indefinibili da ambo le parti. Senza la quale Zimmer non avrebbe potuto esprimere, in una lettera a un amico del 1835, una velata riprovazione nei confronti della madre di Frederick: “L’infelice Hölderlin era destinato alla sventura fin dal ventre materno. Mentre sua madre era incinta di lui, fece voto che se fosse stato un maschio l’avrebbe destinato al Signore…

Voto che Johanna Christiana Heyn, figlia bigotta di un pastore protestante, esaudì quasi fino in fondo, obbligando il figlio a diventare teologo. Una sorte alla quale Hölderlin infine si oppose, allorché rifiutò la proposta del cancelliere Lebret di diventare parroco di Wolfenhaussen a condizione di sposare sua figlia.

Friedrich Hölderlin ritratto dall'amico Franz Karl Hiemer, 1792
Friedrich Hölderlin ritratto dall’amico Franz Karl Hiemer, 1792

I rapporti tra Hölderlin e sua madre furono invece, come si può immaginare, spesso molto tesi, anche se il poeta, in rispetto alle convenzioni della condizione sociale cui apparteneva, evitò sempre dall’esprimere apertamente il suo disamore, se disamore vi fu. E a questo riguardo bene ha fatto Agamben a pubblicare anche le lettere del poeta dirette alla madre Johanna Christiana, dalle quali emerge in modo netto non solo la distanza tra i due, ma anche l’ironia di cui era capace nell’indirizzarle improbabili parole di affetto filiale.

La Sua tenerezza ed eccellente bontàscrive Hölderlin in una lettera del 1814risvegliano la mia devozione alla gratitudine … Io penso al tempo che ho passato con Lei, reverendissima madre! Con molta riconoscenza. Il suo esempio pieno di virtù mi rimarrà nella lontananza sempre indimenticabile e mi incoraggerà a seguire i Suoi precetti e a imitare un così prezioso esempio. Professo la mia sincera dedizione e mi nomino suo devotissimo figlio…

Può un “folle” possedere e dar prova d’una facoltà che viene attribuita di solito alle menti più lucide? Su quest’ironia, e la sua difficile correlazione con la follia, si sofferma giustamente Giorgio Agamben, senza tuttavia trarne facili conclusioni.

Va ricordato che mai, durante i 36 anni trascorsi dal poeta a Tubinga, Johanna Christiana, amministratrice unica del patrimonio di famiglia, ha fatto visita a suo figlio presso la casa del falegname Zimmer. In quella casa Hölderlin occupava una stanza all’ultimo piano, un ambiente a forma circolare, e per questo motivo definita “la torre”, con una vista incantevole sul fiume Neckar e sulla sua valle.

Nella torre, anziché la madre, il poeta accolse, reagendo quasi sempre con grazia e con stupore, più di un visitatore sconosciuto, per lo più ammiratori, che dopo aver letto i suoi incomparabili versi, o il romanzo Hyperion, vollero conoscere la persona dell’autore.

Tra costoro particolarmente presente fu Wilhelm Waiblinger (1804-1830), studente convittore dello Stift, sede del seminario teologico dell’antica Università di Tubinga, frequentato 25 anni prima dallo stesso Hölderlin nel periodo in cui vi studiarono anche Hegel e Schelling, suoi coetanei. Oltre che compagni di studio, costoro furono legati da profonda amicizia e dalla fede negli stessi ideali. Tutti e tre criticarono tra l’altro l’arretratezza dei sistemi didattici di Tubinga, tutti e tre condivisero l’entusiasmo per la Rivoluzione Francese.

Wilhelm Waiblinger – che Hermann Hesse sceglierà quale protagonista di Nel chiosco di Pressel (1913), uno dei testi letterari più sottili e affascinanti che siano stati scritti su Hölderlin – si presenta per la prima volta al Poeta nel luglio del 1822. Ha diciotto anni e gliene restano da vivere soltanto altri sette. Morirà a 25 anni, a Roma. È un giovane insicuro, appassionato, febbrile, entusiasta delle opere di quello strano abitante della torre. In cerca di sé stesso, d’una strada da seguire, di un’opera da comporre, Waiblinger intravvede in Hölderlin, per folle che sia, una luce capace di illuminarlo, di indicargli una via. Torna più volte a trovarlo, lo porta a spasso, lo osserva, lo interroga, gli mostra i propri versi, lo ascolta mentre legge ad alta voce il suo Hyperion. E tutto annota scrupolosamente nei suoi diari, che si riverseranno in una biografia che sarà pubblicata, postuma, nel 1831.

È sulla qualità e il valore dell’esistenza di Hölderlin che Agamben infine si interroga, e non a caso il suo libro reca come sottotitolo Cronaca di una vita abitante. Ma che cos’è una “vita abitante”? Cosa vuol dire? Si può concepire una vita che non lo sia? Per qualche verso tale concetto sembra richiamare quello della “vita autentica” elaborato da Heidegger, di cui è noto il culto per il grande poeta tedesco, e al quale il filosofo tedesco dedicò uno dei suoi saggi più straordinari. Ma l’abitare di Hölderlin richiama piuttosto l’habitus, l’abitudine, la scelta di un modus vivendi disarticolato, discontinuo, che si affranca da ogni possibilità di affanno, di compromesso, o di eccezione.

Giorgio Agamben
Giorgio Agamben

Poco sopra si è ricordata l’amicizia con Hegel, il quale, negli stessi anni in cui Hölderlin prende a slittare verso un’imperscrutabile dimensione, elabora la sua categorica logica triadica (essere, non essere, divenire) sulla quale dibatterà tutta la ricerca filosofica occidentale a venire. E il suo amico poeta, con l’esistenza che ha scelta, sembra porsi in aperta contraddizione rispetto alla formula pretesa infallibile del grande filosofo. L’essere stato e il non essere di Hölderlin non trova soluzione in alcun divenire, giacché l’ambito in cui si reclude è uno spazio antitragico entro il quale egli è, e al tempo stesso non è, in un’indeterminatezza del vivere priva di opposti, di conflitti, dove lo scorrere stesso del tempo sembra anch’esso privo di una direzione qualsiasi.

Paradossalmente, è soprattutto la seconda parte del percorso di Hölderlin – quella della non esistenza, della vita “abitante” in cui apparentemente nulla accade – ad accendere la fantasia dei suoi lettori, e sulla quale si concentrerà l’attenzione di quasi tutti i biografi, artisti, scrittori, drammaturghi e filosofi, come pure dimostra questo interessantissimo e ultimo libro di Agamben.

 

Written by Riccardo Garbetta

 

Un pensiero su ““La follia di Hölderlin” di Giorgio Agamben: cronaca di una vita abitante

  1. La solitudine del poeta si diffonde in ognuno dei suoi lettori, e diventa silenzio universale.

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