“Forse non morirò di giovedì” di Remo Bassini: la libertà che nasce dall’onore

A metà circa della lettura, sono ancora perplesso. Sto assistendo, celato nella stanza, tra i cumuli di fogli sparsi, alla nervosissima discussione che si sta svolgendo tra i redattori del giornale.

Forse non morirò di giovedì di Remo Bassini
Forse non morirò di giovedì di Remo Bassini

Come già mi capitò in casi simili, inizio a dubitare che riuscirò a scrivere una reazione al romanzo.

Oh, fossi un serio professionista della critica e non lo sono, né serio, né tantomeno professionista!

Cosa farebbe colui che non sono? Compierebbe il suo compito istituzionale: esaminare il valore dell’opera; pervenendo a un giudizio definitivo e quasi etico: ottima scrittura, oppure pessima, se non banale; testo inconcludente, ovvero raffinata analisi del mondo dei giornali.

Purtroppo odio i compiti, e la cosa non mi va giù. Non sono proprio capace di comportarmi da studente modello (dalle mie bande si dice a sûn mia bòun!, non sono micca buono!, come se il valore fosse un dato etico).

A scuola patii tutta una serie di guai e problemi, da cui non sono mai uscito. Ma fa li stèss!

Esamino, avendo poc’altro da fare, la copertina. Una scrivania di fòrmica giallino, con qualche screziatura, un paio di quotidiani (anzi, mi pare che sia lo stesso, diviso in due), su cui è posata una tazzina che contiene tracce di un caffè già sorbito, un piccolo notes ad anelli, su cui è adagiata, molliccia, una penna a sfera: tutto questo sul lato alla mia destra. Sul versante opposto, in basso, si nota un foglietto accartocciato.

Non appartengo completamente a questa generazione, né a quella appena trascorsa. Quando frequentavo le elementari, c’erano dei banchi di legno in cui era inserito sulla sinistra una fessura nella quale era posto la boccetta dell’inchiostro, mio immenso tormento privo di estasi.

Anni dopo, incontrai il mio maestro Enrico Paoli, uomo durissimo quanto empatico, e lui, quasi novantenne, fece fatica a identificarmi. Quando gli dissi il mio cognome, ebbe un lampo: “Ah! Sei Macchiafacile!” – l’antico maestro si ricordava di quella volta che rovesciai per caso la boccetta sul suo Atlante Storico Paravia, di cui era così orgoglioso.

Papà dovette ricomprarglielo e ora l’originale lo custodisco come una reliquia in solaio, insieme alle rivistine che Paoli mi regalava quando avevo mostrato interesse per un determinato argomento o avevo azzeccato una risposta difficile.

Gran Maestro Internazionale di Scacchi, tre volte campione italiano, capitano di lungo corso, violinista diplomato in un qualche Conservatorio, poliglotta, nonché triestino fuggitivo nel primo dopoguerra, non solo credo, ma sono certo che Enrico Paoli sarebbe stato un incorruttibile direttore di giornale.

A proposito, a pagina 97 e 98, un paio di personaggi discutono sul valore del verbo credere (ne parlerò più avanti).

È a questo punto che decido di provare a vergare le mie impressioni, accada quel che accada.

Il protagonista è Sovesci, autorevole e combattivo direttore del giornale, che a pagina 42 “pagherebbe a peso d’oro una delle sue bustine per l’emicrania.”

Il lavoro da lui svolto giorno dopo giorno è stressante, anche se è tutta la sua vita, così almeno pare.

A pagina 48, alla domanda se la sua redazione fosse composta da persone libere, lui risponde: “Questa domanda me la pongo ogni giorno.

Leggendo, s’impara sempre qualcosa. La pagina successiva scopro che, da quando Sovesci ha assaggiato il Gragnolino,se n’è perdutamente innamorato e ha tradito il Dolcetto, il suo vino preferito.” – ed è come se un’amante focosa gli avesse fatto mettere in una posizione di ripiego la mogliettina a cui era da anni affezionato. Lo stesso mi capitò un giorno, quando misi quasi in dubbio il valore teologico del Lambrusco Scorzamara, bevendo il mio primo Prosecco. Ma presto, con animo compunto, me ne tornai al mio primo amore.

Sovesci ha un suo fascino âgé, e per Caterina, a pagina 50, “era il suo eroe, e il suo eroe, adesso, è un guerriero vecchio e stanco che ha alzato la testa e che la sta guardando con dolcezza.”

Dicono a Pixuntum che la vecchiaia tenee cauze (calze) rosse, perché reca le disgrazie, una appresso all’altra.

Il pensiero corre come un forsennato all’inquietante titolo.

Simona, l’adorata metà, un giorno (s’indovini quale) l’aveva mollato di punto in bianco e se n’era andata. Ora vorrebbe tornare da lui, ma lui non vuole. Forse.

Esistono vari tipi di giornalisti e sono elencati a pagina 53 e 54. Quello che più mi affascina è “il giornalista che si fida solo di quello che sente e vede, ed è il migliore, perché sarà il più attento.”

Appunto importante:Il miglior giornalista è quello che ha il coraggio di alzare la mano e di chiedere spiegazioni, quello che non dà confidenza a…in sintesi: a nisciunu.

Simona se ne andò di giovedì, Arno lo trovò morto un giovedì mattino.

Morirò di giovedì.” – è la meditazione di Sovesci che colgo a pagina 96.

Nelle due pagine successive colgo la discussione fra il diretto del giornale e il maresciallo dei Carabinieri, molto stimolante, forse troppo:

Tu credi nello Stato, nella giustizia, nell’Arma. Io credo nel giornalismo e nella libertà. Sai dove sta l’errore. Nel verbo credere.” – così Sovesci domanda a pagina 97.

Il graduato gli risponde che pensa ai suoi figli: “li ho cresciuti come mio padre ha cresciuto me; quindi io voglio che credano.

Entrambi queste oneste persone credono nella Verità. Le altre meno, e sono coloro che pretendono di decidere in nome della convenienza e non della giustizia. E qui nasce il dramma. L’origine di ogni problema esistenziale e lavorativo.

La tentazione che ha ora Sovesci è di lasciare tutto, come la moglie ha fatto con lui.

Fino a questo punto non avevo reagito con la scrittura, ma solo con l’anima (che parola grossa!).

Qualcosa è cambiato, una parola, forse una frase mi sta smuovendo. Forse è stato quel fatto del credere.

Non so se e quanto mi sia identificato con lui. Non ho nemmeno ipotizzato di diventare un direttore in qualsiasi campo, perché non amo dirigere gli altri, ma solo me stesso. Mi scoccio tanto di comandare quanto d’obbedire. Amo comprendere. E condividere, se capita. Sono quel che si dice un cane sciolto. Per anni ho lavorato in un istituto complesso e ho seguito le direttive che erano indicate nelle circolari e nella messaggeria istituzionale.

Nella mia recente condizione di liberto, ho sentito all’improvviso la gravità del peso che allora pativo con amara sopportazione.

Provo pietà per Sovesci, uomo ricco di pietas, dove il Dio in cui confida è solo un’ombra fuggevole. Lo giudico Altro da me, forse migliore, forse no. Chissà, vedremo.

Intanto, la redazione gli sta facendo guerra aperta e c’è qualcuno, forse Di Maso, lo storico e acerrimo rivale, che sta meditando un bel putsch ai suoi danni. Una situazione molto frequente, soprattutto in questo periodo storico, in cui scarseggiano gli ideali: gli alleati di ieri diventano i Catilina di oggi, i nostri debitori attuali presto reclameranno i nostri crediti.

Sic transit gloria mundi. E, a essa, segue l’illusoria amicizia e la relativa riconoscenza.

A pagina 104, appare chiaro che per Sovescila sua vera casa è il giornale”, oppure la “casa in cui ha vissuto con Simona.”

Remo Bassini
Remo Bassini

Ovunque egli sia, gli importa creare un contatto con gli Altri, che qui sono rappresentati dai lettori, i quali “sanno che lui non li tradirà mai, perché sanno” il suo pregio: “non sa o non vuole mentire.”, almeno così c’informa la pagina che segue.

A pagina 111, “la parola ‘pensione’” pare terrorizzare Sovesci: “non vuole invecchiare, lui”. Io nemmeno, ma nessuna ragione umana può farmi rinunciare al tempo libero.

Ho l’impressione che la massa di problemi, affanni e preoccupazioni collegate a quel suo mestiere faccia parte del fascino e del marcio che è insito in esso.

Mestiere, professione, lavoro, tre termini che non indicano la medesima cosa. Sono come tre consanguinei che talvolta vanno d’accordo, ma che per lo più si guardano in cagnesco. È così anche per Sovesci?

Pagina 114: “… se un giornalista scrive procrastinabile lui lo corregge e lo invita a non farlo più.” – non è una questione di termine, ma di senso: “In un giornale – è una regola sacra – si scrive semplice, perché il semplice arriva tanto a chi ha due lauree quanto a chi non ha fatto studi.” – anche per chi spesso marinava la scuola e che puntava al sei e mezzo, tanto per non rischiare troppo.

Lo stile di Remo Bassini è semplicemente complesso e complessivamente semplice. Se tu pigli in mano un ossimoro e lo sovrapponi al suo opposto, crei qualcosa che è maggiore della somma delle loro masse, come capita alle particelle subatomiche. È una questione di interazioni che, mischiandosi, creano sempre dell’Altro.

Beffardo quesito a pagina 173:E voi sapete cos’è il coraggio?” – Sì, è quell’impeto etico che serve per rinvenire un’ombra di Verità, e per difenderla, jettand’o sangue.

Il romanzo di Remo Bassini è un thriller, il cui scioglimento porta all’identificazione di chi vuole occultare la Verità.

La narrazione è in terza persona, ma il protagonista che vive al presente, pagina per pagina, è un io narrante ad honorem: se non ci fosse Sovesci, in un perenne e instabile equilibrio tra azioni e pensieri, non ci sarebbe alcuna storia.

Egli da sempre si sforza d’intravedere la verità in fondo al pozzo, senza timore di sfracellarsi.

Anzi, si sfracella ogni volta, rialzandosi ogni volta, come se niente fosse, o quasi. Sovesci è un eroe con le costole gravemente incrinate.

Lottare per la Verità significa essere questa sorta di eroi, in un mondo fondato sulle menzogne, dove chi, mentre inganna il prossimo, non vede l’ora di correre a vantarsi a migliaia di chilometri di distanza, e che senz’altro troverà sempre qualcuno che saprà riconoscere il suo orrido genio.

Oggi è finalmente giovedì.

Proverbio cilentano del giorno: chi rice ‘a verità vol esse accisu. Chi la persegue, diventa un ostacolo ed è cosa buona che sgomberi il campo per non intralciare il passo a questa fallace forma di libertà.

È come l’assurdo grido: Abbasso la finta libertà!, che mi ricorda l’emozione che provo ogni qual volta mi capita di ammirare Los fusilamientos del 3 de mayo di Goya.

Abbasso la libertà di chi nega quella altrui!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Remo Bassini, Forse non morirò di giovedì, Golem Edizioni

 

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